Avraham B. Yehoshua "tifa" per Peretz che reputa una novità incoraggiante per la sinistra israeliana
Testata: La Stampa Data: 21 novembre 2005 Pagina: 11 Autore: Avraham B. Yehoshua Titolo: «Yehoshua: da Peres a Peretz, finalmente»
Da LA STAMPA di domenica 20 novembre 2005 riportiamo un articolo di Avraham B. Yehoshua sull'emergere di Amir Peretz come nuovo leader del partito laburista israeliano.
Ecco il testo: I giornalisti della stampa scritta, della radio e della televisione, ma anche i loro ascoltatori e lettori, da oggi dovranno aguzzare occhi e orecchie per non confondersi tra Shimon Peres e Amir Peretz. Nel cognome la differenza è minima, ma di fatto è gigantesca, di proporzioni storiche. Al termine di un'elezione drammatica, ma dal risultato non sorprendente, Amir Peretz, un personaggio di cui si sente un acuto bisogno, è stato scelto come capo del partito laburista israeliano. Vero leader operaio, nato in Marocco e cresciuto nella realtà dell'«altra» Israele, Peretz ha sconfitto Shimon Peres, anziano condottiero, simbolo dell'immobilismo del pensiero sociale e della perdita di dinamismo del Labour israeliano e tipico uomo d'apparato che negli ultimi dieci anni, spinto da un'indomabile brama di potere e nonostante le innumerevoli sconfitte alle urne, non ha cessato di tessere intrighi politici all'interno del suo partito per esserne rieletto leader. Il fatto che proprio questo anziano e influente statista sia stato sconfitto da un personaggio secondario, più giovane di lui di trent'anni, rende tale evento altamente simbolico. È questa la svolta che i sostenitori della pace si augurano da trent'anni. Da trent'anni, infatti, si interrogano su come convincere i ceti medio bassi e gli operai, la maggior parte dei quali sono di origine sefardita, a sostenere l'idea della pace e di un compromesso con i palestinesi. Come far capire ai residenti delle cosiddette «cittadine di sviluppo» (in gran parte sefarditi e nuovi immigrati) e dei quartieri meno abbienti delle città che il grande piano di insediamento nei territori occupati non fa che fagocitare enormi risorse finanziarie, è a loro discapito e contrario ai loro stessi interessi. Quanto più infatti si investe denaro nella costruzione di colonie, di strade e di indispensabili infrastrutture, tanto più si riducono i fondi a disposizione per lo sviluppo delle cittadine di periferia e dei sobborghi poveri. E se a questo si aggiunge lo sfruttamento di manodopera palestinese a basso costo e priva di ogni diritto sociale, ecco che ne deriva che il salario dei lavoratori semplici in Israele è soggetto a una costante erosione mentre la disoccupazione è in aumento. La sinistra israeliana, costituita per lo più dai ceti medio alti, da intellettuali e liberi professionisti in gran parte di origine europea, si interroga su come ottenere il sostegno delle fasce povere della popolazione di origine sefardita, completamente ammaliate dalla demagogia nazionalista del Likud e a cui il disprezzo e l'odio per gli arabi conferiscono una sensazione di identità privilegiata, di una distinzione netta da loro. Come ottenere la fiducia e il consenso di un elettorato così vasto per il piano di pace? I ceti più bassi della società israeliana sospettano che la sinistra si preoccupi più degli interessi dei palestinesi che dei loro e cerchi il loro sostegno elettorale solo per migliorarne la situazione. La mancanza di un chiaro programma sociale per la riduzione del divario economico fra le classi e il ripristino della solidarietà sociale, a fianco di un dettagliato programma politico, ha reso il Labour irrilevante ai loro occhi. E se a tutto ciò aggiungiamo gli amari ricordi degli Anni Cinquanta e Sessanta, quando gli onnipotenti e ostentatamente laici laburisti allora al governo sfavorirono i sefarditi sul piano sociale mostrando disprezzo per la loro identità etnica e religiosa, ecco che lo strappo tra questi ultimi e la sinistra social-democratica appare insanabile da più di vent'anni. Ma ora ci troviamo davanti a una svolta significativa e a una grande opportunità. Da un lato il malessere sociale è notevolmente aumentato e le maglie della robusta rete di sicurezza statale israeliana si sono molto allargate per via dell'aggressiva politica economica di Netanyahu il quale, dando un forte impulso al Paese secondo i principi della più selvaggia economia globale, ha ampliato notevolmente il divario economico tra le classi, creato fenomeni di grave indigenza e persino di fame in fasce di popolazione che non conoscevano una simile realtà in passato e ha accresciuto in modo esagerato la ricchezza di determinati circoli. Mai prima d'ora in Israele si erano registrati fenomeni di gente ridotta alla fame. Lo Stato ebraico si è sempre distinto per la sua forte solidarietà sociale, anche nei momenti più difficili. Negli Anni Cinquanta, per esempio, riuscì ad accogliere milioni di poveri immigrati pur continuando a lottare per la sua sopravvivenza contro le nazioni arabe. D'altro canto, però, il riconoscimento del diritto dei palestinesi a un loro Stato è filtrato gradatamente tra gli elettori del Likud e non rappresenta più un tabù per loro. Ariel Sharon, a modo suo e secondo il proprio stile, rilascia promesse di pace dopo il ritiro dalla striscia di Gaza e, per quanto non si sappia se saranno mantenute, per lo meno concede legittimità all’ideologia della sinistra. Alla luce di tutto questo sembra che sia giunto il momento che i ceti poveri riconoscano la loro naturale collocazione politica in un partito orientato alla pace e con un equilibrato programma social-economico. Eppure sembrano mostrare ancora molta diffidenza verso il carattere elitario e laico del partito laburista. Ma ecco che arriva Amir Peretz e scombina le carte in tavola. Peretz è un uomo dalla condotta schietta, da sempre di sinistra, che crede in un accordo con i palestinesi e che negli ultimi dieci anni, in veste di presidente della centrale sindacale Histadrut, è stato il portavoce più diretto e coerente dei poveri e della classe operaia israeliana. Sefardita nell'aspetto, nel modo di fare e per retroterra familiare, non è tuttavia un faccendiere politico che intende sfruttare l'offesa dei sefarditi per convertirli in suoi adepti. Anzi, vuole eliminare una volta per tutte ciò che definisce «demone etnico» e parlare in termini social-democratici sia in campo politico che sociale. Il sefardita Peretz non intende trasformare questa sua identità in una fonte di rancore per la dignità ferita dei sefarditi, bensì in una posizione di vantaggio che gli consenta di capire meglio tutte le sfumature della società israeliana. Il cammino che deve intraprendere prima di diventare un leader di primo piano è ancora lungo. Come prima cosa dovrà risollevare il Labour dal suo stato di crisi (con solo 20 parlamentari alla Knesset su un totale di 120 seggi) e riportare il colore alle guance di un partito social-democratico divenuto un circolo di generali in pensione e di borghesi in cerca di quiete. Non vi è però alcun dubbio che questo tribuno del popolo (che non possiede alcuna particolare aura militare nonostante sia giunto al grado di ufficiale durante il servizio militare e sia rimasto gravemente ferito) dai modi semplici e schietti abbia già dato una nuova scossa al sistema politico israeliano e dopo il successo del ritiro da Gaza rappresenti la novità più incoraggiante per la sinistra israeliana. Traduzione di Alessandra Shomroni Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla direzione della Stampa . Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.