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Il Manifesto Rassegna Stampa
16.11.2005 Accordo sul valico di Rafah, ma la vignetta in prima pagina racconta un'altra storia
e anche la cronaca di Michele Giorgio non rinuncia ad attaccare sempre e comunque Israele

Testata: Il Manifesto
Data: 16 novembre 2005
Pagina: 6
Autore: Vauro Senesi - Michele Giorgio
Titolo: «Valichi - L'accordo c'è a Gaza spiraglio per i palestinesi -Assolto soldato che uccise Imam»
IL MANIFESTO di mercoledì 16 novembre 2005 pubblica in prima pagina una vignetta di Vauro Senesi intitolata "Valichi".Vi si vede Sharon che mostra a un bambino palestinese un mazzo di chiavi, tenendole così in alto da non permettergli di raggiungerle.
Sotto il disegno, la scritta "Le chiavi di Gaza".

A pagina 6 il titolo dell'articolo di Michele Giorgio sul valico di Rafah è però: "L'accordo c'è a Gaza spiraglio per i palestinesi".
Dunque nel giorno in cui si ragginge un accordo per l'apertura del valico di Rafah Vauro Senesi disegna una vignetta dalla quale si capisce, al contrario, che Sharon chiude gli accessi e le uscite di Gaza.
E IL MANIFESTO la pubblica.

Non che l'articolo di Giorgio si distingua per correttezza. Tanto per incominciare presenta un curioso ragionamento: l'accordo su Rafah dimostra che gli israeliani hanno un interlocutore e che il loro rifiuto di intavolare trattative è basato su false premesse.
A noi sembra invece che l'accordo di Rafah dimostri innanzitutto che una trattativa c'è stata. D'altro canto sono gli stessi israeliani a riconoscere in Abu Mazen un possibile interlocutore. Sono l'incapacità dell'attuale dirigenza palestinese a disarmare i gruppi terroristici e l'incertezza sulla stabilità di un futuro Stato a impedire per il momento trattative che definiscano una soluzione globale del conflitto.

Significativi sono poi i dubbi espressi sull'accordo da Giorgio e dal suo interlocutore Ali Jirbawi, analista palestinese.
Il diritto di Israele a garantire la propria sicurezza evidentemente è per entrambi del tutto irrilevante, almeno di fronte alla necessità di garantire i simboli della sovranità palestinese e di escludere ogni esponente dello Stato ex "occupante" dalle operazioni di sorveglianza a Rafah.

Ecco il testo:

Descritto come un successo della mediazione del Segretario di stato Usa, Condoleezza Rice, l'accordo raggiunto ieri tra il governo Sharon e l'Autorità nazionale palestinese sulla frontiera di Rafah e altre questioni irrisolte legate al dopo-ritiro israeliano da Gaza, è il risultato delle prime importanti trattative dirette tra Israele e l'Anp di questi ultimi anni. L'intesa smentisce il tormentone di Ariel Sharon sull'«inesistenza di un partner palestinese» al tavolo del negoziato. Un punto sul quale ieri ha battuto il presidente Abu Mazen, definito una «persona onesta» dallo stesso capo di stato israeliano Moshe Katsav in visita a Roma e con il quale però Tel Aviv non avvia discussioni. Nel suo discorso televisivo alla nazione - in occasione dell'anniversario della dichiarazione di indipendenza letta da Yasser Arafat ad Algeri nel 1988 - Abu Mazen ha accusato il governo Sharon di tenere a distanza la leadership palestinese e di voler scatenare la guerra civile in Cisgiordania e Gaza insistendo sul disarmo dei gruppi militanti dell'Intifada.

In casa Anp ieri si è anche festeggiato e non solo polemizzato. «L'accordo raggiunto migliorerà la vita della nostra gente, favorirà il libero movimento delle merci e delle persone ed inoltre la sua applicazione è garantita internazionalmente», ha affermato Nabil Abu Rudeinah, il portavoce palestinese. Passata l'euforia, si prevede una complessa applicazione del patto: la storia recente israelo-palestinese è fatta di intese rimaste pezzi di carta o attuate solo in parte. Lo stesso Segretario di stato Condoleezza Rice ha tenuto a sottolineare la fragilità del risultato di ieri, osservando che resta molto da fare per «garantire che gli impegni siano messi in pratica».

La riapertura del valico di Rafah - chiuso da Israele - è fondamentale per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione palestinese, poiché rappresenta la porta di Gaza sul mondo. Senza dubbio ne trarrà vantaggio l'economia di Gaza che ha sofferto negli ultimi anni la sua crisi più dura, tanto che nel piccolo lembo di terra palestinese evacuato da Israele, il 70% degli abitanti vive al di sotto della soglia della povertà e la disoccupazione tocca il 44% (dati della Banca Mondiale).

Secondo l'accordo, per la prima volta i palestinesi avranno il controllo della frontiera con l'Egitto, ma, a ben vedere, con una sovranità limitata. Al valico verranno installate telecamere a circuito chiuso che riprenderanno tutti coloro che passano il confine. I movimenti saranno monitorati da funzionari israeliani ma spetterà ad osservatori europei prendere decisioni nei casi dubbi. Saranno loro a stabilire l'ingresso a Gaza di persone che Israele considera sospette. «Bisogna guardare in faccia la realtà sul terreno - ha spiegato l'analista palestinese Ali Jirbawi cercando di smorzare gli entusiasmi -. Sarà Israele ad avere la supervisione sul transito dei palestinesi e delle loro merci tra Gaza ed Egitto». Tel Aviv non avrà potere di veto ma Jirbawi si è detto convinto che gli osservatori europei, dovendo scegliere tra le ragioni delle due parti sull'ingresso nella Striscia di determinate persone, non esiteranno a dare la precedenza alle «motivazioni di sicurezza» degli israeliani, nonostante Gaza sia territorio palestinese e non dello Stato ebraico.

Più confortanti sono le prospettive per l'economia. Israele permetterà, attraverso il transito di Karni, il passaggio di almeno 150 camion da Gaza al giorno entro fine anno e di almeno 400 al giorno entro fine 2006. Tra i punti più importanti dell'accordo c'è, a partire dal 15 dicembre, la riapertura del cosiddetto «corridoio sicuro», tra Cisgiordania e Gaza. I palestinesi, teoricamente, potranno spostarsi tra i due territori a bordo di autobus, scortati da reparti israeliani, che attraverseranno il territorio dello Stato ebraico. L'intesa prevede anche la costruzione di un porto a Gaza mentre, per ora, rimane tutto fermo all'aeroporto internazionale di Rafah. Ieri sera è stato comunicato che sarà una vecchia conoscenza dei palestinesi, il generale dei carabinieri Pietro Pistolese, a guidare la missione dell'Ue a Rafah. Pistolese è stato il vicecapo della missione internazionale schierata a Hebron nel `94 e consigliere di sicurezza alla missione elettorale europea a Betlemme nel `96.
A Michele Giorgio dobbiamo anche l'articolo "Assolto soldato che uccise Imam". La tesi evidentemente propugnata dell'articolo è che il soldato israeliano accusato dell'omicidio di una scolara palestinese di 13 anni, Imam Al-Hams, fosse colpevole, ma che il tribunale abbia deciso di garantirgli l'impunità.
soltanto verso la ine dell'articolo, in una breve frase, Giorgio ci informa che uno dei testimoni chiave dell'accusa ha ritrattato la sua deposizione accusando gli altri di falsa testimonianza.
Comunque,a parere di Giorgio, a condannare il soldato sarebbe bastata una registrazione delle conversazioni nella postazione militare.

" "Ho verificato la sua morte disse R. dopo aver sparato due colpi alla ragazzina", scrive Giorgio.
Ingannevolmente: i "due colpi" sparati a freddo non sono nella registrazione (di conversazioni avvenute con walkie-talkie), ma nelle testimonianze.

Così stando le cose, se il tribunale israeliano avesse condannato l'ufficiale, l'avrebbe fatto senza prove.
Ma per il sistema giudiziario israeliano, a diffrenza che per il quotidiano comunista, vale la presunzione d'innocenza.

Ecco il testo:

Il capitano R. è tornato ieri sera a casa sorridente e con la coscienza a posto. Un tribunale militare lo ha assolto con formula piena dall'accusa di aver violato gli ordini sparando un caricatore intero sul corpo già a terra di una scolara palestinese di 13 anni, Iman Al-Hams, di Rafah, entrata per sbaglio in un'area sul confine tra Gaza e l'Egitto dichiarata «proibita» dall'esercito di occupazione israeliano. Esplodendo quei colpi, il capitano R. volle assicurarsi di aver messo in condizione di non nuocere la ragazzina, «sospetta terrorista», che aveva sulle spalle lo zainetto della scuola. All'interno però non c'era una bomba ma solo quaderni e matite. Non colpevole. Così hanno deciso i giudici militari che hanno ritenuto sincera la ritrattazione di un testimone chiave dell'accusa. Il caso risale al 5 ottobre dello scorso anno. Soldati al comando dell'ufficiale sostennero che R. aveva sparato tutti i colpi a sua disposizione sul corpo della ragazza - una ventina, in particolare alla testa e al petto - per assicurarsi di averla uccisa. Iman Al-Hams qualche attimo prima era stata colpita perché entrata in una zona vietata, a 100 metri da una postazione militare, «Ghirit». R. a sua difesa ha sempre affermato che non era stata sua intenzione colpire la ragazzina ma di essere stato costretto a farlo dopo che palestinesi armati avevano aperto il fuoco contro di lui. Versione molto diversa da quella dei suoi soldati. Il loro comandante, raccontarono, si era avvicinato alla ragazza già a terra, e aveva scaricato su di lei il suo caricatore. Un soldato disse alla radio militare che l'ufficiale si era avvicinato a Iman e «messa l'arma in posizione automatica» aveva «svuotato il caricatore da distanza ravvicinata sul suo corpo senza vita». Un altro militare riferì che R., sparati i primi colpi, si voltò per tornare verso Ghirit ma ebbe un ripensamento, tornò indietro, puntò l'arma verso il basso e sparò altri dieci proiettili. I giudici invece hanno dato credito alla spiegazione dell'ufficiale secondo cui l'accusa era una deliberata menzogna di soldati sotto il suo comando, che lo ritenevano troppo rigido e severo e che avevano inventato tutto per liberarsi di lui. Le cose per R. si sono messe bene lo scorso febbraio quando un testimone chiave ha clamorosamente ritrattato la sua deposizione e accusato i suoi compagni di falsa testimonianza contro R.

Eppure la rete televisiva israeliana Canale 2 aveva diffuso, qualche giorno dopo l'uccisione, le registrazioni, conservate dall'esercito, delle conversazioni nella postazione militare che confermano la versione dei soldati. «Ho verificato la sua morte» disse R. dopo avere sparato due colpi alla ragazzina. Qualche ora prima, riferirono i testimoni, l'ufficiale aveva ordinato ai soldati di colpire «chiunque si muova: anche se ha tre anni, bisogna ucciderlo». Ieri, dopo la sentenza, Ehab Al-Hams, uno dei fratelli di Iman, ha commentato amaro: «Non ci facevamo illusioni, sapevamo che la corte militare israeliana non ci avrebbe dato giustizia».
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