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Il Foglio Rassegna Stampa
09.11.2005 Il terrorismo palestinese non disarma, fanatici governano l'Iran, la Francia è in fiamme, ma intanto emergere un liberalismo arabo
tre cattive notizie e una buona

Testata: Il Foglio
Data: 09 novembre 2005
Pagina: 1
Autore: Rolla Scolari - Tatiana Boutorline - Emma Bonino, Gianfranco Dell'Alba - Carlo Panella
Titolo: «Disarmo palestinese - Richelieu d'Iran - Al G8 in Bahrein arrivano gli arabi liberali - a rivolta nelle periferie era già scritta nel rapporto Stasi del 2003»
IL FOGLIO di mercoledì 9 novembre 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Rolla Sccolari "Disarmo palestinese" che riportiamo:
Il Cairo. Il Likud aveva già dato segni di scissione alla vigilia del piano di ritiro dalla Striscia di Gaza. Ora si spacca anche sulla questione della partecipazione di Hamas alle elezioni legislative di gennaio. Il premier, Ariel Sharon, è reduce da una parziale sconfitta alla Knesset, il Parlamento israeliano. I mass media del paese parlano di un’Assemblea spezzata: i fedeli del primo ministro "del ritiro", da una parte, e "il fronte dell’anti disimpegno", dall’altra; i "ribelli" sono guidati dall’ex ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu, dimessosi pochi giorni prima dell’inizio dello sgombero dei civili dagli insediamenti, in segno di protesta. Sharon due giorni fa è stato sconfitto: i deputati "anti ritiro" hanno votato contro la nomina di tre ministri proposti da lui, 60 preferenze contro 54. Nella seconda votazione, il leader israeliano è riuscito a ottenere la nomina di Ehud Olmert alle Finanze. Nonostante ciò, la sconfitta subita dimostra l’esistenza di due fazioni opposte all’interno del partito di maggioranza. Il fronte dei deputati che si erano opposti al disimpegno sembra avere oggi una specie di potere di veto all’interno della Knesset, capace di incidere sulle scelte del primo ministro. La frattura potrebbe, a questo punto, obbligare il premier a sciogliere il governo prima del previsto e andare alle urne in anticipo, senza aspettare novembre del 2006. Domenica, prima della riunione del Parlamento,
Sharon aveva contraddetto il suo stesso responsabile alla Difesa, Silvan Shalom,
sulla dibattuta questione della partecipazione di Hamas alle elezioni legislative palestinesi, previste a gennaio. Il suo ministro, infatti, in linea con la recente posizione adottata dal premier, sostiene che Israele non interferirà nel voto, nonostante la partecipazione del movimento palestinese
allo scrutinio non sia condivisa dal governo e nonostante il mancato disarmo delle fazioni, promesso all’indomani del ritiro dal presidente dell’Autorità nazionale, Abu Mazen. Il primo ministro, però, alla vigilia di una sconfitta non attesa ma temuta, ha cercato di riavvicinarsi alle frange "ribelli" della Knesset, che si oppongono strenuamente alla partecipazione di Hamas al voto, dichiarando che Israele "farà il possibile per impedire gli spostamenti dei membri del movimento durante il voto". Nonostante la sua nuova presa di posizione, Sharon non è però riuscito ad assicurarsi una maggioranza alla Knesset. Oltre al rischio di elezioni anticipate, la spaccatura interna al Likud, secondo molti analisti israeliani, potrebbe portare il premier a lasciare il suo partito per creare una nuova forza politica con cui presentarsi alle urne. I "ribelli " del Likud si erano opposti prima dell’estate al piano di ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, conclusosi a settembre, accusando il premier Sharon di consegnare il territorio nelle mani dei terroristi e di creare una nuova minaccia per la sicurezza dello Stato. Nonostante si sia trattato di un disimpegno unilaterale, le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese hanno collaborato durante lo sgombero degli abitanti degli insediamenti, garantendo una relativa stabilità all’interno della Gaza palestinese. Ma, come precondizione all’apertura di nuove trattative di pace, attese dall’intera comunità internazionale nel dopo disimpegno, il rais Abu
Mazen e la leadership palestinese avevano garantito l’impegno di disarmare le fazioni prima delle elezioni di gennaio. Ma, benché il rais, il 20 ottobre alla Casa Bianca, in un’atmosfera rilassata e ottimista, abbia reiterato il suo impegno a garantire la stabilità sia a Gaza sia in Cisgiordania, nel dopo ritiro la situazione della sicurezza nella Striscia è andata peggiorando e le forze militari dell’Anp non sembrano in grado di controllare il territorio. Inoltre, l’instabilità si è propagata in Cisgiordania, dove nelle settimane scorse hanno avuto luogo diversi attacchi contro civili israeliani e un attentato suicida, nella cittadina di Hadera, rivendicati dal Jihad islamico e dalle Brigate dei martiri di al Aqsa, braccio armato dello stesso partito al potere, il Fatah, gruppo di Abu Mazen.
Hamas ha mantenuto le distanze da queste azioni. Eppure, secondo il capo della divisione Ricerche dell’esercito israeliano, il brigadier-generale Yossi Kuperwasser, il gruppo starebbe cercando di trasportare tecnologia per nuovi attacchi, come razzi Qassam, in Cisgiordania. Ieri, tre membri di gruppi armati palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con l’esercito israeliano Nablus, nella West Bank, durante un raid di Tsahal in un campo profughi, dopo che un attacco palestinese a un convoglio israeliano aveva ferito un soldato. In seguito al peggioramento della situazione della sicurezza, Israele ha ripreso le uccisioni mirate. Ieri, il capo delle Forze di difesa israeliane, il
generale Dan Halutz, ha ribadito che gli attacchi di questo tipo non smetteranno finché la situazione non migliorerà e che le azioni si focalizzeranno su membri del Jihad islamico. Il presidente Abu Mazen, in un secondo momento, ha però fatto sapere che non si parlerà della questione del disarmo prima dell’apertura delle urne. Il rais e i suoi uomini sembrano infatti sperare che il coinvolgimento dei movimenti armati al voto e, conseguentemente, alla vita politica attiva possa garantire un maggior controllo delle fazioni e dei militanti armati da parte della leadership dell’Autorità nazionale. Nei giorni scorsi, dodici fazioni palestinesi hanno sottoscritto con l’Anp un documento una specie di "codice d’onore" – dove s’impegnano a non utilizzare le armi durante la campagna elettorale e, soprattutto, a rispettare il risultato delle urne. Hamas non ha firmato il testo.
Sempre a pagina 1 dell'inserto Tatiana Boutorline firma un ritratto del consigliere eda maico del presidente iraniano Ahmadinejad, Motjada Ashemi Samareh, "Richelieu d'Iran" .

Ecco il testo:

Roma. Non concede interviste e fugge le telecamere, ma per chi vuole orientarsi
nella nuova geografia del potere a Teheran, l’uomo da conoscere è lui: l’inavvicinabile Motjaba Hashemi Samareh. Per il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, più che un consigliere è un amico e un mentore a cui riservare una rispettosa deferenza, soltanto a lui è concesso l’ardire di rispondere e dissentire e, quando nel palazzo presidenziale scende la sera e Ahmadinejad
si ritira in preghiera, Samareh è l’unico a cui venga tributato l’onore di inginocchiarsi qualche passo davanti. Nell’entourage di Ahmadinejad è guardato
con timore, perché Samareh è diverso dagli altri e gode dell’affetto del presidente, ma soprattutto perchè in pochi mesi si è affermato come il Richelieu della nuova nomenklatura. Samareh partecipa a tutte le riunioni di governo, impartisce ordini e convoca ministri per lodarli o più spesso redarguirli. Tutti i direttori dei dipartimenti ministeriali devono essere approvati da un comitato dietro cui si cela Samareh. Chi non coopera viene punito. C’è infatti la sua mano dietro il terremoto che ha decimato funzionari e ambasciatori nelle rappresentanze diplomatiche iraniane di mezzo mondo, così come è stata una sua iniziativa diramare note di comportamento draconiane indirizzate a tutto il personale d’ambasciata, dagli impiegati ai più alti in grado. Del resto, per lui: "Non c’è differenza tra un ambasciatore e un cuoco. Chiunque può cadere in tentazione, disseminare e raccogliere informazioni, o vendersi al nemico". Il martirio, o meglio il martirio negato, è il grande spartiacque nella vita di Samareh. "Quando sono stato ferito durante la guerra (Iran-Iraq, ndr) ma non sono morto, ho capito che non ero degno di diventare un martire. Allora mi sono ripromesso di non parlare e di comportarmi come se non esistessi, così che gli altri non potessero percepire la mia presenza". Risale a quegli anni di militanza nei pasdaran e nell’intelligence l’amicizia con Ahmadinejad. Entrambi sono animati da una viscerale passione rivoluzionaria, ma
Samareh si è già legato al cenacolo religioso radicale dell’ayatollah Yazdi, un passaggio che per Ahmadinejad avverrà molti anni più tardi. Dopo la guerra, tra i suoi compiti c’è la selezione dei funzionari e dei diplomatici iraniani. Chiunque voglia raggiungere una rappresentanza iraniana all’estero deve passare per il basement dell’ufficio di Samareh e sottostare a ore e ore di interrogatorio, una pratica nella quale l’uomo-ombra di Ahmadinejad sviluppa un talento particolare. Per stanare le personalità a rischio elabora e codifica un metodo che passa ai suoi collaboratori più giovani, la "psicologia dell’infedele". Al ministero c’è ancora chi ricorda le sue lezioni. Secondo Samareh la corruzione si annida nella piega dei pantaloni, si manifesta nella scelta delle scarpe ed è conclamata se il soggetto sorride. Un diplomatico della Repubblica islamica che indossi pantaloni con la piega manifesta inconfessabili preferenze per la monarchia e gusti occidentali, un musulmano devoto predilige le calzature che possano essere tolte facilmente per le abluzioni rituali, è sospetto dunque chi le preferisce lucide di cera, con pellami di pregio e stringhe alla moda. Le scarpe del devoto devono avere un aspetto dimesso ed essere state spinte indietro in corrispondenza del calcagno.
Un altro lampante segnale di devianza è il sorriso: sorridere agli estranei è un chiaro esempio di costume contro-rivoluzionario, un costume che spesso contagia gli ambasciatori, più esposti e quindi più a rischio di diventare cattivi musulmani.
Chi lo conobbe nei suoi giorni al ministero ricorda anche le sue visite a sorpresa nelle sedi diplomatiche, le sue epurazioni violente e l’ossessione per la segretezza, che lo faceva stare al largo da alberghi e da ambasciate. Che fosse a Teheran o all’estero Samareh ha sempre evitato occasioni
mondane e impegni ufficiali e in occidente ha sempre preferito dormire nelle moschee, circondato da un nugolo di guardie del corpo. Negli anni la sua potenza
è cresciuta, ma il suo voto di invisibilità non è mai venuto meno. Il primo a conferirgli un incarico "visibile", da consigliere, è stato Ahmadinejad, ma non è chiaro chi si percepisca come il sottoposto, perché il presidente grida, ma è l’uomo-ombra che mormora nell’orecchio. Se i collaboratori del presidente lo temono per la freddezza da giustiziere, anche la vecchia nomenklatura ha buoni motivi per temerne l’influenza. Samareh è uno dei più fedeli accoliti dell’ayatollah Yazdi e questa vicinanza trasmessa negli anni ad Ahmadinejad sta sconvolgendo non solo il lessico e i rituali, ma gli stessi equilibri della politica iraniana. Samareh crede fermamente nella presenza tangibile del "dodicesimo imam" (l’imam da 1.300 anni in occultamento della teologia sciita) e, a differenza di Hashemi Rafsanjani e Mohammed Khatami (i precedenti presidenti) non la ritiene una mera prospettiva escatologica. Il vicepresidente di Ahmadinejad non ha avuto paura del ridicolo firmando un vero e proprio accordo con il "dodicesimo imam", un documento gettato in fondo al pozzo di Jamkaran, dove secondo la teologia sciita si sarebbe nascosto 1.300 anni fa. Invocare la sua presenza e accampare con lui un rapporto preferenziale significa
svuotare di senso il ruolo della Guida suprema (che dovrebbe dirigere la comunità fino al ritorno del dodicesimo imam). Contro questa rivoluzione silenziosa l’establishment religioso sta già affilando i coltelli, ma Samareh non si scompone. Il suo presidente ha già accusato i predecessori di essersi
intascati 120 miliardi di dollari.
Emma Bonino e Gianfranco Dell'Alba scrivono dell'emergere di correnti liberali nel mondo arabo, nell'articolo "Al G8 in Bahrein arrivano gli arabi liberali", che riportiamo:
Questi ‘islamici’: sempre e solo cattive notizie. Guardi l’Iran, guardi questa
‘intifada’ in Francia: non c’è niente da fare...". Sul volo per Kiev, un passeggero italiano mi interroga sconsolato. Il commento mi colpisce perché questi eventi veri, evidenti e drammatici non esauriscono da soli il panorama del mondo arabo-mussulmano, delle sue articolazioni e della coscienza democratica che permea strati sempre più consistenti della società. In effetti, mai come quest’anno il medio oriente ha sperimentato momenti seppure parzialissimi di democrazia politica. Solo per fare qualche esempio, possiamo ricordare le elezioni palestinesi del gennaio scorso, la reazione decisa e nonviolenta dei libanesi all’assassinio di Rafiq Hariri, il successivo ritiro delle truppe siriane, e l’inchiesta internazionale che sta giungendo alla identificazione dei mandanti; nell’Iraq del post Saddam, milioni di iracheni, pur in condizioni difficilissime e sotto minaccia diretta da parte degli estremisti, sono andati alle urne per eleggere i loro governanti, poi per approvare la costituzione, e si preparano adesso alle elezioni parlamentari di dicembre, con la partecipazione annunciata e per nulla scontata, fino a qualche giorno fa, di gran parte della componente sunnita. C’è poi tutto il fronte più strettamente legato al riconoscimento dei diritti civili e politici delle donne e all’affermazione del pluralismo politico. In Kuwait, il lungo impegno di Rola Dashti e delle altre attiviste ha fruttato la conquista del diritto di voto attivo e passivo; in Egitto, il 7 settembre si sono tenute le prime elezioni presidenziali con più candidati concorrenti, e il Marocco si è appena dotato di una legge sullo statuto dei partiti politici. E si potrebbe continuare. Insomma, i "democratici" arabi esistono, e per poter continuare a lottare fino a ottenere le riforme democratiche necessarie hanno bisogno che altri "democratici" finalmente si accorgano di loro e decidano di offrire appoggio e sostegno politico al loro impegno: questo noi radicali abbiamo deciso
di fare da tempo, convinti che su questo fronte si gioca gran parte del futuro non solo del mondo arabo, ma anche dell’Europa e dell’Occidente. Ma a che punto siamo? L’associazione radicale "Non c’é pace senza giustizia" aveva concepito l’idea, fatta propria e sostenuta dal governo yemenita, di riunire a Sana’a nel gennaio 2004 governi e attori non governativi, a discutere di democrazia: la partecipazione fu davvero straordinaria e ci ha convinto che avevamo imboccato la strada giusta anche se complessa e difficile; per questo abbiamo accettato con entusiasmo la proposta del ministero degli Esteri italiano di condurre insieme il programma di assistenza alla democrazia (Democracy Assistance Dialogue, Dad) varato dal G8, proprio sulla base della dichiarazione di Sana’a e di cui l’Italia, assieme alla Turchia e allo Yemen, assicura la leadership. Il Dad è parte sostanziale dell’iniziativa di partenariato tra i paesi del G8 e i paesi del medio oriente allargato e del Nord Africa che ha preso il nome di Forum per il Futuro, ed è stato concepito proprio con l’obiettivo di consolidare un’abitudine al dialogo e alla consultazione fra governanti, parlamentari, esponenti di Ong, giornalisti, militanti dei diritti umani, a dimostrazione che non tutta la problematica che va sotto il nome di "promozione della democrazia" debba per forza essere targata solo "Stati Uniti". L’attuazione del progetto ha già dato vita a tutta una serie di incontri e di iniziative, a Istanbul, a Venezia, a Rabat e la prossima importantissima tappa è quella del Bahrein, dove l’11 e il 12 novembre i ministri degli Esteri dei paesi del G8 e dei paesi della regione si riuniranno nell’appuntamento annuale del "Forum per il Futuro" ed esamineranno i progressi ottenuti nel quadro del partenariato, compreso il programma Dad. Per la prima volta, gli attori non governativi saranno ammessi nella "stanza dei bottoni" e potranno presentare i risultati della loro attività direttamente ai ministri, accanto ai paesi con i quali hanno collaborato più strettamente. Ci saremo quindi anche noi radicali, insieme col governo italiano, per illustrare non solo ai governi, ma – se ci riuscirà – all’opinione pubblica quanto è stato fatto, e soprattutto quanto intendiamo fare l’anno prossimo. Nel gran parlare che si fa, non sempre a proposito, sul che fare in Iraq, come contribuire alla soluzione del conflitto israelo-palestinese, come neutralizzare i propositi neointegralisti iraniani, come sconfiggere il terrorismo di matrice islamica, siamo convinti che guardare con attenzione all’appuntamento del Bahrein – che precede di poco quello per il decennale degli accordi euromediterranei di Barcellona esserci, ribadire il proprio impegno a sostegno di processi democratici che si cominciano a vedere in alcuni paesi, a noi pare oggi la risposta più costruttiva e concreta alle sfide che sono sotto gli occhi di tutti. Ecco, mi verrebbe da chiedere: tutto questo interessa a qualcuno nella cosiddetta politica ufficiale" italiana? E’ possibile che una qualunque piccola rissa, una qualunque polemica tutta domestica, tutta "da cortile interno", tra o negli schieramenti tutte cose di cui, dopo tre giorni, nessuno conserva neppure memoria), debba avere l’onore di prime pagine ed editoriali, mentre quello che ho appena iniziato ad elencare in queste righe sia sempre marginalizzato, confinato, considerato "altro"? Noi radicali – e con noi non pochi altri – continuiamo a non rassegnarci.
Emma Bonino deputato europeo radicale
Gianfranco Dell’Alba
segretario generale di "Non c’è pace senza giustizia"
Carlo Panella ricorda che "La rivolta nelle periferie era già scritta nel rapporto Stasi del 2003"

Ecco il testo:

Roma. Di tutto si può accusare il governo di Jacques Chirac, tranne di non avere previsto quello che oggi accade nelle banlieues. La sua colpa, semmai, è di avere pensato di dominare l’emergenza prevista solo decretando una "giornata della laicità", finendo così per sostituire al culto della Dea Ragione il culto per il coprifuoco. Già nel 2003, infatti il governo francese incaricò la cosiddetta "Commissione Stasi" di stendere un rapporto, consegnato l’11 dicembre 2003, che oggi è bene rileggere. Si scopre che l’establishment francese – sia gollista sia socialista – aveva allora già chiaro l’emergere del pericolo sociale, ma anche che era ed è tanto mummificato nel culto della laicità che non è riuscito a proporre rimedi che vadano al di là della proposta di "una giornata per Marianna" (è così, incredibile ma è così) e della proibizione del velo. Il lavoro della Commissione presieduta da Bernard Stasi (un democristiano) e composta da altri 19 membri di varie fedi – compresi Régis Debray e Alain Touraine – per la parte d’inchiesta costituisce un unicum nell’Europa contemporanea. In tre mesi, infatti, la Commissione ha ascoltato centinaia di poliziotti, magistrati, sociologi, insegnanti, medici, religiosi, sindaci, sindacalisti, secondini, 220 studenti e pure alcuni massoni. Subito però il rapporto stupisce il lettore, perché è preceduto da una lunga introduzione sulla definizione della laicità e su come essa si incarni, unico Stato in Europa, nella Costituzione francese. Si comprende allora che i commissari, prima di guardare alla Francia, inforcano spesse lenti deformanti che impediscono loro di vedere. Soltanto dopo cinquanta di pagine si arriva al cuore del problema, ben sintetizzato nel titolo: "Il patto sociale: le fondamenta minate". Efficace il testo: "Le basi sociali del patto sociale sono state minate da un ripiegamento comunitario più subìto che voluto, soprattutto nei quartieri periferici, per la minaccia che pesa sulle libertà individuali e per lo sviluppo di discriminazioni fondate sul sesso o sulle origini. L’insieme
dei testimoni ha insistito su un contesto sociale urbano favorevole allo sviluppo di lo giche di comunità che fanno prevalere la fedeltà ad un gruppo particolare, piuttosto che sull’appartenenza alla Repubblica. [...] Alcune comunità politiche e religiose sfruttano questo malessere sociale per mobilitare
i loro militanti. Sviluppano una strategia di aggressione contro gli individui per piegarli alle norme della comunità che loro predicano. Questi gruppi agiscono nei quartieri periferici, sottoponendo la popolazione più fragile fragile ad una tensione permanente. [...] La deriva comunitaria tribale, a questo punto non è poi così lontana. [...] Un liceale sentito dalla Commissione ha dichiarato, senza che nessuno lo smentisse, che nessun allievo ebreo potrebbe portare la kippà nel suo liceo senza essere immediatamente linciato".
Allarme politico rosso, dunque, ma sconvolgenti le conclusioni. La Commissione scrive infatti che il ribollire palese di magma sociale incandescente va contrastato proibendo l’esposizione di simboli religiosi ostentati a scuola (velo islamico innanzitutto), creando un corso per insegnanti sulla "Filosofia della laicità" e con "l’istituzione di una Giornata della Marianna", dedicata a convegni sulla laicità. Ancora più sconvolgente è il fatto che governo Parlamento, opposizioni incluse, abbiano seguito questa linea. Come si vede, in Francia, la malattia è oggi più grave di quanto non appaia, anche perché ripropone vecchio schema ultramontano: una violenza repressiva feroce segue l’incapacità ricomporre le crisi nazionali; incapacità anche derivata da uno schematismo laicista e meccanicista che pretende che eliminando il simbolo – il velo – automaticamente si elimini la patologia, la deriva comunitaria tribale. E’ lo stesso trucco meccanicista di una Francia – sinistra inclusa – che sosteneva che l’Algeria era "territorio metropolitano francese", ma che gli algerini non erano cittadini francesi. Per difendere questo calembour vennero uccisi 300 mila algerini, perdendo infine la guerra. Il percorso che parte dal culto della Dea Ragione e porta al coprifuoco, d’altronde, è nato a Parigi.
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