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La Stampa Rassegna Stampa
30.11.2005 I terroristi devono essere fermati prima che colpiscano
un'intervista a Condoleezza Rice e una mappa della minaccia di Al Qaeda in Europa

Testata: La Stampa
Data: 30 novembre 2005
Pagina: 11
Autore: Maurizio Molinari - Barbara Slavin e Ray Locker
Titolo: «Europa, tutti gli uomini di Al Qaeda - Condy: fermiamoli prima che colpiscano»
LA STAMPA di mercoledì 30 novembre 2005 pubblica a pagina 11 un articolo di Maurizio Molinari, "Europa, tutti gli uomini di Al Qaeda", che spiega quale minaccia incomba su un Europa non del tutto consapevole:
Gli algerini furono i primi ad insediarsi all’inizio degli anni Novanta. Ansar al Islam ha creato il network di volontari da inviare al fronte prima in Afghanistan e poi in Iraq. Le cellule più organizzate e violente sono quelle salafite marocchine, mentre gli attentati di Londra hanno segnato il debutto dei pakistani.
E’ questa la radiografia del terrore islamico nel Vecchio Continente descritta dalle 400 pagine di «Al Qaeda in Europe» pubblicate a New York da Prometheus Book e scritte sulla base di numerosi studi di intelligence dall’italiano Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo della task force dell’«Investigative Project» di Washington, a cui lo scorso aprile la commissione Relazioni Internazionali della Camera dei Rappresentanti chiese di testimoniare sulle caratteristiche dell’estremismo islamico in Europa.
Per capire quanto conta Al Qaeda in Europa basta guardarsi indietro: l’11 settembre 2001 fu preparato da una cellula in Germania, gli attentati alle ambasciate Usa in Africa Orientale nel 1998 vennero finanziati da un’associazione di beneficienza a Dublino, il comandante afghano Massoud venne eliminato da Osama bin Laden grazie a due giornalisti-kamikaze venuti dal Belgio, l’assalto alla sinagoga tunisina di Gerba nel 2002 fu pianificato in Francia e Germania, mentre negli ultimi quattro anni attentati sono stati eseguiti o tentati a Madrid, Londra, Parigi, Milano, Berlino, Porto ed Amsterdam.
Le origini della presenza di una miriade di cellule che si rifanno a Osama bin Laden risale alla fine degli anni Ottanta quando numerosi Paesi europei diedero asilo per motivi umanitari a fondamentalisti islamici provenienti da Paesi arabi, alcuni dei quali reduci dalla guerra in Afghanistan. «La conseguenza fu che alcuni dei leader estremisti trovarono in Europa non solo il rifugio ma anche una base operativa», scrive Vidino. Naque così un network di piccole moschee fondamentaliste - a fianco di quelle moderate - che ha consentito agli islamici algerini di tentare nel 2000 l’assalto a Strasburgo, ad Ansar al Islam di reclutare da Milano volontari per la jihad, ai salafiti marocchini di studiare per tre anni le ferrovie di Madrid ed ai pakistani di Leeds di addestrarsi a colpire nel cuore della metrò di Londra.
Si tratta di una galassia di gruppi, organizzazioni e singoli che a volte si incrociano e si conoscono - grazie anche al fatto di aver dormito sotto le stesse tende in Afghanistan - ma spesso sono slegati fra loro. Ciò che li accomuna è da un lato il sentirsi volontari della jihad lanciata nel 1998 da Osama bin Laden contro «ebrei e crociati», e dall’altro delle caratteristiche simili perché se i leader islamici sono gli esuli degli anni Ottanta chi colpisce sono invece quasi sempre musulmani di seconda generazione - ovvero cittadini europei a tutti gli effetti - e sempre più spesso cristiani convertiti all’Islam. Musulmani di seconda generazione sono i kamikaze pakistani di Londra come l’assassino marocchino del regista olandese Theo Van Gogh ed alcuni dei volontari partiti da Milano per farsi esplodere in Iraq. Mentre il fenomeno dei convertiti ha i volti del francese David Courtailler implicato nel tentativo di attaccare l’ambasciata Usa a Parigi nel 2001, del britannico David Sinclair caduto a fianco dei mujaheddin in Bosnia, del tedesco Thomas Fischer volontario in Cecenia e del polacco Christian Ganczarski che incontrò Osama bin Laden in Afghanistan. A loro tratti e nomi europei consentono di superare facilmente i controlli.
L’Italia è uno dei crocevia dei seguaci di bin Laden: tutti e quattro i network passano per Milano mentre gli algerini sono presenti anche a Napoli, Ansar al Islam a Parma, i salafiti a Torino e Varese ed i pakistani hanno una testa di ponte a Desio. Per reclutare usano le moschee quanto le carceri - in Spagna, Francia ed Italia la percentuale di detenuti musulmani continua a crescere - mentre la prevenzione è ostacolata dal fatto che «il terrorismo non è facile da definire per legge e ciò lo rendere difficile da prevenire». Sebbene magistrati come il francese Jean-Louis Bruguière invochino da tempo leggi più rigide l’Europa sembra avere le mani legate di fronte ad una minaccia che nasce nel suo stesso seno. Come dimostra il fatto che le normative in vigore hanno consentito ad Abdelghani Mzoudi e Mounir El Motassadeq - due dei complici amburghesi di Mohammed Atta, il capo del commando dell’11 settembre - di non essere condannati in Germania così come avvenuto nel 2003 in Olanda per dodici trafficanti di droga marocchini che finanziavano le cellule salafite ed in Gran Bretagna per numerosi confessi reclutatori di volontari della jihad in Iraq.
Sempre a pagina 11 LA STAMPA riprende da Usa Today un'intervista di Barbara
Slavin e Ray Locker a Condoleezza Rice, "Condy: fermiamoli prima che colpiscano", dove il segretario di Stato americano spiega la determinazione degli Stati Uniti a incentrare la politica antiterroristica sulla difesa delle vite dei propri cittadini .

Ecco il testo:

Lei ha detto che l’anno prossimo il numero delle truppe in Iraq verrà ridotto. Se il prossimo governo iracheno chiedera un calendario del ritiro, glielo darete?
«Noi ovviamente collaboreremo con il nuovo governo iracheno quando si insedierà, ma vorrei ricordare che finora i governi dell’Iraq hanno mostrato il bisogno delle forze multinazionali. E’ per questo che abbiamo chiesto all’Onu di dotarle di un mandato che è stato appena rinnovato. Le forze di sicurezza irachene stanno migliorando, e il presidente ha sempre detto che quando saranno in grado di camminare da soli, noi ritireremo il nostro mandato».
Ma c’è una maggiore pressione dell’opinione pubblica americana e irachena.
«E’ chiaro che tutti voglino la riuscita di questa missione, ma quando si parla di sicurezza bisogna basarsi sui risultati. La sicurezza viene garantita in misura sempre maggiore dalle forze di sicurezza irachene che si mostrano sempre più capaci di controllare il territorio, la strada per l’aeroporto, per esempio».
Un ritiro l’anno prossimo? Il Pentagono ha detto che scenderà a 138 mila unità dopo le elezioni e in seguito spera di andare sotto le 100 mila per la fine dell’anno.
«Il presidente ascolterà quello che i suoi comandanti avranno da dire sulle condizioni, sulle capacità delle forze di sicurezza irachene, e di conseguenza deciderà il numero delle truppe».
Un ministro dell’Unione Europea ha parlato di sanzioni contro i Paesi membri che ospitano le cosidette prigioni segrete della Cia. Questa situazione ha complicato il suo lavoro con alcuni Paesi europei?
«Sono stata molto chiara, come anche gli altri membri dell’amministrazione: noi combattiamo una guerra al terrorismo e ci sono esigenze a cui dobbiamo adempiere per proteggere non solo noi stessi, ma anche gli altri. Purtroppo, l’Europa ha pagato il suo prezzo per il terrorismo, in Spagna e in Gran Bretagna. Stiamo tutti cercando di fare del nostro meglio - con cooperazione a livello giuridiazio e dell’intelligence - per proteggere cittadini innocenti».
Ma ci sono prigioni dove sono accadute cose terribili.
«Prima di tutto, penso che dobbiamo essere prudenti a dire cose succede nei luoghi di detenzione. Per quel che riguarda Abu Ghraib nessuno si sognerebbe nemmeno per un secondo di perdonare quanto è successo. C’è gente che è stata punita, ed è giusto. Quello che è accaduto è sbagliato, indipendentemente da se si guarda la Convenzione di Ginevra o gli ordini del presidente. Ci sono stati altri casi di abusi segnalati. Ci sono state indagini e ce ne saranno altre. Vorrei solo notare che una delle cose veramente importanti che il mondo sta imparando è che le democrazie affrontano questi problemi diversamente dalle dittature. Nelle società aperte con una stampa libera e giovani soldati che vanno dai loro comandanti a dire che c’è qualcosa che non va - come è stato ad Abu Ghraib - si hanno controlli e contrappesi che proteggono da questi fenomeni».
Condivide l’opinione del vicepresidente Cheney che la Cia dovrebbe essere esentata da alcune norme internazionali?
«Il presidente, nell’ambito delle nostre leggi e dei nostri impegni internazionali, fa il possibile per proteggere i cittadini americani. Siccome la guerra al terrorismo non ha confini, combattendo il terrorismo si proteggono anche cittadini di altri Paesi. Il presidente è stato molto chiaro: nessuna tortura. Ha detto che questa guerra si deve svolgere secondo le nostre leggi, e così sarà. Non abbiamo mai combattuto una guerra come questa prima. E’ una guerra dove non possiamo permettere che qualcuno commetta un crimine per poi arrestarlo, perché se lo fa migliaia di innocenti moriranno».
Ma lei sa che effetti ha questo sulla nostra diplomazia, e che c’è qualcuno che ne approfitta.
«Lo so e non faccio che ricordare a tutti che siamo in una guerra difficile contro un nuovo nemico e abbiamo il dovere di proteggere i nostri cittadini così come tutti gli altri. E quando qualcosa va storto, come ad Abu Ghraib, una vicenda che ci ha disgustati tutti, saremo inflessibili e puniremo i colpevoli».
Come possono gli Usa uscire dall’Iraq senza rafforzare ulteriormente al Qaeda e l’Iran?
«L’Iran è uno Stato con il quale abbiamo tanti problemi: terrorismo, democrazia, un programma nucleare che inquieta tutti. Ma non sono convinta che la posizione geostrategica dell’Iran sia migliorata con un Afghanistan filoccidentale e in via di democratizzazione da un lato e un Iraq a maggioranza sciita, non teocratico e in via di democratizzazione dall’altro».
Come il suo rapporto con il presidente Bush influisce sul suo lavoro? Si dice del suo predecessore Colin Powell che era «un uccello che cantava fuori dal coro».
«Innanzitutto, Colin Powell è stato un grande segretario di Stato, e aveva relazioni meravigliose con il presidente. Ho un’enorme ammirazione per questo presidente che compie passi difficili dei quali però il mondo ha bisogno. La nostra è una buona squadra. Dibattiti? Sì. Disaccordi? Sì. Ma il presidente è il presidente, e in fondo è l’unico ad essere stato eletto».
Gli Usa appoggiano la proposta russa di permettere all’Iran di proseguire la conversione dell’uranio?
«Vedremo quando questa proposta prenderà forma, se i russi possono offrire una soluzione che porterà gli iraniani a non poter arricchire e riprocessare l’uranio sul loro territorio. Ma abbiamo comunque i voti per deferire la questione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu quando lo vorremo».
Lei ha dato all’ambasciatore Usa in Iraq Zalmay Khalilzad il permesso di discutere con i suoi colleghi iraniani. Che ne direbbe di avere un gruppo di contatto formale?
«Penso che questi contatti possano essere utili in Iraq su alcuni temi circoscritti, ma non vorrei correre il rischio di dare legittimazione a un governo che non la merita».
Alcuni strateghi repubblicani vorrebbero che lei si candidasse nel 2008. Lei è l’unico membro dell’amministrazione con un indice di gradimento positivo sopra il 50%, e qualcuno la vede come potenziale candidato alla vicepresidenza, se non alla presidenza.
«Sono molto impegnata già come segretario di Stato, non ho tempo per queste cose. No, non è quello che voglio fare nella vita. Quando tornerò a Stanford tra tre anni e mezzo, posso scommettere che mi toccherà supervisionare tesi sugli errori fatti in Iraq».
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