Il regime iraniano non scherza: vuole davvero distruggere Israele diciamo "no all'indulgenza e all'indifferenza"
Testata: Il Foglio Data: 01 novembre 2005 Pagina: 1 Autore: un giornalista - Carlo Panella - Giorgio Israel - Amy Rosenthal Titolo: «Nessuna smentita iraniana - Ghazal Omid - Iran dissimulatore - O di qua o di là - Contro Teheranci vuole una strategia articolata su tre punti. Eccola - Militaria - Fiaccole, simboli di unità»
IL FOGLIO di martedì 1 novembre 2005 pubblica in prima pagina l'articolo "Nessuna smentita iraniana Khamenei difende Ahmadinejad, Annan vuole vistare Teheran", che riportiamo: Roma. Dichiarazioni, reazioni, risposte, smentite. A Teheran questi sono giorni di tante parole: ognuno opera la sua limatura formale, fa il suo quotidiano esercizio di retorica. Ma la sostanza non cambia. Dopo le frasi sulla distruzione di Israele, Mahmoud Ahmadinejad non ha fatto passi indietro, ha ribadito il concetto con sempre più dettagli e confermato la paternità di tanto odio: "Nel mio discorso ho semplicemente utilizzato le parole dell’ayatollah Khomeini". L’ex presidente iraniano, Mohammed Khatami, si è schierato con i "critici" di Ahmadinejad, dicendo che "non si dovrebbero rilasciare dichiarazioni che possono causare problemi politici ed economici all’Iran". Ha detto che la Repubblica islamica non ha la missione di "portare il mondo sulle nostre posizioni". Ma anche questa è forma: durante il mandato del pragmatico Khatami andava in onda la serie "Zahra dagli occhi blu", in cui gli israeliani commerciavano gli organi dei bambini palestinesi ed erano prodotte trasmissioni televisive dove si demonizzavano le pellicole del regista Steven Spielberg, perché nascondevano complotti sionisti. Ahmadinejad ha anche lanciato un monito ai paesi arabi – come il Kuwait e il Bahrain, che potrebbero riconoscere Israele – chiedendo di non allacciare relazioni diplomatiche con l’"illegittima entità sionista", dopo che già aveva invocato le "fiamme della nazione islamica" su chi collabora con quella "macchia nel centro del mondo islamico". Il Grande ayatollah Ali Khamenei, descritto come colui che ha cercato di ridimensionare le parole di Ahmadinejad, ha chiesto "di essere uniti contro il nemico comune", intendendo naturalmente Israele, perché soltanto l’unità permette di superare le "trappole" che il nemico mette in tutto il mondo. Sabato il ministro degli Affari esteri iraniano, Hamid Reza Asefi, rifiutando la condanna formulata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha dichiarato che la Repubblica islamica è legata ai principi della Carta dell’Onu e non ha alcuna intenzione di attaccare Israele. Ma ha aggiunto: "Le dichiarazioni pubblicate dal Consiglio di sicurezza, suggerite dal regime sionista per coprire i propri crimini e dare un’immagine diversa dalla realtà, sono inaccettabili". Non pago, ieri Ahmadinejad ha affermato che Teheran non ha intenzione di fermare la conversione dell’uranio a Isfahan – ultimo passo prima dell’arricchimento – dove l’attività è ripresa in agosto, accusando l’occidente di volere impedire alla Repubblica islamica di soddisfare un suo diritto legittimo. I negoziati con la troika europea (Francia, Germania e Gran Bretagna) erano stati interrotti prima dell’autunno e lo scorso settembre l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva approvato una risoluzione per un eventuale trasferimento del caso al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Di questo dovrebbe infatti discutere questa settimana, dopo il "dossier Siria": ieri è stata approvata all’unanimità una risoluzione che impone al regime di Damasco di collaborare con l’Onu nell’inchiesta sull’assassinio del premier libanese Rafiq Hariri, ma non prevede alcuna sanzione. Il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha dichiarato che si recherà per una visita diplomatica a Teheran, dall’11 al 13 novembre, ma Danny Gillerman, ambasciatore d’Israele all’Onu, si è opposto: "Così si dà legittimità a una nazione che chiede la distruzione di un altro Stato".
Finalmente la voce del Cairo Dopo l’iniziale silenzio del mondo islamico, rotto soltanto – e con prontezza – da Turchia e Anp, l’Egitto ha criticato le dichiarazioni di Ahmedinejad contro Israele. Secondo i quotidiani del medio oriente, nonostante la mancanza di una reazione forte e immediata, le affermazioni del presidente iraniano e il suo eventuale isolamento dalla comunità internazionale avrebbero reso felici gli Stati della regione che temono intromissioni nel proprio territorio da parte della Repubblica islamica (come l’Arabia Saudita). "La guerra di cui parla il presidente iraniano – dice al Foglio Ayelet Savyon, direttrice del progetto sull’Iran del Memri – non è soltanto contro Israele. E’ una battaglia tra le forze del bene (il mondo musulmano guidato dall’Iran) e le forze del male rappresentate dall’occidente, di cui Israele è parte". La vittoria del "suo" bene sul male, secondo Ahmadinejad, "è fattibile", ma si contraddice sui tempi: a volte parla di secoli, altre volte di ore. Sempre apagina 1 troviamo "Gli iraniani vivono come farfalle in un barattolo di vetro da 26 anni, ci dice lo scrittore Ghazal Omid"
Ecco il testo: Roma. "Gli iraniani vivono come farfalle imprigionate in un barattolo di vetro ormai da ventisei anni. Aiutateci ad aprire il coperchio". L’appello di Ghazal Omid, giovane scrittrice iraniana, è caldo e appassionato, dettato dall’amore per il suo popolo e la rabbia contro l’estremismo teocratico dei mullah. Omid, che ha 35 anni e vive fuori dall’Iran, ha scritto un libro coraggioso – "Living in Hell: a true odyssey of a woman’s struggle in islamic Iran against personal and political forces" – in cui racconta la sua triste esperienza personale e la trasformazione della società iraniana a opera di "irresponsabili fanatici che – dice al Foglio – hanno trattato gli iraniani come se fossero idioti, e che hanno intenzione di fare la stessa cosa con il resto del mondo". Come molti esuli iraniani, Omid è costantemente minacciata di morte – e il suo sito, livinginhell. com, attaccato dagli hacker – per aver raccontato la vita quotidiana, soprattutto delle donne, in Iran. "Mi criticano perché ho scritto di essere stata violentata da mio fratello e di essere cresciuta in una cultura nella quale non avevo diritto di parlare. Mi chiamano puttana e dicono che sono soltanto un’opportunista", racconta, quasi trattenendo il fiato. Mahmoud Ahmadinejad non è una sorpresa per Omid – "Non è una persona capace e ci porterà in un’oscurità ancora più buia di quella in cui siamo già", dice – perché ripete ciò che i "mad mullah", i mullah pazzi, ripetono da sempre: sono queste ideologie ad aver distrutto un paese meraviglioso. Quel che più fa soffrire Omid è il "lavaggio del cervello" che è praticato di continuo e che rischia di cancellare anche il ricordo di ciò che l’Iran era e può ricominciare a essere. "Basta guardare le donne – spiega – Sono state oppresse per così tanti anni che hanno finito per non considerarsi più una forza, pur essendola. Molte ragazze sono cresciute annullandosi e tutto quello che sanno fare è servire gli uomini. Mi chiedo come una futura generazione di donne condizionate in questo modo potrà diventare indipendente, capace di pensare autonomamente e pronta a opporsi al regime". Omid sa che le minacce dei mullah non sono semplici provocazioni, si ricorda gli insulti quotidiani contro Stati Uniti e Israele, e soprattutto il fatto che, da quando ha 15 anni, "nessuno è riuscito a spiegarmi perché dovevo gridare tutte le mattine a scuola ‘morte a Israele’ o ‘morte all’America’". Si ricorda i programmi tv in cui si proclama che, se avesse le armi nucleari, "l’Iran le userebbe per uccidere israeliani e americani", la miseria a cui questo regime costringe molti iraniani. Oggi, di fronte ad Ahmadinejad che vuole togliere Israele dalla faccia del mondo, Omid non si stupisce, ma è contenta delle reazioni di condanna, e spera soprattutto nel contenimento della minaccia nucleare, che dall’Iran si spargerebbe in tutti i paesi islamici: "Il governo di Teheran è come un serial killer che dà ai suoi bambini le armi più pericolose". Darsi un nome persiano "Tutti devono capire che i mullah non hanno paura di uccidere e troveranno sempre una giustificazione per farlo – dice Omid – Dall’ascesa di Khomeini sono state uccise quasi 150 mila persone". Guai quindi a mischiare la Repubblica islamica con l’Iran, sono due entità diverse, e la grande maggioranza degli iraniani non potrebbe mai far confusione. In questi giorni molti di loro hanno ricordato Ciro il Grande, fondatore dell’Iran, che liberò gli ebrei dalla schiavitù della Babilonia, così come l’attuale presidente di Israele, Moshe Katzav, un ebreo iraniano che spesso parla in persiano alla radio "Voce di Israele". L’avanzata dei valori dell’Iran più di quelli islamici è testimoniata dai nomi: molti cercano di cambiare il loro nome dall’arabo a uno puramente persiano, anche se i mullah considerano il cambio al pari di un peccato. Omid sogna il ritorno del "suo" Iran, quello che c’era prima della Repubblica islamica, quello in cui non si insegna ad odiare "paesi e popoli che quasi non sappiamo chi sono", ma la pacifica cultura persiana, che permette a molti iraniani di "ammirare gli Stati Uniti perché sono una società libera". Per questo la manifestazione organizzata dal Foglio è "splendida": serve a far capire che la minaccia dei mullah è "un pericolo per tutti": "Non è più soltanto un affare di Israele". A pagina 2 dell'inserto troviamo l'articolo di Carlo Panella "Iran dissimulatore".
Ecco il testo: Roma. Le dichiarazioni di questi giorni di quella che le cancellerie europee e la stampa politically correct definiscono "ala moderata" del regime di Teheran, fanno comprendere come le "anime belle" del giornalismo progressista e delle cancellerie europee abbiano sorvolato per anni sul fatto – evidentemente considerato un particolare secondario – che anche il "riformista" Mohammed Khatami voleva e vuole, esattamente come il suo successore, "cancellare Israele dalla faccia della terra". Né Khatami né i suoi "riformisti" infatti, polemizzano con Ahmadinejad, sostenendo che Israele deve vivere, ma lo criticano solo sul piano dell’opportunità. Anche sul tema della sopravvivenza di Israele, Khatami e il suo falso riformismo sono stati e sono maestri nell’arte della "taqiya", della dissimulazione. La "taqiya" è un preciso precetto dell’islam sciita, che permette al fedele di derogare agli stessi principi e canoni islamici pur di non incorrere in conseguenze personali o non suscitare danni alla "umma", alla comunità islamica. E’ un precetto che esalta fino al parossismo il sofisma, il gioco di parole, e anche l’affermazione del contrario di quello in cui si crede, che è stato codificato durante la guerra civile che ha sconvolto la comunità musulmana alla morte del Profeta, quando, appunto, gli sciiti furono battuti e perseguitati dai sunniti. In Europa ha un corrispettivo nel "nicodemismo", che permetteva ai cattolici e protestanti di dissimulare la propria fede durante le guerre di religione del Cinquecento e Seicento, con la differenza che nell’islam la taqiya investe non solo e non tanto la sfera religiosa, ma anche e soprattutto quella politica (che è inscindibile dalla fede). Nella dottrina politica musulmana, in particolare in quella sciita, la "dissimulazione" è quindi qualcosa di più che una predisposizione ad un linguaggio diplomatico, accattivante, che non crei problemi; è una vera e propria vocazione politica, una struttura del linguaggio, come si nota nelle reazioni di Khatami e altri riformisti alla uscita chiara e netta di Ahmadinejad contro Israele. L’ex presidente della Repubblica ha detto: "Non dovremmo fare dichiarazioni che possano causare problemi politici ed economici all’Iran". Il deputato riformista hesmatollah Fallhat Pisher, della commissione esteri del Majlis, il Parlamento, ha aggiunto: "Se il presidente Ahmadinejad avesse tenuto in considerazione l’atmosfera delicata di questi giorni nel mondo, le sue parole avrebbero avuto minori conseguenze". Ancora, il ministero degli Esteri iraniano ha scritto in una nota: "La Repubblica islamica dell’Iran è fedele alla Carta delle Nazioni Unite. Non ha mai usato la forza contro un altro paese, né ha mai minacciato l’uso della forza". Tutto questo è stato presentato da molti quotidiani come una "presa di distanza", come l’evidenziarsi di una spaccatura tra la componente "riformista" e quella oltranzista del regime. Ma non è così. In tutte queste frasi non c’è nessuna smentita, nessuna presa di distanza dalla tesi di Ahamadinejad, non viene affermata neanche lontanamente la piena legittimità di Israele ad esistere. Cè solo una presa di distanza dall’opportunità di dire apertamente che Israele va cancellato dalla faccia della terra. Dal dirlo, non da credere che questa sia la vera linea politica della Repubblica islamica dell’Iran, postulato che i riformisti non mettono minimamente in discussione. Lo stesso comunicato del ministero degli Esteri è un piccolo capolavoro di "taqiya", dato che, per quel dicastero, Israele, non è un "paese", né uno "Stato", ma è solo una "Entità sionista" illegale – così viene definita nei documenti ufficiali, oltre che in quelli politici – che va, appunto, cancellata dalla faccia della terra. Tutti i terroristi del presidente moderato D’altronde, ci vuole tutta la sete di petrolio e il disinteresse per la sorte e la sicurezza di Israele di cui è stata ed è capace l’Europa per sostenere che – anche sul tema di Israele – la presidenza di Khatami abbia segnato un’apertura. Non appena eletto al suo secondo mandato, il 25 agosto del 2001, il presidente "riformista", come primo atto di governo, ha stanziato 1.250.000 euro per una conferenza internazionale a sostegno dell’Intifada palestinese, per sottolineare il rinnovato appoggio ad Hamas da parte dei moderati iraniani. Cinque mesi dopo, il 2 gennaio 2002, il Mossad ha intercettato fuori delle acque territoriali di Israele una nave, la Karine A, che aveva caricato nel porto di Bandar Abbas, in Iran, armi ed esplosivi per Hamas e le "Brigate dei martiri di al Aqsa" impegnate nella fase più sanguinaria dell’Intifada delle stragi. Contemporaneamente, tutta la rete terroristica di Hamas, Hezbollah e "Jihad" era supportata da personale tecnico-militare iraniano: il colonnello dei pasdaran iraniani Alì Reza Temiz dirigeva dal Libano il reseau, di cui faceva parte anche Munir Makdah (ex dirigente di Al Fatah) che risiede a Ein al Helweh, vicino a Sidone e Imad Mugnieh, responsabile clandestino di Hezbollah. Il tutto sotto la supervisione dei "riformisti" iraniani. Carlo Panella Sempre a pagina 3 Giorgio Israel interviene sulle ormai inaccettabili ambiguità circa le minacce all'esistenza di Israele, nell'articolo "O di qua o di là, per i palestinesi e per Bertinotti è l'ora della scelta" Il Presidente iraniano Ahmadinejad ha fatto piazza pulita dell’ipocrisia, chiedendo candidamente il perché di tanto stupore: ma se sono 27 anni che diciamo che Israele va distrutto… Meno male che ha pensato lui a parlar chiaro, perché chi ripete (da decenni) che il vero, enorme problema è il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele da parte del mondo islamico, viene bollato come un falsario da parte del progressismo (con rispetto del progressismo) anti-imperialista, pacifista, terzomondista, cattocomunista, ecc. Giorni fa, Magdi Allam ha ricordato ancora come l’insegnamento scolastico nei paesi islamici sia basato sulla negazione del diritto all’esistenza di Israele e su un robusto antiebraismo. Ciononostante, non mancherà lo sfrontato di turno pronto a dichiarare che è falso che i manuali scolastici palestinesi siano infarciti di odio antiisraeliano. In coerenza con questo atteggiamento, i Giulietto Chiesa o i Casarini definiscono le dichiarazioni di Ahmadinejad "operazioni di facciata" o mosse in un "gioco politico internazionale". Inutile. La dichiarazione del presidente iraniano ha illuminato a giorno la situazione. Ora è netta la distinzione fra chi, senza "se" e senza "ma", ha aderito alla manifestazione promossa da Il Foglio; e chi, all’opposto, resta arroccato sulla linea secondo cui il "vero pericolo" è Sharon. Ma c’è una zona grigia: quella di chi, come Fausto Bertinotti, avrebbe aderito alla manifestazione a patto che essa fosse stata controbilanciata dalla richiesta (magari gridata sotto le finestre dell’ambasciata israeliana) della creazione di uno Stato palestinese. Il segretario del Prc è persona affabile e capace di imbastire confronti tolleranti e civili, ma ha due principali difetti: quello di avere un direttore del giornale di partito che non gode di queste qualità (di Sansonetti ricordiamo la delirante accusa di "razzismo" nei confronti di chi deprecava la devastazione delle sinagoghe a Gaza); e una certa tendenza al contorsionismo concettuale. Come quando – si legge sulla stampa – Bertinotti propone di cassare il riferimento al socialismo nella sinistra europea, ribadisce la condanna dello stalinismo, afferma che "per essere contro questo capitalismo non serve essere socialisti o comunisti ma basta essere uomini liberi"; e però dice che "non se ne parla nemmeno" di cambiar nome al suo partito, "noi siamo comunisti". Provi Bertinotti a guardare ai fatti con mente sgombra da preconcetti e si chieda, a fronte del diffuso rifiuto dell’esistenza di Israele nel mondo arabo e islamico (in troppi casi il riconoscimento è "de facto" e non di principio), chi ha più operato di recente per la creazione di uno Stato palestinese. La risposta gli sarebbe chiara: Ariel Sharon. Difatti, è stato lui a riconoscere questo diritto davanti all’Assemblea dell’Onu e a compiere l’atto più costruttivo in questa direzione: restituire Gaza alla sovranità palestinese. Era la grande occasione per iniziare a costruirlo, questo Stato, con i fiumi di denaro che vengono da tutto il mondo, iniziando con l’atto più emblematico: chiudere i campi profughi. Invece, in un delirio di "benaltrismo" – ben altro ciò che ci deve essere dato –, dopo aver devastato sinagoghe e tecnologie agricole, sono ricominciati i tiri dei Qassam, gli shahid e il solito corteo di orrori. La vera questione – altro che baloccarsi con le manifestazioni "simmetriche"! – è se il mondo politico palestinese voglia iniziare a costruire uno Stato o preferisca essere agente del programma di Ahmadinejad. Ma non porranno questa domanda i falsi amici dei palestinesi, gli "intellettuali" alla Vargas Llosa che, se prendesse corpo un atteggiamento costruttivo, non avrebbero più modo di riempire le loro vuote giornate scrivendo i reportage dell’odio. Amy Rosenthal intervista l'esperto americano di Iran Ilan Berman, che spiega "Contro Teheran ci vuole una strategia articolata su tre punti. Eccola"
Ecco il testo: L’iniziativa del Foglio è l’esempio del segnale che deve essere mandato all’Iran: dovrebbe essere imitato da tutta l’Europa e anche dagli Stati Uniti". Ilan Berman, vicepresidente dell’American Foreign Policy Council, con sede a Washington, e direttore del Journal of international security affairs, festeggia l’idea della manifestazione davanti all’ambasciata iraniana. Esperto della sicurezza regionale in medio oriente, Asia centrale e Russia, Berman ha una certa dimestichezza con la questione iraniana: ha offerto la sua consulenza alla Cia e al dipartimento della Difesa, ha scritto numerosi articoli sulla politica estera americana e sulla sicurezza e il suo ultimo libro – "Teheran Rising: Iran’s challenge to the United States"(Rowman & Littlefield Publishers, 2005) – è una lettura obbligata per chiunque voglia capire le minacce che oggi l’Iran pone al mondo. "I segnali che fino adesso abbiamo inviato all’Iran sono molto pericolosi – dice al Foglio – Dimostrano che il pessimo comportamento di Teheran, in politica interna e nel sostegno al terrorismo, non è tema di attenzione internazionale. Ci preoccupiamo soltanto del suo programma nucleare, ma questo è strettamente connesso al modo in cui il governo tratta la popolazione e si sente in diritto di sostenere gruppi terroristici come Hezbollah. Non si possono separare le questioni". Quando consiglia i politici, Berman sottolinea sempre il legame tra il regime dei mullah e Hezbollah, nato negli anni Ottanta e intensificatosi dopo l’11 settembre: "Sono stati forniti hardware, tecnologie e soldi che hanno permesso non soltanto di creare una testa di ponte per Hezbollah in Africa e America Latina, ma anche di militarizzare il confine settentrionale di Israele in modo così capillare che, se succedesse qualcosa in Iran, gli iraniani sarebbero in grado di attivare questo fronte settentrionale danneggiando Israele e distraendo dai loro obiettivi primari gli Stati Uniti". La potenzialità di Hezbollah è devastante. Berman racconta che gli strateghi politici sono convinti che l’Iran sciita e al Qaida non possano collaborare a causa delle loro differenze religiose: "Molte testimonianze fanno supporre che non sia affatto così. Stiamo infatti vedendo che affiliati di al Qaida come Zarqawi operano in Iraq e ricevono assistenza finanziaria, tattica e politica dall’Iran". La collaborazione tra Teheran e Hezbollah sta trasformando il conflitto israelo-palestinese: "C’è questa tempesta perfetta di attività politica che si svolge in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, con un nuovo presidente palestinese che non ha il peso politico e la forza di Yasser Arafat. Ci sono gruppi come Hamas e il Jihad islamico sempre più pronti a sfidare l’Anp mentre l’Iran e Hezbollah stanno rafforzando la propria testa di ponte con armi e denaro. Tutto ciò sta alterando gli equilibri del conflitto israelo-palestinese in modo negativo: l’Iran ha un ruolo di primaria importanza e noi dovremmo preoccuparcene, questa è una guerra contro il terrorismo". La questione nucleare diventa sempre più cruciale. "Il regime iraniano – spiega Berman – si è guardato attorno e si è reso conto che per ottenere un posto al tavolo delle grandi potenze e diventare ‘l’erede naturale’ del Golfo Persico deve sviluppare una capacità nucleare. Se gli permetteremo di farlo, non soltanto pianteremo l’ultimo chiodo nella bara dell’opposizione iraniana, ma saremo anche costretti ad avere a che fare con questo regime per un periodo molto più lungo di quanto potrebbe essere se non glielo permettessimo". Nel suo libro l’esperto americano sostiene che esiste l’opportunità di sfruttare le forze d’opposizione attualmente presenti in Iran in modo da generare un’ondata interna di cambiamenti, ma se cresce la minaccia dell’arma nucleare che Mahmoud Ahmadinejad può esercitare, si rischia che l’Iran faccia come fece la Cina nel 1989 in Piazza Tien an Men. Perché la strategia nei contronti di Teheran sia efficace, ci deve essere una collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico e il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Berman è un po’ scettico, dice che le posizioni di Europa e Stati Uniti "sono sempre incompatibili", perché la "soglia di sopportazione" da parte europea è molto elevata, sia nei confronti delle armi di distruzione di massa sia per il sostegno al terrorismo. Il presidente americano George W. Bush invece ha detto che gli Stati che sostengono i terroristi sono "fuorilegge" e, come ricorda Berman, ha dichiarato "che non tollererà un Iran nucleare sotto la guida del presente regime". Il divario deve essere ridotto, ma come? Berman una risposta ce l’ha. "Nel corso degli ultimi 10-15 anni, gli Stati Uniti hanno rinunciato a qualsiasi possibilità di influenza economica sull’Iran per mezzo di provvedimenti come l’Iran-Libya Sanctions Act. L’Europa, invece, ha la capacità di esercitare notevoli pressioni economiche e diplomatiche sull’Iran. Una fonte autorevole mi ha recentemente rivelato che se la compagnia tedesca Siemens cessasse di aiutarlo nei suoi progetti di sviluppo nucleare, all’Iran occorrerebbero da otto mesi a un anno per trovare un’alternativa. Per tutto questo periodo il programma di sviluppo nucleare rimarrebbe fermo". Questa è certamente una sostanziale possibilità di influenza, ma manca la coordinazione, almeno per costringere il governo di Teheran a riconsiderare il suo sostegno al terrorismo e il tentativo di procurarsi armi atomiche. "Non sono affatto certo – ammette Berman – che, nel breve tempo che ci rimane a disposizione, riusciremo ad arrivare a un accordo. Né gli Stati Uniti né l’Europa hanno considerato altre possibili strategie per creare alternative concrete che possano promuovere un positivo mutamento in Iran. Fra due o tre anni questo non sarà più possibile". Resta la via del Consiglio di sicurezza, ma anche questa, secondo Berman, è problematica, soprattutto a causa del voto della Cina, oltre che dell’alleato di Teheran, il Cremlino. "Due membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono i principali partner commerciali per il programma nucleare iraniano. Anche se i russi si astenessero, la vera questione rimane la Cina. Nel corso dell’ultimo anno sono stati stipulati due contratti tra Pechino e Teheran per un valore complessivo di oltre 100 miliardi di dollari entro venti anni. I cinesi, per ragioni economiche, hanno accettato, nel caso che la questione sia presentata al Consiglio di sicurezza, di porre il proprio veto". Questi patti devono trovare una risposta politica da parte di Washington e Bruxelles. Ma secondo Berman è proprio la "soluzione Consiglio di sicurezza" a essere errata: "Non è uno strumento adeguato per affrontare l’Iran, in quanto tocca soltanto una parte del problema. Il Consiglio di sicurezza non avvierà mai una dibattito sulla legittimità dell’attuale regime di Teheran. Può soltanto discutere la questione nucleare. Il vero pericolo non sta semplicemente in un Iran provvisto di tecnologia nucleare, ma nel fatto che questo paese è il principale sponsor del terrorismo. Questo impone un dibattito sulla natura stessa del regime iraniano e sul suo comportamento". La colonna "Militaria" fa il punto sulla minaccia strategica iraniana. Pretoria aiuta l’atomica degli ayatollah Fonti dell’intelligence israeliano hanno confermato il supporto diretto del Sudafrica al programma di sviluppo di armi nucleari di Teheran. Numerose delegazioni tecniche sudafricane avrebbero visitato l’Iran negli ultimi diciotto mesi per mettere a punto i dettagli del supporto di Pretoria al programma iraniano in particolare nell’arricchimento dell’uranio. Alle Nazioni Unite il Sudafrica è uno dei più strenui oppositori alle iniziative tese a impedire la proliferazione nucleare iraniana. Isolato dall’embargo internazionale, il Sudafrica dell’apartheid sviluppò un’intensa cooperazione militare con Israele che consentì di acquisire non solo armi convenzionali ma anche tecnologia nucleare. In base alla dottrina dell’accerchiamento nemico, anche a Pretoria la bomba atomica era ritenuta necessaria come deterrente contro aggressioni dai paesi africani confinanti, ma dopo la caduta dell’apartheid ogni programma atomico militare fu abbandonato. Così la tecnologia atomica iraniana diretta a minacciare Gerusalemme contiene "know-how" israeliano. Armi russe e cinesi giunte a destinazione La cooperazione tra Iran e Russia va ben al di là delle tecnologie e dei reattori per il programma nucleare civile di Teheran. L’ultima conferma è giunta pochi giorni or sono con il lancio del primo satellite iraniano messo in orbita dalla base russa di Plesetsk utilizzando un razzo Kosmos 3-M, un vettore a basso costo impiegato da Mosca per portare nello spazio i satelliti di numerosi paesi. Il satellite iraniano "Sina-1" è programmato per le telecomunicazioni ma anche per l’osservazione essendo dotato di alcune telecamere ad alta definizione. La sua orbita consentirà di monitorare tutto il medio oriente inclusi quindi Israele e le forze anglo-americane in Iraq. Le armi più moderne in dotazione all’Iran sono state fornite dalla Russia: centinaia di carri armati T-72, i 3 sottomarini tipo Kilo, i 15 caccia Mig 29 e i 25 bombardieri Sukhoi 24 mentre secondo indiscrezioni Mosca potrebbe aver fornito anche i moderni missili antiaerei e antimissile S-300. Pechino ha finora venduto armi a bassa tecnologia, quali quaranta caccia F-7/Mig 21, motovedette lanciamissili, motosiluranti ma anche i missili antinave lanciabili da batterie mobili costiere. Sono armi impiegate dai pasdaran del Corpo delle Guardie rivoluzionarie, in grado di minacciare direttamente il traffico di petroliere in tutto il Golfo Persico alle quali si è aggiunto recentemente il missile Raad, copia iraniana del cinese C-802 con 150 chilometri di raggio d’azione. E via mare contano su una buona flotta Sul finire degli anni Ottanta, mentre imperversava il conflitto Iran-Iraq, l’occidente dovette inviare nel Golfo forze navali per proteggere le petroliere dalle mine e dagli assalti dei pasdaran. In questi anni Teheran ha potenziato la flotta dei pasdaran (20 mila effettivi) a scapito della marina (18 mila) con nuclei di incursori subacquei, minisommergibili e un’ottantina di unità leggere di origine cinese, nordcoreana e nazionale in gran parte dotate di razzi e siluri leggeri, oltre a decine di piccole imbarcazioni in vetroresina e addirittura acquascooter utilizzabili anche per compiere attacchi suicidi. Il blocco dello stretto di Hormuz e della navigazione delle petroliere nel Golfo Persico rimane una delle più importanti opzioni strategiche dell’Iran, seconda soltanto alla possibilità di condurre attacchi missilistici con armi di distruzione di massa. I tre sottomarini classe Taregh (tipo Kilo russo), in caso di ostilità, avrebbero il compito di seminare mine all’imbocco di Hormuz mettendo a repentaglio l’accesso ai terminal petroliferi del Golfo. Le operazione nel vicino Iraq Il 20 ottobre il generale Rick Lynch, portavoce della forza multinazionale a Baghdad, ha riferito che dall’inizio dell’anno sono stati catturati 376 guerriglieri stranieri nell’Iraq centrosettentrionale. Tra i prigionieri provenienti da paesi islamici vi sono 78 egiziani, 66 siriani, 32 sauditi, 17 giordani e 13 iraniani. L’intelligence britannico ritiene che una maggiore presenza di iraniani sia riscontrabile nel settore di Bassora, dove ieri una bomba ha fatto almeno venti vittime. A pagina 3 IL FOGLIO pubblica l'articolo "Fiaccole, simboli di unità".
Ecco il testo: Le fiaccole sono uno strumento di presenza simbolica, non un manifesto di politica estera o l’espressione di una visione del mondo contemporaneo. Sono fiaccole, non chiacchiere partigiane, quelle che si vedranno giovedì, alle ore 21, all’angolo tra via Nomentana e via Santa Costanza, a Roma. Ciascuno dei partecipanti, individui e gruppi, porterà legittimamente le sue idee, e una idea aggiuntiva: che Israele ha diritto di esistere, e che non è uno scherzo da accogliere con indulgenza o indifferenza la minaccia di eliminarlo dalla faccia della terra. Viviamo infatti in un mondo tremendo. Il terrorismo e le lotte interetniche a sfondo religioso fanno vittime ogni giorno. Tre teste cristiane sono appena cadute nel silenzio dell’opinione pubblica internazionale, decollate dai barbari, in Indonesia. La faccenda riguarda tutti: le vittime della violenza inaudita di questi anni caratterizzati dalla furia intollerante sono di ogni confessione religiosa, in maggioranza islamici, e gli ebrei, gli americani, i cristiani crociati dell’occidente sono l’obiettivo sensibile, permanente, dell’islamismo politico e dell’estremismo teocratico. In questo quadro sarebbe ridicolo anche solo pensare che la testimonianza a favore del diritto di Israele ad esistere possa essere connotata da strumentalità o spirito di divisione e di vantaggio politico particolare. Che in una grande capitale dell’Europa politica, di fronte all’ambasciata della Repubblica Islamica d’Iran, con il rispetto e la devozione che si devono a quel popolo e alla sua passione per la libertà conculcata da un regime di fanatismo confessionale, si manifesti contro la violenza anti-israeliana, ha un chiaro e semplice significato. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad non è un pazzo isolato, e non solo perché è il presidente eletto di un paese il cui regime politico-teocratico dal ‘79 si è reso campione di imprese contrarie alla legalità internazionale e alla pace. Purtroppo anche Khatami, il suo predecessore riformista nella cui parabola sfortunata in tanti abbiamo creduto, la pensa come lui. Essere antisionisti sul piano storico è una posizione legittima, ma non lo è minacciare la cancellazione con la violenza dello stato d’Israele e predicare l’odio antiebraico, non lo è minacciare le fiamme dell’islam per chi riconosca l’esistenza di quella nazione che nacque con il crisma delle Nazioni Unite ed è una realtà incrollabile dell’età contemporanea, una democrazia da difendere con le unghie e con i denti. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.