Commemorare Rabin: un pretesto per difendere Arafat Igor Man,ultimo giapponese, non sa che Arafat è finito
Testata: La Stampa Data: 08 novembre 2005 Pagina: 10 Autore: Igor Man Titolo: «Israele 10 anni dopo, chi ha interesse a dimenticare Rabin»
LA STAMPA di martedì 8 novembre 2005 pubblica a pagina 10 una commemorazione di Ytzhak Rabin, affidata a Igor Man, che si conferma specialista nel costruire articoli sull'attribuzione delle proprie opinioni a defunti che non possono smentire, precisare, rettificare. In questo caso grande rilievo hanno le dichiarazioni e i pensieri veri o presunti tali di Ytzhak Rabin e di sua moglie Lea. Perché Man non accenna al fatto che Dalia Rabin, la figlia dello statista assassinato, ha fatto parte del primo governo Sharon, condividendone la linea politica per cui Arafat non era più, se mai lo era stato, un interlocutore credibile? Perché omette completamente di citare i giudizi di Eytan Haber, pure da lui citato come "amico vero" e "poliedrico tuttofare" di Rabin sull'eredità politica del premier laburista ? Raccolta, secondo lui, da Sharon con il ritiro da Gaza? E perché non dire nulla della sua convinzione che la vittoria elettorale dei critici del processo di pace di Oslo all'indomani dell'assassinio del suo principale artefice, come pure l'appoggio di una "elevata" percentuale di israeliani all'idea che Ygal Amir (l'assassino di Rabin) debba essere scarcerato dipendano dal terrorismo palestinese? (vedi Alberto Stabile intervista Eytan Haber, capo di Gabinetto del governo Rabin , "La morte di Rabin cambiò Israele" in A dieci anni dalla morte di Ytzhak Rabin, Informazione Corretta 04-11-05) Perché, se non per la necessità di omettere opinioni in contrasto con le tesi che Man vuole propagandare, ovvero che sia stato l'omicidio di Rabin a far deragliare il processo di pace e che Arafat fosse un autentico partner per la pace? Nelle ultime righe dell'articolo si rivela il vero scopo di Man, che si scaglia contro le "calunnie" che colpirebbero il defunto raìs che sarebbe stato invece un "partner leale di Rabin". Usare la memoria dello statista israeliano scomparso per fare l'apologia del capo terrorista che rifiutò la pace e scatenò la violenza della seconda intifada nel momento stesso in cui ebbe l'opportunità di dare uno Stato al suo popolo. Ecco il vero scopo dell'articolo di Igor Man.
In proposito, riportiamo quanto affermato da un testimone d'eccezione, Elie Wiesel, che, in un'intervista ad Alessandra Farkas del Corriere della Sera (Rabin disse a Elie Wiesel: "Arafat è il problema, Informazione Corretta 04-11-04 ) dichiarava: " «L'ultima volta che l'ho incontrato, durante una cena di Shabbat a New York, due settimane prima d'essere assassinato, Rabin mi ha preso da parte e mi ha detto, con un'aria molto seria e amareggiata: "All'inizio ero convinto che Arafat fosse la soluzione, adesso so che è lui il problema"."
Al lettore la scelta tra ricordare il Rabin di Igor Man o quello di Elie Wiesel.
Ecco il testo:
Dieci anni fa Yitzhak Rabin, primo ministro di Israele, veniva ammazzato da Yigal Amir, 27 anni, studente al terzo anno all’università di Bar-Ilan, un pio ebreo ortodosso adepto d’un gruppuscolo razzista. «Ho agito, dirà, in obbedienza alla Halakhah, la legge ebraica, che prescrive sia soppresso chiunque ceda al nemico anche un solo lembo della terra dei padri». Sono trascorsi dieci anni da quel delitto che con Rabin uccise ogni speranza di pace in Terra Santa - dieci anni ma «sembra ieri»: sarà anche banale dirlo ma così è. Israele ha preparato un pietoso calendario di rimembranze, apertosi il 3 di novembre con una cerimonia nella residenza del presidente Katzav, per concludersi il giorno 14. Alla manifestazione, in quella piazza dei Re che lo vide morire, e che da allora porta il suo nome, parteciperanno Bill Clinton e sua moglie Hillary. La piazza del destino accoglierà certamente moltissima gente e la commozione sarà genuina: mai come adesso gli israeliani anelano alla pace, stanchi come sono di portare sulle proprie spalle gli anni terribili della prima e della seconda intifada, il sinistro peso del terrorismo suicida. Ma gli animi non sembrano aperti alla speranza. A detta d’un sondaggio del quotidiano «Yedioth Ahronot» il 92% degli israeliani ritengono «probabile» un nuovo, clamoroso omicidio politico. Soltanto il 50% dei giovani sa che Rabin è stato ammazzato alla fine d’un grande comizio dedicato alla pace ma il 91% «sa tutto» di Yigal Amir, della sua richiesta di rifare il processo. Il 25% degli interrogati è convinto che Rabin sia stato vittima di un complotto ordito dai Servizi per punire il primo ministro reo d’aver firmato gli accordi di Oslo. Dieci anni fa, col dovuto rispetto, scrivemmo d’augurarci che la morte di Rabin fosse «utile» alla causa della pace. Di questo avviso è Shimon Peres, il patriarca laburista già coraggioso compagno di strada di Rabin. Ha detto: «Non tornerà più ma la sua visione politica è tuttora presente, con noi. Di certo il suo assassinio fece fare un salto indietro sulla via della pace ma non ha fermato la storia». Ma la sorella di Rabin, Rachel, dice amara che «Israele non ha imparato nulla da quell’omicidio, gli israeliani non hanno capito nulla di quella lezione». Infine la figlia Dalia, impegnata nella neonata Fondazione Rabin in una intervista all’Unità riconosce che «c’è una parte, sia pure minoritaria, della società israeliana che non solo non ha inteso imparare la lezione di dieci anni fa ma che addirittura rivendica l’assassinio di mio padre come un atto di eroismo». Rabin sapeva benissimo che la pace coi palestinesi era una scommessa (storica) con una duplice posta: un futuro sereno per i figli e i figli dei figli di Israele; la sua vita. Lui non volle mai drammatizzare le minacce, aperte e/o indirette ricevute subito dopo la sua ampia vittoria elettorale. Quando il fedele Eytan Haber, amico vero, poliedrico tuttofare, gliene parlava, Rabin muoveva la mano con un gesto diventato abituale borbottando «Bablett» (bazzecole) oppure da bravo soldataccio «Kishrush» (fregnacce). Ma come mai il generale che pianificò la guerra dei Sei giorni, lucidamente, «per annientare» Nasser, lui che durante l’intifada ordinò di «spaccare le ossa» ai giovani rivoltosi palestinesi, perché Rabin si convertì alla trattativa con il nemico numero 1, Arafat? In che modo l’implacabile generale è diventato il soldato che ha spezzato la spada sulla via della Pace? Sulla scorta di quanto racconta Haber ai giornalisti Victor e Salomon Malka («Shalom, Rabin», ed. Paoline) la spiegazione della metamorfosi di Rabin si può trovare nella lettura critica delle motivazioni dell’intifada palestinese: «... ciò che risultava fortemente era il fatto che l’aspirazione nazionale non era la motivazione più sentita.L’elemento determinante era rappresentato dalle umiliazioni subite dai palestinesi nei territori occupati. Molti degli interpellati mettevano l’accento sul comportamento dei soldati al posto di blocco di Erez. I racconti erano scioccanti e Rabin ne fu sconvolto». Nell’estate del 1992, seguii per il giornale la campagna elettorale di Rabin. Spesso al comizio preferiva il dibattito. Gli piaceva ragionare con la gente poiché era un soldato non un tribuno, perché quand’era ambasciatore in America aveva letto e riletto, chiosandolo, il famoso libro di Tom Payne: «Common sense» evidentemente riconoscendosi: «Un paese per esser forte e felice non ha bisogno di eroi. Ma di uomini di buon senso». Un giorno gli chiesero: quanto vorresti che fosse grande Israele? E lui, il candidato-Rabin, rispose: dal Mediterraneo all’India. Ma questo non è possibile e lui: vediamo allora, ragionando, cosa è possibile, cosa non lo è. Innanzitutto vediamo se ci conviene lavorare per la pace, scommetterci. Sempre dieci anni fa, Rabin e sua moglie furono a Roma. Al ricevimento a Villa Madama Furio Colombo mi presentò alla splendida Leah. Fatalmente finimmo col parlar della pace, nostra grande aspirazione comune. «Vede, mi disse Leah Rabin, per voi cristiani in generale, per voi cattolici in particolare, la pace è perdono, è amore eccetera. Per noi israeliani, per il primo ministro Rabin, generale-sabra, la pace è il contrario della guerra. Un bene supremo, dunque». Nel 1992 Rabin vinse alla grande difficili elezioni spiegando alla gente che la pace «conveniva». Il 13 di luglio del 1992, Rabin pronuncia il suo discorso programmatico alla Knesset: «... non siamo condannati a essere un popolo isolato e non è vero che il mondo intero è contro di noi. Dobbiamo liberarci da questa sensazione che ci vincola da mezzo secolo. Dobbiamo unirci al viaggio verso la pace, la riconciliazione, la cooperazione internazionale che muove l’intero globo... Sappiamo bene che troveremo ostacoli, affronteremo crisi, ci saranno delusioni, lacrime e sofferenza...». E rivolgendosi ai palestinesi, così li esorta: «Prendete il vostro destino nelle vostre mani, non lasciate che vada persa un’occasione che forse mai più si presenterà... Basta lacrime e sangue». Ancora oggi si seguita a discutere sul rapporto fra i due nemici per eccellenza: Rabin e Arafat. È vero che al sabra dagli occhi verdazzurri, figlio dell’aristocrazia ebraica, il fedayn suo nemico provoca fastidio, sinanco una evidente repulsione fisica. Sappiamo, per averlo visto in tv, che se non fosse stato per la gomitata esortativa di Clinton, il 13 settembre 1993, Rabin non avrebbe mai stretto la mano del sorridente Arafat. Lo fa a malincuore ma più tardi dirà di aver scoperto in Arafat un patriota, un rivoluzionario onesto. Citerà l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per ogni cosa... un tempo per la guerra, un tempo per la pace». Due giorni dopo l’assassinio di suo marito, Leah Rabin riceverà, nottetempo per depistare giornalisti e curiosi, Arafat. Il vecchio fedayn, in borghese, fa visita alla vedova del suo amico-nemico, tessendone con garbo l’elogio secondo le stesse «regole» del «consolo» praticato nel nostro profondo Sud. Prima di ammalarsi di «cancro del dolore» Leah spiegherà il rapporto fra suo marito, il soldato della Pace, e Arafat. Ne prenda nota il lettore, oggi che è quasi una moda rovesciar insulti e calunnie sul vecchio zaim palestinese, oggi che tristi figuranti del tragico balletto mediorientale, gentaglia con le mani sporche di sangue, nani politici s’affannano a gettar fango su Arafat, sullo stesso Rabin. «Certamente tra mio marito e Arafat si instaurò un rapporto speciale. Amicizia? Non proprio. Piuttosto fu una straordinaria collaborazione, un incessante lavoro in tandem di nemici che dopo essersi combattuti e magari odiati scoprono di pensarla allo stesso modo. Cioè che la guerra non risolve, che non c’è alternativa al compromesso ragionato, al dialogo, che la pace si fa col nemico. Arafat è stato un partner leale di Rabin». C’è una canzone, bellissima, del cantautore Aviv Geffen, dedicata «a un amico». Dice: «Io piangerò per te/ sii forte lassù/ la mia tenerezza/ è una porta che si spalanca di notte./ Ti custodirò, per sempre/ nella mia memoria,/ fratello». 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