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La Stampa Rassegna Stampa
15.11.2005 L'inconsistente tereoma di Igor Man per difendere Arafat
morto il raìs la pace non è arrivata, ne seguirebbe che non era un ostacolo alla pace

Testata: La Stampa
Data: 15 novembre 2005
Pagina: 11
Autore: Igor Man
Titolo: «La morte»
LA STAMPA di martedì 15 novembre 2005 pubblica a un articolo di Igor Man: una commemorazione di Yasser Arafat.
Si tratta di un assemblaggio di insinuazioni più o meno esplicite, di mitologia storica e, soprattutto, di un debolissimo "teorema" politico, che Man sembra deciso a ripetere ossessivamente fino che non divenga, per il pubblico meno avvertito, una "verità" incontestabile.

Man scrive che i medici francesi avrebbero indicato come causa probabile della morte di Arafat un veleno sconosciuto. In realtà hanno dichiarato che nel sangue del raìs non si è trovata traccia di "nessun veleno conosciuto". E un po' diverso...
Si augura poi che "un giorno, gli israeliani che giustamente van fieri dei loro ricercatori, dei loro medici ci diranno il come e il perché della morte puzzolente di Abu Ammar".
Un modo chiaro di indicare i responsabili del fantomatico "avvelenamento".
Man mette poi in dubbio l'esistenza dei conti svizzeri di Arafat e dell'agenda dei conti neri di Arafat: perché il servizio segreto israeliano, " che a suo tempo scovò un conto corrente (microscopico) che Leah Rabin aveva dimenticato in una banca americana e acceso quando suo marito era ambasciatore a Washington" non li scovano si domanda, immaginando che il Mossad sia onnipotente e infallibile, che i palestinesi non abbiano nessuna struttura preposta a prottggere i loro segreti, che i conti esteri del defunto presidente dell'Anp siano scandagliabili dall'intelligence o dalla giustizia di Gerusalemme come quelli dei cittadini israeliani...
Assurdità, volte a suggerire che quanto è emerso, ad opera della stampa internazionale, non dei servizi segreti israeliani, sulla corruzione e sulle segrete trame finanziarie del raìs nei giorni della sua morte non sia che propaganda.
Questo per quanto riguarda le insinuazioni
Tra i miti, la vittoria militare di Karameh, l'equiparazione del terrorismo palestinese alla resistenza italiana, di Arafat ad alcuni leader di organizzazioni clandestine ebraiche durante il mandato britannico, "terroristi" quanto lui (benchè per esempio l'Irgun, prima di compiere l'attentato al King David Hotel, avvertì delle sue intenzioni per permettere di salvare le vite di chivi si trovava, mentre non risulta che Arafat abbia mai fatto nulla di simile) .


Infine, il teorema: dopo la morte di Arafat non si è raggiunta la pace, dunque Arafat non era un ostacolo alla pace.
Lo era invece: il rifiuto degli accordi di Camp David e il sostegno dato al terrorismo suicida bastano a dimostrarlo.
Semmai, non era l'unico ostacolo: Hamas, i Brigati dei Martiri di al Aqsa Hezbollah e l'Iran continuano a minacciare Israele e impedire una composizione pacifica del conflitto anche oggi. Ma Igor Man si guarda bene, naturalmente, dal nominare questi ostacoli.

Il suo scopo è convincere i lettori che la morte di Arafat, voluta da Israele, è stata inutile.
Oltre che patetica, priva di dignità, tanto da costituire, nella sua prosa piena di "pietas" un implicito atto d'accusa contro i suoi non nominati "responsabili".

E un po' di "pietas" per le vittime del raìs Igor Man riuscirà a trovarla?

Ecco il testo:

E’ un anno dalla morte di Arafat. Una morte amara, una morte puzzolente. S’è spento le mille miglia lontano da al Quds (la santa), quella Gerusalemme dove proclamava d’esser nato mentre i suoi numerosi biografi si dividono fra Il Cairo e Gaza. E’ morto in Francia, terre d’accueil, nel sussiegoso ospedale militare di Percy di Clamart (dedicato alle malattie del sangue), grazie alla generosità, tutta francese, di Chirac al quale Sharon per altro avrebbe «sconsigliato» di rendergli visita alla Moqada, quel «quartier generale» dove in fatto avevano costretto Mister Palestina agli arresti domiciliari. Essendosi dimostrati incapaci di una diagnosi plausibile i medici egiziani e giordani chiamati al capezzale di Arafat, i suoi fidi: «Abu Ammar (il suo nome di battaglia ndr) - gli dissero - il governo francese s’è offerto di ospitarti in un ospedale attrezzato; il governo israeliano s’è infine detto d’accordo, garantendo il tuo ritorno in Palestina a cura ultimata. Il destino della Palestina, la nostra causa sono nelle tue mani: va a Parigi, curati e torna». «Se è per la Palestina, vado», replicò Arafat, abbozzando un sorriso, «ma i suoi occhi grondavano lacrime» racconterà il fedelissimo Mohammad Dahlan (il delfino in pectore), già controverso capo della sicurezza di Gaza. Portarono Arafat a braccia sino al Falcon di Chirac, e fu uno spettacolo pietoso: il deciso, l’arrogante Mister Palestina, lui che aveva grande considerazione di se stesso, spediva con le mani bacetti non si sa bene a chi, il suo sorriso da accattivante s’era fatto misero. «Peserà nemmeno cinquanta chili», sospirò M., uno dei due fedayn promossi suoi famigli quand’erano giovanissimi ed ora bianchi di baffi e capelli.
All’ospedale, Monsieur le Président venne accolto con tutti gli onori. Ad attenderlo c’era anche Suha, la giovanissima moglie, già da tempo esule in Francia, gli sfiorò la fronte con le labbra ben truccate, porgendogli il telefonino sul quale era in linea la loro figlioletta. Parlarono a lungo il vecchio «al Walid» (padre) e la bambina, finché i medici non decisero di sedare Arafat stravolto da un mix di dilagante stanchezza e di commozione senile. Da quel momento comincia un inverecondo balletto nel salottino a ridosso della camera di Arafat. Chi assiste Abu Ammar ha bisogno di contanti, Arafat come al solito non ha un dinaro addosso e immediatamente s’assopisce quando gli domandano dove sia l’agenda, vale a dire il fantomatico quadernetto dove egli è solito segnare le (cospicue?) donazioni dei «fratelli arabi», nonché i proventi d’una ramificata fiorente impresa-cooperativa che produce mobili e ricercati capi di vestiario: un business carsico creato da Arafat nel dicembre del 1967 allorché divenne il leader dell’Olp spodestando il corrotto, odioso Ahmed Shukeiri, quello dell’infame «getteremo gli ebrei a mare».
Che si sappia, la famoso agenda non s’è finora trovata ma c’era un conto in chiaro nelle mani oneste di Abu Mazen, il «ricco fedayn» suo successore.
Il «balletto» si interrompe bruscamente quando il lungo ciclo di analisi cliniche viene disturbato da furibondi attacchi di dissenteria, complicati da irrefrenabile vomito. Il corpo, anzi il corpicino, di Arafat avvolto e pinzato da tubi e tubicini, subisce, fra un coma e l’altro, indagini «riservate»: si pensa addirittura all’Aids ma il responso è negativo e infine la squadra medica conclude trattarsi verosimilmente di un veleno »inedito».
Ho scritto, più sopra, con pietas, che la morte di Arafat fu puzzolente. Causa l’irrefrenabile dissenteria, il misterioso vomito. Forse, un giorno, gli israeliani che giustamente van fieri dei loro ricercatori, dei loro medici ci diranno il come e il perché della morte puzzolente di Abu Ammar. E l’intelligence di Gerusalemme che a suo tempo scovò un conto corrente (microscopico) che Leah Rabin aveva dimenticato in una banca americana e acceso quando suo marito era ambasciatore a Washington (gli costò il posto), il celebrato servizio segreto israeliano possibile che non riesca a trovare la fantomatica agenda? Il conto svizzero? (se esiste).
Arafat meritava una fine migliore. Certamente non fu uno stinco di santo, praticò il terrorismo (in questo esercizio furono campioni anche grandi personaggi della controparte), ma si batteva per una causa oramai riconosciuta «giusta» da non pochi Giusti di Israele. E, poi, la Storia legittima tutti: per i Borboni, Garibaldi era un brigante e noi giovanissimi partigiani che facevano la Resistenza avendo coraggiosamente paura come ci chiamavano i nazifascisti? «Comunisti badogliani», così ci chiamavano e chi di noi fosse stato colto con addosso un solo foglio della stampa clandestina, sarebbe stato fucilato, ipso facto. Banditen.
Ho conosciuto Arafat al Cairo, nel 1956, in dicembre, tramite Eddie Pollack, il mitico corrispondente della AP passato all’Ansa, grazie a Sergio Lepri. In quel tempo l’infausta crisi di Suez segnò il balzo alla ribalta internazionale di Nasser, segnò la fine dei grandi imperi coloniali: la Francia, la Gran Bretagna. Allora Arafat era un giovincello in carne, coi vestiti troppo stretti: «Sono un poeta - celiò - e il poema che sto scrivendo si chiama Palestina, la nostra patria».
Qualche anno dopo quell’incontro, il 18 di marzo del ’68, nell’intento di troncare la guerriglia che Arafat dirigeva clandestinamente, Israele decise di attaccare il comando palestinese a Karameh, un villaggio sulla sponda orientale del Giordano. Contro il parere dei suoi fedayn, Arafat decise di affrontare le poderose forze di Israele. L’azione israeliana fu aeroterrestre, potente, ma l’armata Brancaleone palestinese (con la quale, inopinatamente, si schierò una divisione dell’artiglieria giordana) dopo una giornata intera di combattimenti selvaggi costrinse gli israeliani alla ritirata. I caduti palestinesi furono molti, Karameh rimase sfregiata ma i palestinesi avevano dimostrato ai «fratelli arabi» che Israele non era invincibile. L’impatto dell’exploit palestinese fu enorme, i giornalisti si precipitarono a Salt dove Abu Ammar, il misterioso capo dei fedayn, aveva convocato una conferenza stampa, uscendo così dalla clandestinità. Nessuno dei 32 reporter presenti conosce quell’uomo truccato da guerrigliero: la barba volutamente incolta, gli occhi neri, il revolver alla cintura, il fucile impugnato, quasi fosse un ombrello. «La guerra di popolo può durare anche mezzo secolo», disse Abu Ammar: «Torneremo a Gerusalemme».
Si è sempre detto e spiegato che «il problema è Arafat», scrive Newsweek, che il principale ostacolo che blocca la pace è Arafat. «Il problema è Arafat», ma è passato un anno dalla sua morte e lo stallo (sanguinoso) in Palestina continua. E allora, dov’è il problema? Si domanda Newsweek. Il problema è nell’odio che ha spodestato la speranza accesa dagli accordi (magari abborracciati ma pragmatici) stipulati a Oslo. Il problema sono i «vecchi» dell’una e dall’altra parte: si richiamano entrambi al diritto alla terra dei padri, l’idea della rinuncia li rende folli. Questo il tempo dove cresce l’erba zizzania e nessuno è capace d’estirparla. La pace in Terra Santa non è per domani.
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