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La Repubblica Rassegna Stampa
11.11.2005 Reticenze e omissioni degli intervistatori di Abu Mazen
Fabio Scuto e Alberto Stabile

Testata: La Repubblica
Data: 11 novembre 2005
Pagina: 11
Autore: Fabio Scuto - Alberto Stabile
Titolo: «Io e l'eredità di Arafat così fermerò il terrorismo.»
LA REPUBBLICA di venerdì 11 novembre 2005 pubblica un'intervista di Fabio Scuto e Alberto Stabile al presidente palestinese Abu Mazen, nell'anniversario della morte di Yasser Arafat.

Il fatto che quest'ultimo abbia sostenuto il terrorismo non viene ricordato dai due giornalisti, se non in modo estremamente reticente, affermando che mentre Abu Mazen rifiuta la "lotta armata", non è possibile "dire lo stesso per Arafat".
Neppure viene ricordata la responsabilità di Arafat nel rifiutare un possibile accordo a Camp David.

Quando, più avanti nell'intervista, Abu mazen afferma che l'anp sta facendo quanto è in suo potere per combattere il terrorismo i giornalisti non ricordano che in vari casi Israele ha dovuto arrestare terroristi impegnati a preparare attentati, che erano stati segnalati all'Anp senza che questa inetrvenisse in alcun modo.

Ecco il testo:

RAMALLAH - Un anno dopo la morte di Arafat nella Muqata di Ramallah, nella palazzina dove Yasser Arafat ha vissuto prigioniero non c´è più l´odore di rancio e di caserma. Ci sono stati importanti lavori di ristrutturazione e altri ne seguiranno. La ricorrenza sarà celebrata oggi con la cerimonia d´inizio dei lavori di un nuovo mausoleo nel piazzale. La tomba di Abu Ammar sarà elevata sulla sommità di una collinetta artificiale circondata da tre laghetti. Un giardino fiorito, una moschea e un museo alla memoria. Provvisorio, naturalmente, in attesa di compiere l´ultima volontà del raìs, la sepoltura nel recinto sacro della moschea Al Aqsa, a Gerusalemme.
Presidente Abu Mazen che idea s´è fatto della morte di Yasser Arafat?
«Le conclusioni delle varie equipe mediche che hanno avuto in cura il presidente Arafat durante la sua malattia dicono non sono stati trovati veleni conosciuti. Quando si dice veleni sconosciuti vuol dire che forse in futuro potremo saperne di più. Per questo abbiamo pubblicato il rapporto medico ma non consideriamo chiuso il caso».
Cosa accetta e cosa rifiuta dell´eredità politica di Arafat?
«Arafat non è stato libero di disporre della sua eredità, dal momento che ha vissuto da prigioniero, in una grave situazione di depressione fisica e morale, gli ultimi anni della sua vita, comunque ha lasciato un´eredità difficile ed enorme. Abbiamo dovuto ricominciare da capo, sia restaurando i rapporti interni e internazionali sia affrontando problemi cruciali come quello della sicurezza e dello sviluppo economico della società palestinese».
Ma dove ha sbagliato Arafat, se alla fine ha perduto l´appoggio anche di quella parte della comunità internazionale che l´aveva sempre sostenuto, come l´Europa?
«Credo che negli ultimi tre anni, particolarmente duri, di prigionia, Arafat non sia stato in grado di lavorare come avrebbe voluto e quindi ha perso l´appoggio di cui si parla».
Lei, però, ha avuto sin dall´inizio un atteggiamento più fermo, di rifiuto della lotta armata. Lo stesso non si può dire per Arafat.
«Non è una novità la mia ferma opposizione alla militarizzazione dell´intifada. Ho sempre ritenuto che questo metodo non fosse utile alla causa palestinese. Quando sono stato eletto presidente ho messo in pratica questa mia posizione».
Rispetto a un anno fa com´è cambiata, se è cambiata, la condizione dei palestinesi?
«Un cambiamento importante c´è stato nel campo della sicurezza. Rispetto a un anno fa la situazione è migliore. Abbiamo stipulato una tregua che stata rispettata all´80%. Adesso ci vuole un miglioramento delle condizioni economiche. Se la sicurezza migliora parallelamente all´economia, allora ci sarà un grande cambiamento nella vita dei palestinesi».
Secondo tutti i sondaggi, però è la mancanza di sicurezza all´interno dei Territori il problema che preoccupa maggiormente i cittadini palestinesi.
«Sono d´accordo, stiamo lavorando per porre fine al disordine interno che è l´eredità di cinque anni di Intifada. Certo, non posso dire che è tutto ok. Ma bisogna ricordare che abbiamo ereditato forze di sicurezza prive di mezzi. Le stiamo ristrutturando ma nessuno può pensare che si possa aggiustare tutto in nove mesi».
Lei ha sempre detto che il ritiro da Gaza sarebbe stato importante se avesse riaperto il processo di pace. Ma due mesi dopo, non c´è neanche l´accenno di un dialogo.
«La situazione a Gaza è migliorata rispetto a prima e anche in Cisgiordania. Lasciatemi fare un confronto: prima di assumere la presidenza, in Israele c´erano almeno un paio di attentati ogni settimana, mentre negli ultimi dieci mesi, ci sono stati solo tre attentati. Gli israeliani sanno perfettamente che decine di attentati sono stati evitati grazie al nostro impegno e alla nostra collaborazione. Anche gli americani lo sanno, lavoriamo allo scoperto: siamo contro il terrorismo e lo combattiamo con tutte le nostre modeste forze».
E allora perché Sharon si rifiuta di incontrarla?
«Purtroppo, con questi suoi atteggiamenti di rifiuto Sharon finisce col premiare i terroristi. Mi spiego: se riusciamo ad evitare decine di attentati questo non conta, ma se ci sfugge un attentatore, il cui obiettivo è evidentemente quello di rovinare il dialogo, Sharon gli va subito incontro. Il premier israeliano sa che stiamo combattendo il terrorismo, la logica suggerisce che dovremmo collaborare».
Non c´è dubbio, però che attentati ci sono stati, fino alla scorsa settimana e Sharon deve rendere conto ad un´opinione pubblica giustamente sensibile.
«L´opinione pubblica israeliana vorrebbe la sicurezza, e questo è sacrosanto. Ma Sharon sembra soggetto anche a pressioni politiche interne che influenzano i rapporti con noi. In sostanza ogni volta che Sharon ha dei problemi all´interno della sua stessa maggioranza, blocca ogni passo positivo nei nostri confronti per cercare di recuperare il consenso della destra».
Tuttavia, Sharon è riuscito ad attuare il ritiro da Gaza.
«Senz´altro. Infatti, io ho alzato immediatamente il telefono e l´ho chiamato per felicitarmi di questo passo importante. S´è visto che lo stesso popolo israeliano voleva il ritiro. Ed era prevedibile che ad opporsi fosse l´estrema destra. Anche nelle nostre file moltissimi erano a favore dell´intifada armata, in certi momenti rappresentavano il 70-80%, e avevano anche il sostegno di alcuni Paesi arabi. Quando mi sono candidato alla presidenza ho dovuto navigare controcorrente dicendo no alla militarizzazione della protesta e mi ha votato il 62%. I dirigenti politici devono saper assumere a volte posizioni che possono sembrare impopolari ma che sono vive nella coscienza della gente».
Ma lei si attribuisce qualche merito nel ritiro israeliano da Gaza? «Se la tregua non fosse stata mantenuta, il ritiro non sarebbe potuto avvenire».
Ammetterà, però, che nei Territori ci sono troppe armi e troppe milizie armate.
«Il nostro obiettivo principale è una sola Autorità che eserciti il monopolio della legge, un esercito legittimo, una legge uguale per tutti in un contesto di pluralismo politico. Stiamo lavorando con tutti i nostri mezzi per raggiungere questo scopo. Per questo motivo ci siamo scontrati per tre volte con Hamas, a Gaza e siamo pronti ad entrare ancora in battaglia con chiunque se sarà necessario».
Quindi, quando il governo d´Israele chiede che l´Anp cominci a lottare concretamente contro il terrorismo, lei cosa risponde?
«Non si tratta di rispondere alle richieste israeliane, la lotta al terrorismo è nel nostro interesse ed è un nostro dovere. Allo stesso modo, quando abbiamo avviato il processo democratico con le elezioni, non l´abbiamo fatto per compiacere gli americani o l´Europa o qualcun altro, ma perché è una necessità del popolo palestinese».
Lei s´è battuto perché Hamas possa partecipare alle elezioni politiche del 25 gennaio. Quali garanzie può offrire che Hamas, dopo le elezioni si converta in un movimento politico e abbandoni la lotta armata?
«A nessuno sarà permesso di avere una rappresentanza parlamentare e una milizia armata».
E se Hamas dovesse vincere le elezioni palestinesi. Lei darebbe l´incarico di formare il nuovo governo a un rappresentante del movimento integralista islamico?
«Se il popolo lo vuole non posso essere io a negarlo. Queste sono le regole della democrazia, ma lasciamo tempo al tempo, l´esito delle elezioni è tutto da vedere. In ogni caso sarò io a valutare se potrò convivere con una situazione del genere».
Cosa pensa delle dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad?
«Ogni nazione è responsabile delle dichiarazioni del proprio presidente. Quello che posso dire è che noi, parlo come presidente dei palestinesi, riconosciamo lo Stato d´Israele. E colgo l´occasione per ripetere quello che ho già detto a Bush: vogliamo uno Stato palestinese - con tutte le prerogative di un vero Stato - che viva accanto ad uno Stato israeliano in condizioni di pace e sicurezza».
Nel suo prossimo viaggio in Italia, il 2 dicembre, incontrerà il Papa. Ritiene che Benedetto XVI possa essere più sensibile verso la questione palestinese di quando non lo sia stato Giovanni Paolo II?
«Sarà la mia prima visita in Italia da presidente e sono onorato d´incontrare il presidente Ciampi, il governo italiano ed anche Sua Santità. Ho molto rispetto e stima per il ruolo del Papa. Credo che la politica del Vaticano sulla questione palestinese in generale non cambierà».
Arafat si sentiva il grande protettore dei luoghi santi cristiani in Palestina: anche lei?
«Assolutamente sì. Non saremmo buoni musulmani se non rispettassimo il cristianesimo e l´ebraismo. Di conseguenza il luoghi santi cristiani ed ebraici non sono per noi meno santi di quelli musulmani. Come i palestinesi cristiani non sono diversi dai palestinesi islamici».
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