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Il Manifesto Rassegna Stampa
11.11.2005 Vecchi e nuovi miti della propaganda anti-israeliana
la discriminazione contro gli ebrei orientali, l'avvelenamento di Arafat

Testata: Il Manifesto
Data: 11 novembre 2005
Pagina: 11
Autore: Zvi Shuldiner - Amnon Kapeliouk
Titolo: «Il trionfo degli ebrei orientali - Sulla fine del raìs l'ombra dell'avvelenamento»
Nell'articolo "Il trionfo degli ebrei orientali" pubblicato a pagina 11 dal MANIFESTO di venerdì 11 novembre 2005 Zvi Shuldiner, commentando la vittoria di Amir Peretz nelle elezioni interne del Labour, dipinge Israele come unpaese dominato dal razzismo contro gli ebrei orientali.

Un'immagine tanto più improbaile nel momento in cui uno di essi diviene il leader di uno dei più importanti partiti del paese (dopo essere stato sindaco della sua città leader del sindacato e mentre a capo della Repubblica si trova un ebreo iraniano, anch'egli, tra l'altro, dopo aver battuto l'askenazita Peres).

La realtà è che Shuldiner non riesce a cogliere la fondamentale differenza tra discriminazioni determinate da pregiudizi che possono essere diffusi in ogni società, o anche tra difficolta di inserimento dovute a effettive differenze culturali e socioeconomiche e sistemi di discriminazione legali. Ovvero tra società perfettibili e società fondamentalmente ingiuste.

Tra Israele e l'Iran, o l'Arabia Saudita, per esempio.

Ecco l'articolo:

Shimon Peres, il famoso Peres, eroe di tante sconfitte, c'è riuscito ancora a 82 anni d'età. Tutti i pronostici gli davano la vittoria nella competizione interna al suo partito, ma contro tutte le previsioni Peres ha ottenuto una stridente sconfitta di fronte a un avversario che fa tremare la Borsa, risveglia timori razzisti, e sembra la ricetta giusta per resuscitare il quasi defunto Partito laburista israeliano. Amir Peretz, 54 anni, presidente della Histadrut (la debilitata centrale dei lavoratori), di origine marocchina. La vittoria di Peretz scuote uno dei più vecchi stereotipi della società israeliana, rimanda a uno dei suoi problemi nascosti. Una società che negli anni `50 e `60 temeva di «levantinizzarsi». Una società che dagli inizi della colonizzazione sionista nel secolo 19esimo si vedeva come roccaforte europea in un mondo arretrato.

L'Oriente era ed è per l'Europa moderna il sottosviluppo. Quanto al sionismo, l'atteggiamento verso gli arabi è riflesso di questa vecchia concezione europea. E gli atteggiamenti verso gli arabi si sono applicati anche agli ebrei di origine orientale, visti per molti anni come parte di una civiltà non sviluppata, contaminati dalla cultura araba.

La sensazione di una discriminazione etnica non era un semplice complesso soggettivo per gli ebrei orientali appena arrivati in Israele, nei primi decenni dopo la fondazione dello stato. Era realtà. Sono stati discriminati e emarginati, socialmente ed economicamente. Il nazionalismo di destra che hanno adottato, l'appoggio all'estrema destra israeliana, ne è stato la reazione, il modo di identificarsi a una società che li spiazzava, li rifiutava, li riduceva in povertà in nome del socialismo. Uno dei peggiori fallimenti della socialdemocrazia israeliana sta proprio lì, nella cosiddetta questione orientale.

La società israeliana pareva sempre rifugiarsi nel timore che l'oriente l'avrebbe dominata. Oggi molti lo temono. Peretz rappresenta per molti la rivendicazione di una riscossa, la vendetta sociale. Per altri è la paura. Come rappresentante della Histadrut, soprattutto negli ultimi anni era una delle poche voci che parlavano a favore di una società un po' migliore, un po' meno crudele con chi lavora.

Peretz è senza dubbio meglio dei tanti credenti nella Sacra chiesa del Libero mercato, e rappresenta un enorme trionfo psicologico per molti. Allo stesso tempo però si presenta già in modo tale da tranquillizzare un po' i mercati. Al suo attivo sono alcuni passi dubbi compiuti dal sindacato, balbettii, concessioni. E però Peretz si dichiara convinto che è necessario agire a favore della pace e della giustizia sociale nella sua versione socialdemocratica moderata, e chiede che il Partito laburista abbandoni il governo di Sharon.

Peretz vuole recuperare l'identità politica di un partito che sembrava morto, ormai senza fisionomia propria - in cui la fame di poltrone ministeriali era la sola cosa capace di provocare guizzi di vitalità.

Mentre tutta Israele guarda al fenomeno Peretz come un terremoto politico, nel suo partito molti affilano i coltelli - già si sentono Peres e i suoi ministri fare appelli alla prudenza, a non precipitare le cose. Peretz non ha ancora occupato la carica di presidente del partito, e già nel suo partito cresce il timore delle divisioni che saranno prodotte da chi teme per il proprio culo, da chi ha paura di quell'«orientale estremista». O da chi teme di adottare un'identità politica socialdemocratica un po' più decente e coerente.

Un fenomeno politico importante, la vittoria di Peretz? Certamente sì. Ma le sue vere dimensioni saranno chiare solo nelle prossime settimane e mesi.
Sempre a pagina 11 IL MANIFESTO pubblica un articolo di Amnon Kapeliouk, "Sulla fine del raìs l'ombra dell'avvelenamento" che rilancia l'ipotesi dell'omicidio di Yasser Aafat.
Kapelliouk omette che il medico personale di Arafat ha dichiarato di esser certo che il raìs avesse contratto il virus Hiv poi sostenere cervelloticamente che esso gli sarebbe stato inoculato per mascherare un avvelenamento) e afferma perentoriamente che l'ipotesi della morte per aids sarebbe stata diffusa per "screditare" postumamente il raìs.

Nessuna smentita, nemmeno quella dei medici francesi che affermano che nessun "veleno conosciuto" è stato trovato nel sangue di Arafat, è invece valida per l'ipotesi dell'assassinio. Potrebbe trattarsi di un veleno sconosciuto, arguisce Kapeliouk secondo la nota logica per cui non vedremmo un gatto invisibile, ma non vediamo nessun gatto, dunque c'è un gatto invisibile.

Il sospetto su Israele deve sempre essere tenuto vivo e Arafat deve essere a tutti i costi presentato come un "martire".

Ecco il testo:

Yasser Arafat si è spento un anno fa, l'11 novembre 2004, alle 3,30 del mattino, all'ospedale militare di Percy a Clamart, a sud di Parigi. Certo, le condizioni del presidente palestinese si erano bruscamente aggravate nelle ultime settimane. È altrettanto certo che l'assedio posto dall'esercito israeliano al suo quartiere generale della Muqata, a Ramallah, a partire dal dicembre 2001 l'aveva costretto a vivere in condizioni sia fisiche che psicologiche estremamente difficili. Ma, per numerosi dirigenti palestinesi il raìs è stato avvelenato dagli israeliani. Ed è quello che pensa anche il suo medico personale (giordano), il dottor Ashraf al Kurdi. I media israeliani hanno dato, in queste ultime settimane, una certa credibilità a questa «voce» ventilando la possibilità di una «liquidazione» del presidente palestinese. Questo termine brutale è stato utilizzato, ad esempio, il 30 settembre scorso, da Yoram Binur, corrispondente della seconda rete televisiva per i Territori occupati.

Tre settimane prima, il supplemento settimanale del quotidiano Ha'aretz aveva intitolato il suo articolo: «Arafat è morto di aids o è stato avvelenato». Ma, nel loro articolo, i giornalisti Amos Harel e Avi Isacharoff, citando un esperto israeliano, definivano «bassissima» la possibilità che Arafat avesse contratto l'aids, sottolineando invece come, per numerosi medici, i sintomi inducessero piuttosto a pensare a un avvelenamento.

Cosa hanno detto i medici dell'ospedale di Percy, uno dei migliori in Europa nel campo dell'ematologia? Firmato il 19 novembre 2004 dal primario di ematologia, il dottor B. Pats, il referto medico riservato concludeva: «Yasser Arafat è deceduto per un grave episodio vascolare cerebrale emorragico massiccio. Tale emorragia cerebrale si è innestata su un quadro clinico che comprendeva quattro sindromi (...)

Il consulto di un gran numero di esperti di diverse specializzazioni e i risultati degli esami effettuati non hanno consentito di delineare un quadro nosologico che spiegasse l'associazione delle sindromi.»

Ma il sospetto dei palestinesi si basa anche sull'intenzione espressa senza mezzi termini dal primo ministro israeliano, Ariel Sharon, di volere eliminare Yasser Arafat. A partire dalla primavera del 2002, il generale Sharon ha reiterato le sue minacce. Il giorno del Capodanno ebraico 2004, il primo ministro ripete con tono martellante: «Arafat sarà scacciato dai Territori». Scacciato o ucciso?

All'inizio del novembre 2004, il giornalista Uri Dan, confidente del primo ministro, scrive che questi «ha annunciato a Bush che non si considerava più vincolato da quello che gli aveva promesso nel loro primo incontro nel marzo 2001 [e cioè]: di non attentare alla vita di Arafat».

Il 18 agosto 2004, ho assistito personalmente al discorso del presidente Arafat di fronte al Consiglio legislativo palestinese, riunito alla Muqata. Per ben due ore, in piedi, con la voce robusta, non aveva l'aspetto di un malato.

Il 28 settembre, in occasione del quarto anniversario dell'Intifada l'ho rivisto per l'ultima volta. Mi saluta con l'abbraccio abituale e mi chiede mie notizie. «Va tutto bene, al-hamdou lillah [Che Dio sia lodato], ma tu, Abu Ammar, hai perso molto peso in poco tempo». Il suo viso è dimagrito, il suo corpo sembra ballare nelle vesti. «Non è niente», risponde. All'improvviso, il suo portavoce Nabil Abu Rudeina mi sussurra all'orecchio: «Meglio finire qui, perché Abu Ammar ha bisogno di riposarsi».

Nel mese di ottobre, le sue condizioni di salute peggiorano. Il 12, quattro ore dopo la cena, accusa dolori di stomaco, vomito e diarrea. Il 27, aggravamento improvviso: perde conoscenza per un quarto d'ora.

L'indomani giungono i medici egiziani, poi quelli tunisini, e infine quelli giordani. Non riuscendo a stabilire l'origine del male, suggeriscono di trasferire il malato in un ospedale francese. L'Eliseo dà immediatamente il suo consenso. Il generale Sharon, per il tramite del suo capo di gabinetto, Dov Weissglas, autorizza non soltanto la sua partenza, ma anche il suo ritorno, una volta guarito, e, per uno strano cambiamento di idee, propone di inviare alcuni medici israeliani a Parigi. Il 29 ottobre, in mattinata, i suoi assistenti trasportano Abu Ammar dall'edificio in cui era rinchiuso da ben trentacinque mesi in uno dei due elicotteri inviati dalla Giordania.

A Clamart, Arafat arriva cosciente, ma molto debole. I primi esami non rivelano né leucemia, né tumori, bensì una grave infiammazione dell'apparato digerente, che i medici combattono con forti dosi di antibiotici e di anti-infiammatori. Le sue condizioni migliorano un po' ma, il 3 novembre, d'improvviso entra in coma. Soffre di una serie di sintomi gravi, attribuiti a una tossina sconosciuta che i medici francesi non riescono ad individuare. Soltanto un miracolo può salvarlo, dice il suo entourage. Due settimane dopo il suo arrivo, il presidente Yasser Arafat chiude gli occhi per sempre.

Per spiegare questa morte improvvisa, la stampa israeliana ha indicato tre cause: infezione, aids o avvelenamento. La tesi dell'infezione non ha alcun fondamento medico: nessun medico francese, palestinese, egiziano, tunisino o giordano ha affermato di aver scoperto una traccia d'infezione durante i vari esami effettuati. Inoltre, se fosse stata un'infezione la causa della sua malattia, allora Arafat avrebbe potuto fronteggiarla con la somministrazione di antibiotici.

La tesi dell'aids sembra sia stata accennata con l'unico scopo d'infangare l'immagine del raìs. Infatti l'articolo già citato di Ha'aretz non apporta il minimo elemento probatorio. Un'inchiesta del New York Times ha escluso in toto tale ipotesi. I medici francesi non la citano mai. I medici tunisini hanno proceduto a un test Hiv: negativo. «È inconcepibile, assicura un esperto israeliano, che una malattia che è durata due settimane, con diarree terribili, vomito violento, grossi problemi dell'apparato digerente, e che ha provocato gravi disturbi di coagulazione, sia stata provocata dall'aids».

Avvelenamento? Le autorità israeliane bollano le accuse come «stupide» e «malintenzionate». I medici dell'ospedale di Percy dichiarano, nel loro referto, di non aver rinvenuto tracce di veleno conosciuto. Per giunta, hanno chiesto ad altri due laboratori - quelli della gendarmeria e dell'esercito - di effettuare le ricerche: tutto inutile. Eppure, alcuni esperti ritengono che si possano facilmente fabbricare prodotti tossici sconosciuti, alcuni dei quali scompaiono subito dopo aver provocato il loro effetto.

Alcuni dirigenti israeliani - fra cui, in passato, Ehud Barak - prendono in considerazione l'eliminazione fisica del presidente palestinese soltanto se non si lascerà «nessuna impronta israeliana». Un giornalista e esperto israeliano di lungo corso che preferisce anche lui conservare l'anonimato, ha raccontato a numerosi colleghi che, non appena fu nota la malattia del leader palestinese, si era persuaso che il raìs fosse stato avvelenato. C'è di più: tre personalità del settore della sicurezza avrebbero discusso con lui, separatamente, quale fosse il metodo migliore da utilizzare, e sarebbero giunte alla medesima conclusione: il veleno. Tutto questo avveniva all'inizio del 2004.

Dolori ai reni e allo stomaco, assenza totale dell'appetito, calo delle piastrine, perdita di peso notevole, macchie rosse sul viso, colorito giallastro: «Qualsiasi medico vi dirà che si tratta di sintomi di avvelenamento» dice il medico giordano Ashraf al-Kurdi, che seguiva Abu Ammar, di cui conosceva la cartella clinica a memoria.
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