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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Foglio Rassegna Stampa
01.11.2005 Il regime iraniano non scherza: vuole davvero distruggere Israele
diciamo "no all'indulgenza e all'indifferenza"

Testata: Il Foglio
Data: 01 novembre 2005
Pagina: 1
Autore: un giornalista - Carlo Panella - Giorgio Israel - Amy Rosenthal
Titolo: «Nessuna smentita iraniana - Ghazal Omid - Iran dissimulatore - O di qua o di là - Contro Teheranci vuole una strategia articolata su tre punti. Eccola - Militaria - Fiaccole, simboli di unità»
IL FOGLIO di martedì 1 novembre 2005 pubblica in prima pagina l'articolo "Nessuna smentita iraniana Khamenei difende Ahmadinejad, Annan vuole vistare Teheran", che riportiamo:
Roma. Dichiarazioni, reazioni, risposte, smentite. A Teheran questi sono giorni di tante parole: ognuno opera la sua limatura formale, fa il suo quotidiano esercizio di retorica. Ma la sostanza non cambia. Dopo le frasi sulla distruzione di Israele, Mahmoud Ahmadinejad non ha fatto passi indietro, ha ribadito il concetto con sempre più dettagli e confermato la paternità di tanto odio: "Nel mio discorso ho semplicemente utilizzato le parole dell’ayatollah Khomeini".
L’ex presidente iraniano, Mohammed Khatami, si è schierato con i "critici" di Ahmadinejad, dicendo che "non si dovrebbero rilasciare dichiarazioni che possono causare problemi politici ed economici all’Iran". Ha detto che la Repubblica islamica non ha la missione di "portare il mondo sulle nostre posizioni". Ma anche questa è forma: durante il mandato del pragmatico Khatami andava in onda la serie "Zahra dagli occhi blu", in cui gli israeliani commerciavano gli organi dei bambini palestinesi ed erano prodotte trasmissioni televisive dove si demonizzavano le pellicole del regista Steven Spielberg, perché nascondevano complotti sionisti.
Ahmadinejad ha anche lanciato un monito ai paesi arabi – come il Kuwait e il Bahrain, che potrebbero riconoscere Israele – chiedendo di non allacciare relazioni diplomatiche con l’"illegittima entità sionista", dopo che già aveva invocato le "fiamme della nazione islamica" su chi collabora con quella "macchia nel centro del mondo islamico". Il Grande ayatollah Ali Khamenei, descritto come colui che ha cercato di ridimensionare le parole di Ahmadinejad, ha chiesto "di essere uniti contro il nemico comune", intendendo naturalmente Israele, perché soltanto l’unità permette di superare le "trappole" che il nemico mette in tutto il mondo. Sabato il ministro degli Affari esteri iraniano, Hamid Reza Asefi, rifiutando la condanna formulata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha dichiarato che la Repubblica islamica è legata ai principi della Carta dell’Onu e non ha alcuna intenzione di attaccare Israele. Ma ha aggiunto: "Le dichiarazioni pubblicate dal Consiglio di sicurezza, suggerite dal regime sionista per coprire i propri crimini e dare un’immagine diversa dalla realtà, sono inaccettabili".
Non pago, ieri Ahmadinejad ha affermato che Teheran non ha intenzione di fermare la conversione dell’uranio a Isfahan – ultimo passo prima dell’arricchimento – dove l’attività è ripresa in agosto, accusando l’occidente di volere impedire alla Repubblica islamica di soddisfare un suo diritto legittimo. I negoziati con la troika europea (Francia, Germania e Gran Bretagna) erano stati interrotti prima dell’autunno e lo scorso settembre l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva approvato una risoluzione per un eventuale trasferimento del caso al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Di questo dovrebbe infatti discutere questa settimana, dopo il "dossier Siria": ieri è stata approvata all’unanimità una risoluzione che impone al regime di Damasco di collaborare con l’Onu nell’inchiesta sull’assassinio del premier libanese Rafiq Hariri, ma non prevede alcuna sanzione. Il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha dichiarato che si recherà per una visita diplomatica a Teheran, dall’11 al 13 novembre, ma Danny Gillerman, ambasciatore d’Israele all’Onu, si è opposto: "Così si dà legittimità a una nazione che chiede la distruzione di un altro Stato".

Finalmente la voce del Cairo
Dopo l’iniziale silenzio del mondo islamico, rotto soltanto – e con prontezza – da Turchia e Anp, l’Egitto ha criticato le dichiarazioni di Ahmedinejad contro Israele. Secondo i quotidiani del medio oriente, nonostante la mancanza di una reazione forte e immediata, le affermazioni del presidente iraniano e il suo eventuale isolamento dalla comunità internazionale avrebbero reso felici gli Stati della regione che temono intromissioni nel proprio territorio da parte della Repubblica islamica (come l’Arabia Saudita). "La guerra di cui parla il presidente iraniano – dice al Foglio Ayelet Savyon, direttrice del progetto sull’Iran del Memri – non è soltanto contro Israele. E’ una battaglia tra le forze del bene (il mondo musulmano guidato dall’Iran) e le forze del male rappresentate dall’occidente, di cui Israele è parte". La vittoria del "suo" bene sul male, secondo Ahmadinejad, "è fattibile", ma si contraddice sui tempi: a volte parla di secoli, altre volte di ore.
Sempre apagina 1 troviamo "Gli iraniani vivono come farfalle in un barattolo di vetro da 26 anni, ci dice lo scrittore Ghazal Omid"

Ecco il testo:

Roma. "Gli iraniani vivono come farfalle
imprigionate in un barattolo di vetro ormai
da ventisei anni. Aiutateci ad aprire il coperchio".
L’appello di Ghazal Omid, giovane
scrittrice iraniana, è caldo e appassionato,
dettato dall’amore per il suo popolo e
la rabbia contro l’estremismo teocratico dei
mullah. Omid, che ha 35 anni e vive fuori
dall’Iran, ha scritto un libro coraggioso –
"Living in Hell: a true odyssey of a woman’s
struggle in islamic Iran against personal
and political forces" – in cui racconta la sua
triste esperienza personale e la trasformazione
della società iraniana a opera di "irresponsabili
fanatici che – dice al Foglio –
hanno trattato gli iraniani come se fossero
idioti, e che hanno intenzione di fare la
stessa cosa con il resto del mondo". Come
molti esuli iraniani, Omid è costantemente
minacciata di morte – e il suo sito, livinginhell.
com, attaccato dagli hacker – per
aver raccontato la vita quotidiana, soprattutto
delle donne, in Iran. "Mi criticano perché
ho scritto di essere stata violentata
da mio fratello e di essere
cresciuta in una cultura nella quale
non avevo diritto di parlare. Mi
chiamano puttana e dicono che sono
soltanto un’opportunista", racconta,
quasi trattenendo il fiato.
Mahmoud Ahmadinejad non è una
sorpresa per Omid – "Non è una
persona capace e ci porterà in
un’oscurità ancora più buia di
quella in cui siamo già", dice – perché
ripete ciò che i "mad mullah",
i mullah pazzi, ripetono da sempre:
sono queste ideologie ad aver
distrutto un paese meraviglioso.
Quel che più fa soffrire Omid è il
"lavaggio del cervello" che è praticato
di continuo e che rischia di
cancellare anche il ricordo di ciò
che l’Iran era e può ricominciare a
essere. "Basta guardare le donne –
spiega – Sono state oppresse per
così tanti anni che hanno finito per
non considerarsi più una forza,
pur essendola. Molte ragazze sono
cresciute annullandosi e tutto
quello che sanno fare è servire gli
uomini. Mi chiedo come una futura
generazione di donne condizionate
in questo modo potrà diventare
indipendente, capace di pensare
autonomamente e pronta a
opporsi al regime". Omid sa che le
minacce dei mullah non sono semplici
provocazioni, si ricorda gli
insulti quotidiani contro Stati Uniti
e Israele, e soprattutto il fatto
che, da quando ha 15 anni, "nessuno
è riuscito a spiegarmi perché dovevo
gridare tutte le mattine a scuola ‘morte a
Israele’ o ‘morte all’America’". Si ricorda i
programmi tv in cui si proclama che, se
avesse le armi nucleari, "l’Iran le userebbe
per uccidere israeliani e americani", la miseria
a cui questo regime costringe molti
iraniani. Oggi, di fronte ad Ahmadinejad
che vuole togliere Israele dalla faccia del
mondo, Omid non si stupisce, ma è contenta
delle reazioni di condanna, e spera soprattutto
nel contenimento della minaccia
nucleare, che dall’Iran si spargerebbe in
tutti i paesi islamici: "Il governo di Teheran
è come un serial killer che dà ai suoi bambini
le armi più pericolose".
Darsi un nome persiano
"Tutti devono capire che i mullah non
hanno paura di uccidere e troveranno sempre
una giustificazione per farlo – dice
Omid – Dall’ascesa di Khomeini sono state
uccise quasi 150 mila persone". Guai quindi
a mischiare la Repubblica islamica con
l’Iran, sono due entità diverse, e la grande
maggioranza degli iraniani non potrebbe
mai far confusione. In questi giorni molti di
loro hanno ricordato Ciro il Grande, fondatore
dell’Iran, che liberò gli ebrei dalla
schiavitù della Babilonia, così come l’attuale
presidente di Israele, Moshe Katzav,
un ebreo iraniano che spesso parla in persiano
alla radio "Voce di Israele". L’avanzata
dei valori dell’Iran più di quelli islamici
è testimoniata dai nomi: molti cercano
di cambiare il loro nome dall’arabo a uno
puramente persiano, anche se i mullah considerano
il cambio al pari di un peccato.
Omid sogna il ritorno del "suo" Iran,
quello che c’era prima della Repubblica
islamica, quello in cui non si insegna ad
odiare "paesi e popoli che quasi non sappiamo
chi sono", ma la pacifica cultura persiana,
che permette a molti iraniani di "ammirare
gli Stati Uniti perché sono una società
libera". Per questo la manifestazione
organizzata dal Foglio è "splendida": serve
a far capire che la minaccia dei mullah è
"un pericolo per tutti": "Non è più soltanto
un affare di Israele".
A pagina 2 dell'inserto troviamo l'articolo di Carlo Panella "Iran dissimulatore".

Ecco il testo:

Roma. Le dichiarazioni di questi giorni di
quella che le cancellerie europee e la stampa
politically correct definiscono "ala moderata"
del regime di Teheran, fanno comprendere
come le "anime belle" del giornalismo
progressista e delle cancellerie europee
abbiano sorvolato per anni sul fatto –
evidentemente considerato un particolare
secondario – che anche il "riformista"
Mohammed Khatami voleva e vuole, esattamente
come il suo successore, "cancellare
Israele dalla faccia della terra". Né Khatami
né i suoi "riformisti" infatti, polemizzano
con Ahmadinejad, sostenendo che Israele
deve vivere, ma lo criticano solo sul piano
dell’opportunità.
Anche sul tema della sopravvivenza di
Israele, Khatami e il suo falso riformismo
sono stati e sono maestri nell’arte della "taqiya",
della dissimulazione. La "taqiya" è
un preciso precetto dell’islam sciita, che
permette al fedele di derogare agli stessi
principi e canoni islamici pur di non incorrere
in conseguenze personali o non suscitare
danni alla "umma", alla comunità islamica.
E’ un precetto che esalta fino al parossismo
il sofisma, il gioco di parole, e anche
l’affermazione del contrario di quello in
cui si crede, che è stato codificato durante
la guerra civile che ha sconvolto la comunità
musulmana alla morte del Profeta,
quando, appunto, gli sciiti furono battuti e
perseguitati dai sunniti. In Europa ha un
corrispettivo nel "nicodemismo",
che permetteva
ai cattolici e protestanti
di dissimulare
la propria fede
durante le
guerre di religione
del Cinquecento
e Seicento,
con la differenza
che nell’islam
la taqiya investe
non solo e
non tanto la sfera
religiosa, ma
anche e soprattutto quella politica (che è inscindibile
dalla fede). Nella dottrina politica
musulmana, in particolare in quella sciita,
la "dissimulazione" è quindi qualcosa di
più che una predisposizione ad un linguaggio
diplomatico, accattivante, che non crei
problemi; è una vera e propria vocazione
politica, una struttura del linguaggio, come
si nota nelle reazioni di Khatami e altri
riformisti alla uscita chiara e netta di Ahmadinejad
contro Israele. L’ex presidente
della Repubblica ha detto: "Non dovremmo
fare dichiarazioni che possano causare problemi
politici ed economici all’Iran". Il deputato
riformista hesmatollah Fallhat Pisher,
della commissione esteri del Majlis, il
Parlamento, ha aggiunto: "Se il presidente
Ahmadinejad avesse tenuto in considerazione
l’atmosfera delicata di questi giorni
nel mondo, le sue parole avrebbero avuto
minori conseguenze". Ancora, il ministero
degli Esteri iraniano ha scritto in una nota:
"La Repubblica islamica dell’Iran è fedele
alla Carta delle Nazioni Unite. Non ha mai
usato la forza contro un altro paese, né ha
mai minacciato l’uso della forza".
Tutto questo è stato presentato da molti
quotidiani come una "presa di distanza",
come l’evidenziarsi di una spaccatura tra la
componente "riformista" e quella oltranzista
del regime. Ma non è così. In tutte queste
frasi non c’è nessuna smentita, nessuna
presa di distanza dalla tesi di Ahamadinejad,
non viene affermata neanche lontanamente
la piena legittimità di Israele ad
esistere. Cè solo una presa di distanza dall’opportunità
di dire apertamente che Israele
va cancellato dalla faccia della terra. Dal
dirlo, non da credere che questa sia la vera
linea politica della Repubblica islamica
dell’Iran, postulato che i riformisti non mettono
minimamente in discussione. Lo stesso
comunicato del ministero degli Esteri è
un piccolo capolavoro di "taqiya", dato che,
per quel dicastero, Israele, non è un "paese",
né uno "Stato", ma è solo una "Entità
sionista" illegale – così viene definita nei
documenti ufficiali, oltre che in quelli politici
– che va, appunto, cancellata dalla faccia
della terra.
Tutti i terroristi del presidente moderato
D’altronde, ci vuole tutta la sete di petrolio
e il disinteresse per la sorte e la sicurezza
di Israele di cui è stata ed è capace l’Europa
per sostenere che – anche sul tema di
Israele – la presidenza di Khatami abbia segnato
un’apertura. Non appena eletto al suo
secondo mandato, il 25 agosto del 2001, il
presidente "riformista", come primo atto di
governo, ha stanziato 1.250.000 euro per una
conferenza internazionale a sostegno dell’Intifada
palestinese, per sottolineare il
rinnovato appoggio ad Hamas da parte dei
moderati iraniani. Cinque mesi dopo, il 2
gennaio 2002, il Mossad ha intercettato fuori
delle acque territoriali di Israele una nave,
la Karine A, che aveva caricato nel porto
di Bandar Abbas, in Iran, armi ed esplosivi
per Hamas e le "Brigate dei martiri di
al Aqsa" impegnate nella fase più sanguinaria
dell’Intifada delle stragi. Contemporaneamente,
tutta la rete terroristica di Hamas,
Hezbollah e "Jihad" era supportata da
personale tecnico-militare iraniano: il colonnello
dei pasdaran iraniani Alì Reza Temiz
dirigeva dal Libano il reseau, di cui faceva
parte anche Munir Makdah (ex dirigente
di Al Fatah) che risiede a Ein al
Helweh, vicino a Sidone e Imad Mugnieh,
responsabile clandestino di Hezbollah. Il
tutto sotto la supervisione dei "riformisti"
iraniani.
Carlo Panella
Sempre a pagina 3 Giorgio Israel interviene sulle ormai inaccettabili ambiguità circa le minacce all'esistenza di Israele, nell'articolo "O di qua o di là, per i palestinesi e per Bertinotti è l'ora della scelta"
Il Presidente iraniano Ahmadinejad ha
fatto piazza pulita dell’ipocrisia, chiedendo
candidamente il perché di tanto stupore:
ma se sono 27 anni che diciamo che
Israele va distrutto… Meno male che ha
pensato lui a parlar chiaro, perché chi ripete
(da decenni) che il vero, enorme problema
è il riconoscimento del diritto all’esistenza
di Israele da parte del mondo islamico,
viene bollato come un falsario da parte
del progressismo (con rispetto del progressismo)
anti-imperialista, pacifista, terzomondista,
cattocomunista, ecc.
Giorni fa, Magdi Allam ha ricordato ancora
come l’insegnamento scolastico nei
paesi islamici sia basato sulla negazione
del diritto all’esistenza di Israele e su un
robusto antiebraismo. Ciononostante, non
mancherà lo sfrontato di turno pronto a dichiarare
che è falso che i manuali scolastici
palestinesi siano infarciti di odio antiisraeliano.
In coerenza con questo atteggiamento,
i Giulietto Chiesa o i Casarini definiscono le dichiarazioni di Ahmadinejad
"operazioni di facciata" o mosse in un "gioco
politico internazionale".
Inutile. La dichiarazione del presidente
iraniano ha illuminato a giorno la situazione.
Ora è netta la distinzione fra chi, senza
"se" e senza "ma", ha aderito alla manifestazione
promossa da Il Foglio; e chi, all’opposto,
resta arroccato sulla linea secondo
cui il "vero pericolo" è Sharon. Ma c’è
una zona grigia: quella di chi, come Fausto
Bertinotti, avrebbe aderito alla manifestazione
a patto che essa fosse stata controbilanciata
dalla richiesta (magari gridata sotto
le finestre dell’ambasciata israeliana)
della creazione di uno Stato palestinese.
Il segretario del Prc è persona affabile e
capace di imbastire confronti tolleranti e
civili, ma ha due principali difetti: quello
di avere un direttore del giornale di partito
che non gode di queste qualità (di Sansonetti
ricordiamo la delirante accusa di
"razzismo" nei confronti di chi deprecava la devastazione delle sinagoghe a Gaza); e
una certa tendenza al contorsionismo concettuale.
Come quando – si legge sulla
stampa – Bertinotti propone di cassare il
riferimento al socialismo nella sinistra europea,
ribadisce la condanna dello stalinismo,
afferma che "per essere contro questo
capitalismo non serve essere socialisti o
comunisti ma basta essere uomini liberi";
e però dice che "non se ne parla nemmeno"
di cambiar nome al suo partito, "noi
siamo comunisti".
Provi Bertinotti a guardare ai fatti con
mente sgombra da preconcetti e si chieda,
a fronte del diffuso rifiuto dell’esistenza di
Israele nel mondo arabo e islamico (in
troppi casi il riconoscimento è "de facto" e
non di principio), chi ha più operato di recente
per la creazione di uno Stato palestinese.
La risposta gli sarebbe chiara:
Ariel Sharon. Difatti, è stato lui a riconoscere
questo diritto davanti all’Assemblea
dell’Onu e a compiere l’atto più costruttivo
in questa direzione: restituire Gaza alla sovranità
palestinese. Era la grande occasione
per iniziare a costruirlo, questo Stato,
con i fiumi di denaro che vengono da tutto
il mondo, iniziando con l’atto più emblematico:
chiudere i campi profughi. Invece,
in un delirio di "benaltrismo" – ben altro
ciò che ci deve essere dato –, dopo aver devastato
sinagoghe e tecnologie agricole, sono
ricominciati i tiri dei Qassam, gli shahid
e il solito corteo di orrori. La vera questione
– altro che baloccarsi con le manifestazioni
"simmetriche"! – è se il mondo politico
palestinese voglia iniziare a costruire
uno Stato o preferisca essere agente del
programma di Ahmadinejad. Ma non porranno
questa domanda i falsi amici dei palestinesi,
gli "intellettuali" alla Vargas Llosa
che, se prendesse corpo un atteggiamento
costruttivo, non avrebbero più modo
di riempire le loro vuote giornate scrivendo
i reportage dell’odio.
Amy Rosenthal intervista l'esperto americano di Iran Ilan Berman, che spiega "Contro Teheran ci vuole una strategia articolata su tre punti. Eccola"

Ecco il testo:

L’iniziativa del Foglio è l’esempio del segnale
che deve essere mandato all’Iran:
dovrebbe essere imitato da tutta l’Europa e
anche dagli Stati Uniti". Ilan Berman, vicepresidente
dell’American Foreign Policy
Council, con sede a Washington, e direttore
del Journal of international security affairs,
festeggia l’idea della manifestazione davanti
all’ambasciata iraniana. Esperto della sicurezza
regionale in medio oriente, Asia
centrale e Russia, Berman ha una certa dimestichezza
con la questione iraniana: ha
offerto la sua consulenza alla Cia e al dipartimento
della Difesa, ha scritto numerosi
articoli sulla politica estera americana e
sulla sicurezza e il suo ultimo libro – "Teheran
Rising: Iran’s challenge to the United
States"(Rowman & Littlefield Publishers,
2005) – è una lettura obbligata per chiunque
voglia capire le minacce che oggi l’Iran pone
al mondo.
"I segnali che fino adesso abbiamo inviato
all’Iran sono molto pericolosi – dice al
Foglio – Dimostrano che il pessimo comportamento
di Teheran, in politica interna
e nel sostegno al terrorismo, non è tema di
attenzione internazionale. Ci preoccupiamo
soltanto del suo programma nucleare, ma
questo è strettamente connesso al modo in
cui il governo tratta la popolazione e si sente
in diritto di sostenere gruppi terroristici
come Hezbollah. Non si possono separare
le questioni". Quando consiglia i politici,
Berman sottolinea sempre il legame tra il
regime dei mullah e Hezbollah, nato negli
anni Ottanta e intensificatosi dopo l’11 settembre:
"Sono stati forniti hardware, tecnologie
e soldi che hanno permesso non soltanto
di creare una testa di ponte per Hezbollah
in Africa e America Latina, ma anche
di militarizzare il confine settentrionale
di Israele in modo così capillare che, se
succedesse qualcosa in Iran, gli iraniani sarebbero in grado di attivare questo fronte
settentrionale danneggiando Israele e distraendo
dai loro obiettivi primari gli Stati
Uniti". La potenzialità di Hezbollah è devastante.
Berman racconta che gli strateghi
politici sono convinti che l’Iran sciita e al
Qaida non possano collaborare a causa delle
loro differenze religiose: "Molte testimonianze
fanno supporre che non sia affatto
così. Stiamo infatti vedendo che affiliati di
al Qaida come Zarqawi operano in Iraq e ricevono
assistenza finanziaria, tattica e politica
dall’Iran". La collaborazione tra Teheran
e Hezbollah sta trasformando il conflitto
israelo-palestinese: "C’è questa tempesta
perfetta di attività politica che si svolge in
Cisgiordania e nella striscia di Gaza, con un
nuovo presidente palestinese che non ha il
peso politico e la forza di Yasser Arafat. Ci
sono gruppi come Hamas e il Jihad islamico
sempre più pronti a sfidare l’Anp mentre
l’Iran e Hezbollah stanno rafforzando la
propria testa di ponte con armi e denaro.
Tutto ciò sta alterando gli equilibri del conflitto
israelo-palestinese in modo negativo:
l’Iran ha un ruolo di primaria importanza e
noi dovremmo preoccuparcene, questa è
una guerra contro il terrorismo".
La questione nucleare diventa sempre
più cruciale. "Il regime iraniano – spiega
Berman – si è guardato attorno e si è reso
conto che per ottenere un posto al tavolo
delle grandi potenze e diventare ‘l’erede naturale’
del Golfo Persico deve sviluppare
una capacità nucleare. Se gli permetteremo
di farlo, non soltanto pianteremo l’ultimo
chiodo nella bara dell’opposizione iraniana,
ma saremo anche costretti ad avere a che
fare con questo regime per un periodo molto
più lungo di quanto potrebbe essere se
non glielo permettessimo". Nel suo libro l’esperto
americano sostiene che esiste l’opportunità
di sfruttare le forze d’opposizione attualmente presenti in Iran in modo da generare
un’ondata interna di cambiamenti,
ma se cresce la minaccia dell’arma nucleare
che Mahmoud Ahmadinejad può esercitare,
si rischia che l’Iran faccia come fece la
Cina nel 1989 in Piazza Tien an Men.
Perché la strategia nei contronti di Teheran
sia efficace, ci deve essere una collaborazione
tra le due sponde dell’Atlantico e il
Consiglio di sicurezza dell’Onu. Berman è
un po’ scettico, dice che le posizioni di Europa
e Stati Uniti "sono sempre incompatibili",
perché la "soglia di sopportazione" da
parte europea è molto elevata, sia nei confronti
delle armi di distruzione di massa sia
per il sostegno al terrorismo. Il presidente
americano George W. Bush invece ha detto
che gli Stati che sostengono i terroristi sono
"fuorilegge" e, come ricorda Berman, ha dichiarato
"che non tollererà un Iran nucleare
sotto la guida del presente regime".
Il divario deve essere ridotto, ma come?
Berman una risposta ce l’ha. "Nel corso degli
ultimi 10-15 anni, gli Stati Uniti hanno rinunciato
a qualsiasi possibilità di influenza
economica sull’Iran per mezzo di provvedimenti
come l’Iran-Libya Sanctions Act.
L’Europa, invece, ha la capacità di esercitare
notevoli pressioni economiche e diplomatiche
sull’Iran. Una fonte autorevole mi
ha recentemente rivelato che se la compagnia
tedesca Siemens cessasse di aiutarlo
nei suoi progetti di sviluppo nucleare, all’Iran
occorrerebbero da otto mesi a un anno
per trovare un’alternativa. Per tutto questo
periodo il programma di sviluppo nucleare
rimarrebbe fermo". Questa è certamente
una sostanziale possibilità di influenza, ma
manca la coordinazione, almeno per costringere
il governo di Teheran a riconsiderare
il suo sostegno al terrorismo e il tentativo
di procurarsi armi atomiche. "Non sono
affatto certo – ammette Berman – che,
nel breve tempo che ci rimane a disposizione,
riusciremo ad arrivare a un accordo. Né
gli Stati Uniti né l’Europa hanno considerato
altre possibili strategie per creare alternative
concrete che possano promuovere un
positivo mutamento in Iran. Fra due o tre
anni questo non sarà più possibile".
Resta la via del Consiglio di sicurezza, ma
anche questa, secondo Berman, è problematica,
soprattutto a causa del voto della Cina,
oltre che dell’alleato di Teheran, il
Cremlino. "Due membri permanenti del
Consiglio di sicurezza sono i principali partner
commerciali per il programma nucleare
iraniano. Anche se i russi si astenessero,
la vera questione rimane la Cina. Nel corso
dell’ultimo anno sono stati stipulati due
contratti tra Pechino e Teheran per un valore
complessivo di oltre 100 miliardi di dollari
entro venti anni. I cinesi, per ragioni
economiche, hanno accettato, nel caso che
la questione sia presentata al Consiglio di
sicurezza, di porre il proprio veto". Questi
patti devono trovare una risposta politica
da parte di Washington e Bruxelles. Ma secondo
Berman è proprio la "soluzione Consiglio
di sicurezza" a essere errata: "Non è
uno strumento adeguato per affrontare l’Iran,
in quanto tocca soltanto una parte del
problema. Il Consiglio di sicurezza non avvierà
mai una dibattito sulla legittimità dell’attuale
regime di Teheran. Può soltanto discutere
la questione nucleare. Il vero pericolo
non sta semplicemente in un Iran provvisto
di tecnologia nucleare, ma nel fatto
che questo paese è il principale sponsor del
terrorismo. Questo impone un dibattito sulla
natura stessa del regime iraniano e sul
suo comportamento".
La colonna "Militaria" fa il punto sulla minaccia strategica iraniana.
Pretoria aiuta l’atomica degli ayatollah
Fonti dell’intelligence israeliano hanno
confermato il supporto diretto del Sudafrica
al programma di sviluppo di armi nucleari
di Teheran. Numerose delegazioni
tecniche sudafricane avrebbero visitato l’Iran
negli ultimi diciotto mesi per mettere a
punto i dettagli del supporto di Pretoria al
programma iraniano in particolare nell’arricchimento
dell’uranio. Alle Nazioni Unite
il Sudafrica è uno dei più strenui oppositori
alle iniziative tese a impedire la proliferazione
nucleare iraniana. Isolato dall’embargo
internazionale, il Sudafrica dell’apartheid
sviluppò un’intensa cooperazione
militare con Israele che consentì di
acquisire non solo armi convenzionali ma
anche tecnologia nucleare. In base alla dottrina
dell’accerchiamento nemico, anche a
Pretoria la bomba atomica era ritenuta necessaria
come deterrente contro aggressioni
dai paesi africani confinanti, ma dopo la
caduta dell’apartheid ogni programma atomico
militare fu abbandonato. Così la tecnologia
atomica iraniana diretta a minacciare
Gerusalemme contiene "know-how"
israeliano.
Armi russe e cinesi giunte a destinazione
La cooperazione tra Iran e Russia va ben
al di là delle tecnologie e dei reattori per il
programma nucleare civile di Teheran.
L’ultima conferma è giunta pochi giorni or
sono con il lancio del primo satellite iraniano
messo in orbita dalla base russa di
Plesetsk utilizzando un razzo Kosmos 3-M,
un vettore a basso costo impiegato da Mosca
per portare nello spazio i satelliti di numerosi
paesi. Il satellite iraniano "Sina-1"
è programmato per le telecomunicazioni
ma anche per l’osservazione essendo dotato
di alcune telecamere ad alta definizione.
La sua orbita consentirà di monitorare tutto
il medio oriente inclusi quindi Israele e
le forze anglo-americane in Iraq. Le armi
più moderne in dotazione all’Iran sono state
fornite dalla Russia: centinaia di carri
armati T-72, i 3 sottomarini tipo Kilo, i 15
caccia Mig 29 e i 25 bombardieri Sukhoi 24
mentre secondo indiscrezioni Mosca potrebbe
aver fornito anche i moderni missili
antiaerei e antimissile S-300. Pechino ha
finora venduto armi a bassa tecnologia,
quali quaranta caccia F-7/Mig 21, motovedette
lanciamissili, motosiluranti ma anche
i missili antinave lanciabili da batterie mobili
costiere. Sono armi impiegate dai pasdaran
del Corpo delle Guardie rivoluzionarie,
in grado di minacciare direttamente
il traffico di petroliere in tutto il Golfo Persico
alle quali si è aggiunto recentemente
il missile Raad, copia iraniana del cinese
C-802 con 150 chilometri di raggio d’azione.
E via mare contano su una buona flotta
Sul finire degli anni Ottanta, mentre imperversava
il conflitto Iran-Iraq, l’occidente
dovette inviare nel Golfo forze navali per
proteggere le petroliere dalle mine e dagli
assalti dei pasdaran. In questi anni Teheran
ha potenziato la flotta dei pasdaran (20
mila effettivi) a scapito della marina (18 mila)
con nuclei di incursori subacquei, minisommergibili
e un’ottantina di unità leggere
di origine cinese, nordcoreana e nazionale
in gran parte dotate di razzi e siluri
leggeri, oltre a decine di piccole imbarcazioni
in vetroresina e addirittura acquascooter
utilizzabili anche per compiere attacchi
suicidi. Il blocco dello stretto di Hormuz
e della navigazione delle petroliere
nel Golfo Persico rimane una delle più importanti
opzioni strategiche dell’Iran, seconda
soltanto alla possibilità di condurre
attacchi missilistici con armi di distruzione
di massa. I tre sottomarini classe Taregh (tipo
Kilo russo), in caso di ostilità, avrebbero
il compito di seminare mine all’imbocco di
Hormuz mettendo a repentaglio l’accesso
ai terminal petroliferi del Golfo.
Le operazione nel vicino Iraq
Il 20 ottobre il generale Rick Lynch, portavoce
della forza multinazionale a Baghdad,
ha riferito che dall’inizio dell’anno sono
stati catturati 376 guerriglieri stranieri
nell’Iraq centrosettentrionale. Tra i prigionieri
provenienti da paesi islamici vi sono 78
egiziani, 66 siriani, 32 sauditi, 17 giordani e
13 iraniani. L’intelligence britannico ritiene
che una maggiore presenza di iraniani sia riscontrabile
nel settore di Bassora, dove ieri
una bomba ha fatto almeno venti vittime.
A pagina 3 IL FOGLIO pubblica l'articolo "Fiaccole, simboli di unità".

Ecco il testo:

Le fiaccole sono uno strumento di presenza simbolica, non un manifesto di politica estera o l’espressione di una visione del mondo contemporaneo. Sono fiaccole, non chiacchiere partigiane, quelle che si vedranno giovedì, alle ore 21, all’angolo tra via Nomentana e via Santa Costanza, a Roma. Ciascuno dei partecipanti, individui e gruppi, porterà legittimamente le sue idee, e una idea aggiuntiva: che Israele ha diritto di esistere, e che non è uno scherzo da accogliere con indulgenza o indifferenza la minaccia di eliminarlo dalla faccia della terra. Viviamo infatti in un mondo tremendo. Il terrorismo e le lotte interetniche a sfondo religioso fanno vittime ogni giorno. Tre teste cristiane sono appena cadute nel silenzio dell’opinione pubblica internazionale, decollate dai barbari, in Indonesia. La faccenda riguarda tutti: le vittime della violenza inaudita di questi anni caratterizzati dalla furia intollerante sono di ogni confessione religiosa, in maggioranza islamici, e gli ebrei, gli americani, i cristiani crociati dell’occidente sono l’obiettivo sensibile, permanente, dell’islamismo politico e dell’estremismo teocratico. In questo quadro sarebbe ridicolo anche solo pensare che la testimonianza a favore del diritto di Israele ad esistere possa essere connotata da strumentalità o spirito di divisione e di vantaggio politico particolare.
Che in una grande capitale dell’Europa politica, di fronte all’ambasciata della Repubblica Islamica d’Iran, con il rispetto e la devozione che si devono a quel popolo e alla sua passione per la libertà conculcata da un regime di fanatismo confessionale, si manifesti contro la violenza anti-israeliana, ha un chiaro e semplice significato. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad non è un pazzo isolato, e non solo perché è il presidente eletto di un paese il cui regime politico-teocratico dal ‘79 si è reso campione di imprese contrarie alla legalità internazionale e alla pace. Purtroppo anche Khatami, il suo predecessore riformista nella cui parabola sfortunata in tanti abbiamo creduto, la pensa come lui. Essere antisionisti sul piano storico è una posizione legittima, ma non lo è minacciare la cancellazione con la violenza dello stato d’Israele e predicare l’odio antiebraico, non lo è minacciare le fiamme dell’islam per chi riconosca l’esistenza di quella nazione che nacque con il crisma delle Nazioni Unite ed è una realtà incrollabile dell’età contemporanea, una democrazia da difendere con le unghie e con i denti.
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