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La Stampa Rassegna Stampa
15.11.2005 Sul rapporto degli israeliani e degli ebrei con la storia
un intervento di Avraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 15 novembre 2005
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yehoshua
Titolo: «Gli ebrei tra mito e storia»
LA STAMPA di martedì 15 novembre 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 8 un articolo di Avraham B. Yeoshua che riportiamo:
In Israele, durante una recente querelle sulla riforma dell’insegnamento della storia del sionismo e una possibile conseguente «frantumazione» dei miti sionisti, il giornale Haaretz ha pubblicato una strana lettera giunta alla redazione.
L’autore - una persona anziana, consapevole che gli studi storici hanno il dovere di perseguire la verità ma anche timoroso che questa verità possa scalfire miti ebrei e sionisti (fondamentali, a suo parere, per la solidità dell'identità nazionale) - propone che a fianco delle ore di storia si tengano lezioni dirette a consolidare tali miti. Questa patetica proposta auspica la creazione di una possibile convivenza tra mito e storia, rivelando così un disagio pedagogico e di identità destinato a crescere nei prossimi anni. Ogni nazione si interroga oggi su come gestire la propria identità, sospesa tra tradizione storica e una globalizzazione che sommerge tutti. Ma il popolo ebreo, avendo costruito la propria identità principalmente su miti e assai poco sulla conoscenza di vicende reali e sul legame con la storia, è chiamato con maggiore severità a dare una risposta a tali quesiti.
Affinerei la mia affermazione dicendo che gli ebrei (e qui faccio una distinzione tra chi vive nella diaspora e i residenti di Israele) si trovano a un bivio e sono tenuti a decidere in base a quale modello impostare la loro identità nazionale: quello europeo, costruito principalmente su una coscienza storica con continuità di tempo e luogo; oppure quello americano, che tende a creare e a incoraggiare un'identità nazionale basata su miti vecchi e nuovi.
Probabilmente esagero nell’accentuare questa contrapposizione ma la ritengo necessaria al fine di chiarire la questione dell'identità israeliana.
Che cos'è un mito? Qual è il significato di questo termine, ambiguo e vitale a un tempo?
Il termine «mito» è di origine greca e negli scritti di Omero si ritrova con il significato di «parola», «discorso», «situazione di fatto».
Il mito in Grecia, recita l'enciclopedia, è un tentativo di spiegare il rapporto tra razionalismo, verità filosofica e tradizione e credenze religiose. Di interpretare, prima dell'avvento della scienza, determinati fenomeni, reali o immaginari, come conseguenza dei rapporti fra gli dei e fra questi ultimi e gli esseri umani.
Ciò che balza agli occhi dalle precedenti definizioni è una chiara contrapposizione. Da un lato una verità suprema, quasi trascendentale, e dall'altro la menzogna, o l'immaginazione soggettiva, che cerca di dare un significato a cose di cui non si può provare l'esistenza storica o di fatto. «Non è la verità, non è successo veramente, è solo un mito» ci sentiamo dire di tanto in tanto in merito ad asserzioni false, a fatti non veri assurti a uno status immeritato. Da qui l'impulso di alcuni a distruggere i miti, convinti di purificare l'aria dalle menzogne e di rendere un buon servizio alla verità.
Il mito è un racconto che va al di là di vicende ancorate a un determinato tempo e a un determinato luogo, che cerca di esprimere una verità profonda, eterna ma rilevante, ancor più di una verità storica che, dopo aver «concluso» la propria vita, diventa ininfluente. Il mito rimane in eterno e può essere condiviso da popoli e genti diverse. La crocifissione e la resurrezione di Cristo non sono vicende storiche appurate dell'anno trentatré d.C. ma un mito a cui un miliardo di fedeli crede più di quanto creda nei fatti riportati da un quotidiano.
L'episodio del sacrificio di Isacco è un mito presente nella coscienza nazionale e religiosa degli ebrei da migliaia di anni ed esercita su di loro un forte potere di identificazione. Non avrebbe quindi alcun senso tentare di collocarlo in un contesto storico, di tempo o di luogo, in quanto la sua forza è viva e vitale anche per ebrei residenti a migliaia di chilometri di distanza dalla cima del monte di Gerusalemme ove ebbe luogo.
Un evento particolarmente significativo e drammatico può trasformarsi in un mito col passare del tempo. La Shoah, per esempio, non è già più unicamente una vicenda storica ma comincia ad aleggiare nella sfera del mito. I suicidi collettivi commessi dagli ebrei per non rinnegare la loro fede durante le crociate alla fine dell'undicesimo secolo hanno ormai travalicato il tempo e il luogo in cui sono avvenuti e si sono trasformati in modelli mitici.
Per più di duemila anni gli ebrei hanno costruito la propria identità nella diaspora basandosi su una coscienza mitica e non storica. Innanzi tutto per via del semplice fatto che la religione costituiva la componente fondamentale della loro identità e un'identità religiosa è caratterizzata principalmente da elementi mitici. In secondo luogo, non avendo una vita nazionale vincolata a un territorio in cui si parlasse un'unica lingua e poiché l'unità del popolo si manteneva mediante metafore e simboli del culto religioso, ecco che la possibilità di serbare una coscienza storica associata a determinati luoghi e all'evolversi cronologico di eventi era praticamente nulla.
Mi spiegherò meglio con un esempio: gli ebrei ricordano con un giorno di digiuno la distruzione del Tempio, una tradizione che si mantiene anche nella moderna Israele. Il Tempio fu però distrutto due volte: la prima nel 580 a.C. e la seconda nel 70 d.C., a distanza di più di seicento anni, in circostanze e per motivi diversi. Commemorare i due episodi in un unico giorno rende tale memoria astorica e mitica, con tutta l'ambiguità e la genericità a essa connesse.
Gli ebrei hanno inoltre sempre errato da un luogo all'altro ma anche se dimoravano nello stesso posto per centinaia di anni consideravano quella presenza temporanea e non avevano interesse a preservare i costumi del posto o a documentare i loro rapporti con i locali. Sia il luogo che il tempo erano infatti concetti privi di significato, fattori momentanei e transitori perché all'arrivo del Messia gli israeliti avrebbero fatto ritorno alla vera madrepatria. Ma anche nella terra di Israele il tempo si sarebbe trasformato in un qualcosa di divino, di redentore, e la loro vita, che in quel momento dipendeva dalla benevolenza dei popoli fra i quali vivevano, sarebbe radicalmente mutata.
La loro dispersione rendeva poi impossibile dal punto di vista pratico collegare storicamente luoghi diversi ed estranei l'uno all'altro. L'unico contesto in cui gli ebrei potevano perciò incontrarsi e provare un senso di appartenenza non era nella memoria storica ma nei miti formativi del loro essere. Così tornano incessantemente al versetto: «In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall'Egitto». In altre parole: il mito, contrariamente alla storia, è vivo e presente e gli ebrei devono costruire la loro identità in base ad esso e non in base a un contesto storico.
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di una coscienza basata sulla mitologia? Il vantaggio è che ci si può disperdere in tutto il globo, vivere fra popoli e civiltà diverse e continuare a mantenere una propria identità indipendentemente dalle circostanze e dalle situazioni storiche locali. Nonostante l'enorme differenza di condizione di vita delle varie comunità, gli ebrei si sono mantenuti uniti grazie agli stessi miti, sostanzialmente religiosi ma negli anni trasformatisi anche solo in spirituali. Tanto più che da tali miti, come quello della redenzione messianica, gli israeliti traevano speranza in epoche di persecuzioni e di angherie.
Ma gli svantaggi di una simile coscienza sono infinitamente maggiori dei vantaggi.
In primo luogo non sono molti quelli che riescono a mantenere un'identità basata su una coscienza mitica avulsa da un legame concreto con la madrepatria e da una realtà di vita comune con i propri connazionali. Per questo durante i lunghi anni della diaspora molti ebrei si sono assimilati e hanno perso la loro identità. Se nel primo secolo d.C. il loro numero oscillava tra i quattro e i sei milioni ecco che diciotto secoli dopo ne troviamo solo un milione sparsi per il mondo.
Ma ancora più grave è il fatto che il mito, essenzialmente, è come una monade di Leibniz: non può essere alterato, né mutato, né sottoposto ad alcuna critica razionale ma, nel migliore dei casi, solo a interpretazioni. O lo si accetta o lo si rifiuta. E gli ebrei, prigionieri della loro coscienza mitica, accettarono l'odio dei gentili come un'irrevocabile condanna del destino. In alcuni casi tale coscienza mitica ha suscitato nei loro confronti un atteggiamento analogo da parte dei popoli fra i quali vivevano. Così il mito della crocifissione di Cristo si vedeva contrapposto nella coscienza cristiana a quello dell'identità ebraica. Gli israeliti inoltre si sono sempre reputati sostanzialmente anomali, diversi dagli altri popoli, e di conseguenza non vedevano la loro storia come parte integrante di quella mondiale.
Così, a fianco della mobilità geografica, della flessibilità sociale e della capacità di adattamento del singolo, la collettività ebraica è rimasta rigida e fossilizzata nella propria identità mitica che non forniva solo visioni di tragedie e distruzione ma anche la speranza di una redenzione divina, un fatto che purtroppo, come è stato dimostrato nella Shoah, le ha impedito di vedere i terribili pericoli in agguato.
E allorché il grande filosofo ebreo Gershom Sholem definì il sionismo «un ritorno degli ebrei alla storia» si riferiva alla possibilità che essi riducessero l'elemento mitico della loro identità e rafforzassero una coscienza storica basata su una continuità temporale e sulla loro presenza in una patria dai confini chiari. Una coscienza che trae insegnamento dalla storia degli altri popoli e in special modo da quelli vicini, che valuta e giudica se stessa in rapporto ai loro successi e ai loro errori. Una coscienza che riflette sugli errori del passato ed è convinta di poterli correggere imparando a migliorare e a cambiare senza tuttavia perdere la propria identità.
Eppure, nonostante il sionismo abbia più di cento anni e abbia riportato considerevoli risultati nella creazione di una realtà nazionale, la lotta tra la coscienza storica israeliana e quella mitica è lontana da una soluzione essendo quest'ultima alimentata e rafforzata in Israele da quattro elementi diversi:
1.La presenza di ampie comunità religiose che ne mantengono i codici (nelle Yeshivot e nelle scuole religiose femminili si continuano a studiare testi religiosi senza alcun accenno a un retroterra storico).
2.Il legame profondo degli israeliani con gli ebrei nella diaspora, la cui identità continua a essere basata sui vecchi miti.
3.Il processo di globalizzazione che offusca le identità nazionali e crea nuovi miti mondiali ai quali è facile per gli ebrei mescolare i propri.
4.Il legame politico simbiotico con gli Stati Uniti d'America, la cui identità tende verso il mito e non verso la storia.
Quindi, chi vuole rinsaldare la propria coscienza storica e creare anticorpi contro elementi religiosi oscurantisti, rafforzare la coscienza nazionale israeliana contro la tendenza ebraica alla diaspora, permettere a Israele di integrarsi veramente nella famiglia dei popoli e normalizzare un'esistenza nazionale moralmente responsabile delle proprie azioni e non sottomessa alle condanne mitiche del destino, farebbe bene a rifarsi al modello di identità europeo come fonte di ispirazione e di studio.
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