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La Repubblica Rassegna Stampa
25.11.2005 E' un buon segno se Israele diventa "meno ebraico" ?
lo sostiene un editoriale di Adriano Sofri

Testata: La Repubblica
Data: 25 novembre 2005
Pagina: 1
Autore: Adriano Sofri
Titolo: «Un buon vento tra Israele e Palestina»
LA REPUBBLICA di venerdì 25 novembre 2005 pubblica in prima pagina e apagina 19 un articolo di Adriano Sofri, "un buon vento tra Israele e Palestina".

Nel complesso interessante, l'articolo ha però due punti molto criticabili

Il leader laburista Amir Peretz secondo Sofri sarebbe estraneo al "retaggio sionista" come proverebbe il fatto che per lui Israele dovrebbe essere "uno Stato per gli ebrei e per i musulmani e per le altre origini e religioni".

Ma il "retaggio sionista" non si oppone affatto ai diritti di eguale cittadinanza per ebrei musulmani e per gli appartenenti ad ogni altra origine e religione. Infatti oggi in Israele gli arabi e le altre minoranze godono di tali diritti, sia pure con difficoltà di integrazione simili a quelle di altre minoranze in altre società democratiche.
Non è del resto chiaro per quale motivo la prospettiva (non sappiamo quanto realistica) che Israele, in caso di vittoria di Peretz, diventi uno Stato "meno ebraico" debba rappresentare un progresso.

L'altro punto criticabile è quello in cui Sofri imputa a Israele all'occupazione "delitti tremendi". Quali, e quali sono le prove?

Ecco il testo:

Succede d´un tratto che i frantumi di un paesaggio desolato si ricompongano in una figura nuova e promettente. Forse è un miracolo, forse un´illusione ottica. Chi può dire di che tempra umana e di che intelligenza politica sia fatto Amir Peretz? Intanto, quello che se ne sa. Ha 52 anni, è di origine marocchina, sua madre era una domestica. Ha un´esperienza di sindaco di una cittadina e di segretario dell´Histadruth, la centrale sindacale. E´ sefardita, che oggi in Israele vuol dire proveniente dall´Africa del nord, il Marocco soprattutto, o dalla Mesopotamia, l´Iraq soprattutto. Sefardita è ormai la maggioranza del paese, la più povera, le banlieues israeliane. Spesso, del tutto ignara dell´Europa. É, finora, la base elettorale e la clientela sociale della destra nazionalista e ultraortodossa, come il partito Shass. Se l´avvento di Peretz portasse con sé un´adesione consistente di sefarditi al partito laburista, segnerebbe una rivoluzione nel sistema politico israeliano. Peretz è socialista e pacifista. E´ andato nel luogo dell´assassinio di Rabin, nel decimo anniversario, e se ne è proclamato continuatore, come se quei dieci anni valessero una sola notte. I suoi discorsi – che hanno, può darsi, un colore populista – non pagano nessun conto al retaggio sionista. Israele, dice, è uno Stato per gli ebrei e per i musulmani e per le altre origini e religioni. I cittadini arabi di Israele devono avere gli stessi diritti. I palestinesi devono avere un loro Stato, perché è giusto che sia così. Israele non può affidare la propria sicurezza al primato militare, ma alla convivenza con uno Stato palestinese e, attraverso esso, con il Vicino Oriente arabo.
Anche il vecchio Ariel Sharon è rimasto in fondo il laburista conservatore, e il generale, che fu. Ha mostrato una risolutezza che ha lasciato sbalorditi i suoi concittadini e il resto del mondo. Adesso ha licenziato il Likud e i suoi notabili meschini e invidiosi, a cominciare da Netanyahu, ha fondato un nuovo partito che si chiamerà addirittura "Avanti" – già sentito, no? – ha raccolto personaggi prestigiosi del Likud e dello stesso partito socialista. I sondaggi lo danno per vincitore alle elezioni anticipate del 28 marzo prossimo. Si può immaginare un´alleanza fra lui e Peretz. Avvenga o no, c´è una forte differenza fra i due. Sharon conduce una sua corsa col tempo. Teme il sorpasso demografico che renda lo Stato ebraico un guscio vuoto. Il suo credo coerente è quello dei fatti compiuti, il khoma VeMigdal, torre e recinto, delle antiche immigrazioni. Pensa che lo Stato palestinese sia affar loro, e per parte sua si propone, coraggiosamente, di cavare il risultato massimo da una congiuntura irripetibile di consenso fra l´Amministrazione americana e il suo governo, e anche dal rimescolamento, ancora incontrollato, messo in moto dal cambio di regime in Iraq. Ha 78 anni, e sa che la libertà di manovra di Bush durerà ancora un anno o poco più, prima di entrare nella stagione morta della fine di presidenza. Ha fatto ripetute concessioni retoriche, ma non ha ancora incontrato Abu Mazen. E´ disposto a qualche misura di sgombero anche in Cisgiordania. Sa che bisogna finirla con l´occupazione, e pensa che oggi lo si può fare al costo più basso. E´ tentato soprattutto di fissare unilateralmente il confine di Israele. Lo Stato palestinese che ne venisse, col Muro com´è oggi, sarebbe una quinta di teatro. Il suo decisionismo breve può combinarsi con lo sguardo lungo di Peretz, o entrare in urto con lui. Peretz non ha l´ossessione della demografia. La sua idea della sicurezza conta sul riconoscimento reciproco. L´Israele conciliato cui crede, e domani forse la confederazione con la Palestina e la convivenza con i vicini arabi, gli fanno immaginare uno sfebbramento del problema etnico. Il suo Israele non cesserebbe, credo, di essere uno Stato ebraico, ma lo sarebbe, per così dire, molto meno. Se un´alleanza fra i due verrà, sarà fra l´ultimo leader sionista e il primo post-sionista.
Haim Ramon, ministro e dirigente del partito laburista, ne è uscito per associarsi a Sharon. Peretz, ha detto, manca dell´esperienza necessaria. Ramon, una "colomba", è un cinquantenne cresciuto in un sobborgo di Tel Aviv in cui si parlava polacco, un rappresentante dell´establishment askenazita che la nuova leadership di Peretz minaccia. Forse diffida dell´inesperienza di Peretz, forse non si fida di un marocchino del Negev. Ma accanto a Peretz stanno personalità di enorme prestigio come il poeta pacifista Natan Zach – che nacque a Berlino nel 1935– o Lova Eliav – che nacque a Mosca nel 1921 – già segretario generale del Labor, uomo dall´integrità donchisciottesca. Uomini che non hanno dimenticato che Yitzhak Rabin governò anche coi voti decisivi dei partiti arabi alla Knesset. La questione della Cisgiordania? Probabilmente nessuno più crede che si arrivi a un ripristino tal quale dei confini del 1967, in luoghi popolati e storicamente cruciali come Gush Etzion. Ma già nei negoziati trascorsi si previdero misure simbolicamente efficaci, o scambi non iniqui di territori. E c´è Gerusalemme.
La precipitazione spettacolare di questi giorni – commentata qui da Sandro Viola – è stata preparata. Più da vicino, dallo sgombero di Gaza: Sharon ha mostrato come l´azione che sembrava impossibile poteva farsi in fretta, e senza sangue versato. Prima, dalla morte di Arafat. Senza cinismo, è stata anche quella uno sgombero. Ma nella responsabilità enorme degli ultimi anni di Arafat, entra quella dei governi europei, e non solo dei governi. La prima Intifada aveva dato orgoglio e onore alla società civile palestinese, e ne aveva fatto sentire e soffrire la dignità alla società civile israeliana. Mentre cadeva il muro a Berlino, anche quei due popoli, dopo tante guerre, si stettero di fronte alla pari, e poterono specchiarsi l´uno nell´altro. La seconda Intifada – cinque terribili anni – è stata disastrosa: facile da dire, ormai, dopo che l´ha detto limpidamente Abu Mazen, e ripudiando la violenza che l´ha divorata. Tanta parte dell´Europa ufficiale e civile, attaccata, nonostante lo sfoggio di professioni pacifiste e non violente, al pregiudizio della violenza nobile degli oppressi (quello che fa ancora bestemmiare sull´Iraq), e ostinatamente fedele al rancore e all´odio per Sharon, non ha riconosciuto la degenerazione della seconda Intifada. Non ha visto l´insediamento di Fatah nei territori che anteponeva l´amministrazione famelica al disegno magnanimo, che ricacciava nella frustrazione la società civile di città e villaggi, che moltiplicava le polizie e la corruzione. Dopo la bancarotta degli accordi, di cui Arafat e Barak si dividono la responsabilità, per malafede, ambiguità o insipienza, la seconda Intifada si è tramutata nella culla della mutazione terrorista-suicida. Lungo questa parabola, l´Europa è stata colpevole non tanto di gettare denaro dentro quella fornace micidiale, quanto di non saper additare ed esigere una scelta non violenta che avrebbe, lei sì, maturato il valore della prima Intifada, e puntato sulla condizione d´eccezione del nemico prossimo israeliano, arrogante della propria superiorità militare, ma anche capace di una sensibilità civile e di un pluralismo politico. L´occupazione israeliana si è macchiata di delitti tremendi, e del più cieco, l´umiliazione del nemico. Ma la dirigenza palestinese – con eccezioni preziose, e lasciate sole – ha coltivato la convinzione che i kamikaze avrebbero piegato Israele. Occorre aggiungere che se quel calcolo infame si è rivelato sbagliato, l´Europa – governi e movimenti e Ong – non può vantarne un grammo di merito. E´ tempo per ripensare a tutto, e per fare una parte: minore, ma, se Dio vuole, migliore. Tira un buon vento. Lasciate che ricordi quell´episodio di cronaca di pochi giorni fa, che non ce l´ha fatta a prendersi i titoli di testa, chissà perché. Ahmed, il bambino di Jenin, dodici anni, giocava nella festa della fine del Ramadan con un mitra giocattolo in mano, è stato colpito alla testa da una pattuglia israeliana, è morto in un ospedale israeliano, e i suoi hanno donato gli organi – non importa a chi, hanno detto, i bambini sono bambini. Vivono coi suoi organi due bambini ebrei israeliani e una drusa. I genitori dei bambini che li hanno ricevuti hanno chiesto ai genitori di Ahmed di considerarli come figli loro. I bambini sono bambini.
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