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Il Mattino Rassegna Stampa
22.11.2005 Sharon resta il "cattivo" del dramma mediorientale
nell'analisi di Vittorio dell'Uva

Testata: Il Mattino
Data: 22 novembre 2005
Pagina: 5
Autore: Vittorio Dell'Uva
Titolo: «L’ultima mossa di Arik, il falco che sfida i falchi»
Martedì 22 novembre 2005 è Vittorio Dell’Uva a "deliziarci" con il solito (e banale) schemino riassuntivo sulla carriera di Ariel Sharon. Ormai Il Mattino propone qualcosa di simile ogni volta che in Israele accade qualcosa di rilevante. E come al solito siamo di fronte alle solite etichette ("falco", "sceriffo", "mastino"), ai soliti luoghi comuni (la "metamorfosi"), alla solita interpretazione personale della Storia fatta di episodi riferiti in maniera oltremodo estremizzata e totalmente decontestualizzati Per esempio dell'Uva scrive: "Spietato con il nemico, come suggeriva di fare Ben Gurion, lo è stato da comandante dell’unità 101 che, nel 1949, considerava come bersagli molti civili palestinesi". In realtà l'unità 1001 agiva contro nuclei di terroristi che avevano le loro basi nei villaggi non faceva il tirio a segno contro i civili. E ancora: "Ha voluto, da ministro della Difesa, l’invasione del Libano per spazzare via i palestinesi" (in realtà i terroristi) "fa da detonatore per la seconda intifada con la provocatoria «passeggiata» sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme"; (un falso accertato e smentito dagli stessi palestinesi, l'intifada era organizzata da tempo) "Le scelte successive coincidono con l’affermarsi della nuova leadership palestinese moderata, che il premier apertamente e periodicamente oltraggia o sostiene" (chidere alla leadership palestinese di fermare il terrorismo che minaccia Israele e la stessa possibilità di costruire uno Stato nei terrirtori significa forse oltraggiarla?). Non poteva mancare il solito riferimento a Sabra e Chatila, ripreso dai titolisti anche in una frase posta in evidenza tra le colonne dell’articolo, da cui Sharon esce con "gravissime colpe pur sfuggendo a un processo nelle sedi internazionali" (processo infondato, basato nel suo impianto accusatorio su un' attribuzione di reponsabilità già smentita dalla commissione d'inchiesta israeliana, che chiarì che Sharon non era a conoscenza delle intenzioni dei falangisti quando li fece entrare nei campi profughi) Altri passaggi meritevoli d’attenzione sono: "il 2001, in cui Israele si sentiva oppressa dal terrorismo dei kamikaze" (si è capito il Dell’Uva pensiero? Israele non era oppressa dal terrorismo ma "si sentiva" oppressa); "Va da sè che in politica ha ancora voglia di mordere… ha messo in chiaro che l’ineluttabile nascita dello Stato palestinese può avvenire soltanto alle sue condizioni… che ancora prevedono raid dell’esercito nei «territori» e omicidi mirati dei leader delle formazioni armate oltranziste" (cambiato ma non tanto, suggerisce Dell’Uva, Sharon anche nella sua vecchiaia conserva abitudini e piaceri un tantino sadici, che non hanno ragione d’essere. Peccato che in tutta l’"analisi" di Dell’Uva manchi un riferimento serio e credibile al terrorismo stragista palestinese - che non nasce come il giornalista vorrebbe far credere nel 2001 - e alla necessità israeliana di contenerlo e porlo in condizione di non nuocere).

Da notare, nell’excursus storico, la totale assenza di un riferimento al ruolo attivo che Sharon esercitò nell’accordo di pace che il governo Begin raggiunse con l’Egitto di Sadat. Raccontando questo episodio non da poco il "mastino" della favola di Dell’Uva forse avrebbe perso un paio di canini, e ciò stonava.

La presenza dei palestinesi è marginale e relegata al ruolo di vittime: i Territori si impoveriscono perché Israele chiude i valichi, ma non si spiega il perché li ha chiusi né tantomeno si fa riferimento alle vagonate di miliardi sperperate da Arafat a cui Dell’Uva accenna soltanto per dire della sua prigionia nella Muqata costantemente assediata; anche in futuro – è il succo della conclusione di Dell’Uva – le soluzioni del conflitto passano soltanto per Israele.

Ecco il testo:

Sembra destino che i generali di Israele, chiamati da politici alla guida del Paese, subiscano nel tempo una metamorfosi che li porta ad allontanarsi da consolidate posizioni radicali. Accadde a Ytzak Rabin, assassinato per la sua svolta progressista e che pure durante la prima intifada aveva ordinato di «spezzare le gambe e le braccia ai palestinesi». È successo a molti militari conservatori finiti tra i banchi degli schieramenti di sinistra. Oggi tocca ad Ariel Sharon abbandonare la stella di «sceriffo» che gli aveva garantito con largo margine la vittoria elettorale in un anno, il 2001, in cui Israele si sentiva oppressa dal terrorismo dei kamikaze. Certo il suo passo è più misurato di quello di altri, nè è caratterizzato dalla abiura della linea dura, ma «Arik» ha avviato una convergenza verso il centro che lo porta a scrollarsi dalle spalle le opzioni dei partiti ortodossi e le ipoteche dell’ala più intransigente del Likud, che ancora insegue il sogno della Grande Israele. A 77 anni, il «mastino» Ariel Sharon riesce a trovare la forza per una nuova avventura strappando una costola al partito che trenta anni fa aveva contribuito a fondare. Va da sè che in politica ha ancora voglia di mordere. Le sue ultime mosse hanno spiazzato insieme amici e nemici. Il ritiro da Gaza, senza un accordo preventivo con il diretto interessato, l’Anp, lo ha fatto additare come un nemico della «causa» da parte dei coloni e della maggioranza del Likud. La determinazione con cui ha voluto il «muro» che taglia la Cisgiordania, assieme all’autorizzazione a nuovi insediamenti, ha messo in chiaro che l’ineluttabile nascita dello Stato palestinese può avvenire soltanto alle sue condizioni. Che ancora prevedono raid dell’esercito nei «territori» e omicidi mirati dei leader delle formazioni armate oltranziste. Non è uomo Sharon, da mezze misure. Nè lo è mai stato fin da quando quattordicenne combatteva per l’Haganah, le formazioni paramilitari israeliane spina del fianco dei britannici che avevano il mandato sulla Palestina. Spietato con il nemico, come suggeriva di fare Ben Gurion, lo è stato da comandante dell’unità 101 che, nel 1949, considerava come bersagli molti civili palestinesi. Della sua natura ribelle ha dato più di una prova sul campo di battaglia. Un’inchiesta ha accertato che durante la guerra di Suez del 1956, un suo errore determinato dall’ambizione, portò alla morte 40 soldati israeliani. Da altre insubordinazioni deriva la fama di militare non sempre affidabile. Ma sarà una nuova disobbedienza degli ordini superiori durante la guerra del Kippur a farne più tardi un eroe, spianandogli la carriera politica. Da ufficiale della riserva al comando di una divisione, riesce a tagliare le linee di rifornimento degli egiziani e a condizionare, spingendosi a 100 chilometri dal Cairo, le sorti del conflitto. Dieci anni più tardi, ripiomba in un altro buco nero dal quale riesce ad emergere con gravissime colpe pur sfuggendo a un processo nelle sedi internazionali. Ha voluto, da ministro della Difesa, l’invasione del Libano per spazzare via i palestinesi. Sarà ritenuto, dalla commissione israeliana Kahan, indirettamente responsabile della strage di Sabra e Chatila compiuta dalla Falange di Elie Hobeika, che trasformò in un mattatoio i campi dell’Olp alla periferia di Beirut. Viene in qualche maniera degradato con la perdita del ministero della Difesa, ma resta nel circuito della politica attiva con altri incarichi di governo. Da ministro dell’Edilizia realizza 144mila alloggi per i nuovi immigrati, ma si distingue anche per l’aggressiva politica degli insediamenti che porta consensi. Nel ’99 il Likud lo acclama come nuovo leader. Un anno più tardi fa da detonatore per la seconda intifada con la provocatoria «passeggiata» sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme. Israele, che nel 2001 vive l’incubo degli attentati, non fatica a sceglierlo come premier e salvatore della patria. Uno dopo l’altro vengono sempre più spesso chiusi i varchi con i territori palestinesi che ulteriormente si impoveriscono. Yasser Arafat, di cui Sharon dice apertamente di considerare opportuna la morte, vede la sua stagione di leader annebbiarsi tra le mura della Muqata, la residenza di Ramallah sotto assedio costante. Le scelte successive coincidono con l’affermarsi della nuova leadership palestinese moderata, che il premier apertamente e periodicamente oltraggia o sostiene. L’abbandono di Gaza polverizza i partiti israeliani e viene accolta in Occidente come la prima pietra di un nuovo possibile dialogo. I prossimi atti diranno se davvero il nuovo Arik vuole chiudere per sempre, e in pace, le vecchie partite.
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