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Il Messaggero Rassegna Stampa
22.11.2005 Eric Salerno e Marcella Emiliani finalmente ammettono che Sharon cerca la pace.
conversioni repentine al quotidiano romano

Testata: Il Messaggero
Data: 22 novembre 2005
Pagina: 14
Autore: Eric Salerno - Marcella Emiliani
Titolo: «La pace di Sharon: via dalla Cisgiordania - Il nuovo partito di Sharon: Responsabilità nazionale»
Salerno e la Emiliani folgorati sulla via di Damasco. Due articoli finalmente (in gran parte) corretti. In particolare è l'articolo di Salerno a stupirci maggiormente. Una vera e propria metanoia! In particolare vi si apprende che:

1 - Sharon vuole la pace ed è eventualmente pronto a ordinare lo sgombero da ulteriori insediamenti in Cisgiordania. Questa constatazione costituisce la svolta più significativa, dato che Salerno dalla scorsa primavera non si stanca di ripetere che il disimpegno da Gaza è stato solo un abile diversivo per proseguire la penetrazione in Cisgiordania. Ora anche il Nostro sembra rivedere le proprie posizioni e, per una volta (Ma speriamo anche per il futuro...), abbandona la retorica di "Arik il bulldozer".

2 - La barriera protettiva (Che lui però chiama "muro") serve. Non già però contro il terrorismo (Dimensione del problema che sembra ancora sfuggirgli) ma come mossa unilaterale di Sharon per accellerare i negoziati sui confini dei due Stati nella fase finale della Road Map. Ora, il dibattito su questo punto - se cioè Sharon con l'erezione della barriera intendesse anche tracciare possibile confine e giocare d'anticipo sui negoziati (Cosa sostenuta non solo dai progressisti in funzione polemica) - è aperto. Ravvisiamo però in questa osservazione di Salerno un altro passo in avanti, se non altro perchè vi si afferma che Sharon vuole la pace il prima possibile.

3 - Le iniziative unilaterali del governo israeliano, che indubbiamente ci sono state, possono accellerare il processo di pace, poichè la leadership palestinese non ofre ancora sufficienti garanzie.

Si intende che l'articolo di Salerno non è totalmente privo di scorrettezze. Il problema del terrorismo, ad esempio, non viene menzionato punto. Inoltre va ancora registrata qualche frecciatina qua e là all'indirizzo del governo israeliano. Nel complesso, però, siamo rimasti piacevolmente sorpresi. Ecco comunque il testo dell'articolo:

GERUSALEMME - Trent'anni fa fondò il Likud perché lui non andava più d'accordo con i leader del partito laburista. Oggi il ribelle Sharon, protagonista di uno dei più grandi sconvolgimenti del mondo politico israeliano, ha ripreso la strada della ribellione. "Responsabilità nazionale" è il nome che ha scelto per ciò che sarà, per il momento, una fazione del Likud e, dunque, con il diritto a ricevere una parte dei fondi destinati a quel partito. Il premier ha un progetto: non contiene, a sentirlo, tutti gli elementi indispensabili per arrivare alla pace con i palestinesi, ma è un progetto che sta bene alla maggioranza degli israeliani, centro, centrosinistra e in parte anche centrodestra. E lui è a caccia di un assegno in bianco per continuare sulla strada imboccata con il ritiro unilaterale da Gaza. «Ho intenzione di vincere le prossime elezioni» ha detto.
Il premier è "salito sul colle", nella mattinata, per chiedere lo scioglimento anticipato della legislatura e ha comunicato al presidente, ufficialmente, anche la decisione di uscire dal Likud. Moshe Katzav non aveva bisogno di molte spiegazioni per convenire che allo stato attuale della cose, la knesset è ingovernabile (e in giornata ha votato per il proprio scioglimento), il Likud era spaccato e non rispondeva più al suo leader. Il partito ha, infatti, una destra forte contraria a nuove "concessioni" ai palestinesi, soprattutto contraria all'idea di smantellare altri insediamenti in Cisgiordania e di considerare (ciò che Sharon vorrebbe fare) il cosiddetto muro di sicurezza come la nuova frontiera dello Stato d'Israele. Con o senza il consenso dei palestinesi. Ossia con la pace concordata, se gli arabi s'inginocchiano, o con uno stallo imposto con le armi. Un piano «coraggioso», scrive il direttore del quotidiano Maariv, da «negoziare con gli americani», non certo con Mahmoud Abbas o con gli altri leader palestinesi.
Un terzo del Likud appare pronto a seguire Sharon. Gli altri elettori del partito, forse con l'ex premier Netanyahu in testa (ma anche i ministri della Difesa Mofaz o degli Esteri Shalom potrebbero guidare ciò che resta dei conservatori), lo fronteggeranno.
Il premier cercherà di conquistare anche alcuni laburisti. Punta soprattutto a Shimon Peres. Dopo la scottante, per lui quasi offensiva, sconfitta nelle primarie per la guida di Labor, l'anziano premio Nobel trova difficile imboccare la politica impressa al partito da Amir Peretz e sta ancora considerando, a sentire i suoi confidenti, la possibilità di entrare nella nuova nuova formazione politica. «Non è la fine del sodalizio politico tra noi - ha detto Sharon a Peres di fronte alla fine della coalizione - ma è soltanto l'inizio perché sono ancora molte e impegnative le missioni che intendo affidarti». Un'apertura vaga per ammaliare. In caso di vittoria del nuovo partito, con i laburisti al secondo posto, Sharon potrebbe formare una nuova coalizione e chiedere a Peres di occuparsi di una parte della grande diplomazia israeliana e dei negoziati con i palestinesi. E' vera anche un'altra possibilità: dopo dieci anni all'opposizione, i laburisti potrebbero ridiventare il primo partito d'Israele, non tanto sulla piattaforma pacifista di Amir Peretz, troppo "filo-palestinese" direbbero molti sostenitori di Sharon e dei coloni, quanto sugli aspetti di politica sociale ed economica.
«Le elezioni anticipate sono scontate», ha ammesso Katzav. Il 28 marzo, la data concordata. Sharon spera di vincere sull'onda della novità. Proprio come Amir Peretz, il primo "marocchino" o ebreo orientale a guidare i laburisti, il primo "non militare", il primo "poveraccio" dicono i suoi sostenitori più entusiasti, quella fetta della popolazione israeliana che si trova in fondo alla scala economica e sociale. Sondaggi ed esperti, confrontati dalle novità delle ultime settimane, forniscono preferenze e analisi contradditori come è, in pratica, l'insieme del quadro politico. C'è chi a sinistra vede le dimissioni di Sharon come una vittoria per il campo pacifista. Ossia il riconoscimento da parte di chi ha creduto nella filosofia della Grande Israele, degli insediamenti, dell'occupazione, che la pace sia possibile soltanto uscendo dai territori. E anche, riconoscono, se Sharon non sarà l'uomo della pace vera, le sue iniziative "unilaterali" potrebbero gettare le basi pratiche per il futuro. Sarà questo, certamente, il messaggio che il premier intende lanciare.
IL MESSAGGERO pubblica a pagina 14 l'analisi di Marcella Emiliani sugli scenari politici aperti dalla decisione di Sharon di fondare una nuovo partito. L'articolo appare nel suo insieme corretto.

Riportiamo il testo:

NEL suo stile a dir poco decisionista Ariel Sharon in un colpo solo ha spaccato il suo partito-madre, il Likud, per andare a fondarne uno tutto suo, il Partito della responsabilità nazionale; ha ottenuto lo scioglimento del parlamento, e dunque le elezioni anticipate per Israele e, in buona sostanza, ha spiazzato non solo i suoi avversari ma l'intero sistema politico israeliano. Se il nuovo leader del Partito laburista, Amir Peretz, credeva di poter monopolizzare il palcoscenico della politica ritirandosi dal governo di unità nazionale, ebbene non ha fatto i conti con Ariel "il bulldozer".
E adesso tutti si chiedono: ma era necessario arrivare a tanto? E la stabilità di Israele viene meglio garantita o messa in pericolo dalla mossa a sorpresa del suo primo ministro? Da ex militare qual è Sharon ha tratto le conseguenze di una situazione di stallo della quale rischiava di diventare la vittima più eccellente. Contestato all'interno del suo stesso partito, il Likud, dove un Benjamin Netanyahu era sempre pronto a soffiargli sul collo e ad organizzare il boicottaggio delle sue iniziative politiche, il premier uscente poteva ignorare l'opposizione della sua formazione politica solo nella misura in cui era appoggiato all'esterno dal Partito laburista.
Essendosi ritirati i laburisti dal governo di unità nazionale, Sharon ha deciso di sciogliere il nodo gordiano della sua sopravvivenza inchiodando tutti alle proprie responsabilità. La scena politica israeliana è affollata di partiti di tutti i generi (da quelli ultraortodossi a quelli detti "etnici", ovvero rinchiusi nella scatola della provenienza unica dei propri membri: tutti ebrei russi, oppure ebrei sefarditi etc.) e da almeno due decenni non c'è partito in grado di garantirsi una maggioranza in parlamento se non attraverso faticose coalizioni. Un partito in più non può mettere in pericolo la stabilità di Israele; può invece contribuire a chiarire i programmi dei partiti che negli ultimi anni hanno perso la propria connotazione originaria, incalzati dalle vicende della seconda Intifada, dalla lotta al terrorismo islamico, ma anche dal rafforzarsi dell'ultraortodossia ebraica. Sharon non ha fatto mistero di voler andare avanti per la strada intrapresa col ritiro unilaterale da Gaza. Vuole completare il processo di pace, rilanciare la Road map e arrivare alla creazione di uno Stato palestinese, avendo dato ampie garanzie (col suo passato e con la gestione proprio dell'Intifada al-Aqsa) di avere a cuore e di saper garantire la sicurezza dello Stato.
Ora, chi lo vuole seguire su questa strada deve arrivare ad un accordo politico alla luce del sole (si tratti di esponenti del Likud come di altri partiti) e lui perlomeno non dovrà guardarsi in continuazione le spalle. Resta naturalmente tutto da verificare quanto Sharon intenda realmente coinvolgere i palestinesi nel "suo" processo di pace, quanto voglia farsi condizionare da pressioni esterne (il vecchio quartetto di Usa, Russia, Unione Europea e Onu che virtualmente dovrebbero garantire la ripresa della Road map) e soprattutto resta da vedere se uscirà vincitore dalle elezioni anticipate di marzo. A gennaio dovrebbero svolgersi anche le elezioni politiche nell'Autonomia nazionale palestinese e dunque si dovrebbe arrivare ad un chiarimento anche in quel groviglio che è la politica palestinese stessa, stretta tra la rabbia, l'impotenza, la voglia di pace e la destabilizzazione del terrorismo islamico.
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