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La Stampa Rassegna Stampa
31.10.2005 Il terrorista che non è diventato un poliziotto di Abu Mazen
la storia di un ex membro delle Brigate dei martiri di Al Aqsa illustra il fallimento della strategia del raìs palestienese

Testata: La Stampa
Data: 31 ottobre 2005
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Io, costretto a diventare kamikaze -La mia fuga senza fine braccato da amici e nemici»
LA STAMPA di lunedì 31 ottobre 2005 pubblica in prima pagina e apagina 5 un articolo di Fiamma Nirenstein.
Il titolo scelto dalla redazione per la prima pagina "Io, costretto a diventare kamikaze", non sembra fedele al contentuto dell'articolo, che racconta di un uomo si è trovato coinvolto in una situazione difficilmente districabile, ma soprattutto per le sue scelte. Quella di aderire a un gruppo terrirstico e quella di rimanere sostanzialemente ai suoi vecchi "compagni" dopo essere entrato nelle Forze di sicurezza palestinesi, per esempio.

Ecco il testo:

QUANDO entra nella stanzetta bianca e luminosa, le sue dimensioni di giovane armadio diventano di per sé un elemento di attenzione e stupore. E’ un uomo braccato, e lo si vede subito da come si muove e da come guarda: da sotto in su, anche se è così alto, e come fosse l’ultima volta. Con il berretto e il giubbotto serrato fino al collo taurino, il viso scuro, da subito, prima di aprire bocca, emana un’aria più ancora di tristezza che di paura; ma in questi giorni di forte contrattacco israeliano, con prigionieri e morti in Cisgiordania oltre che a Gaza, l’uomo che chiameremo Naji vive nascosto. Non fugge solo dagli israeliani, ma anche dai suoi. La sua storia è un incrocio di incredibili circostanze che spiegano molto di quello che sta accadendo in Cisgiordania.
Gli parliamo in una stanza privata di Betlemme, alla presenza di altre tre persone, tenendo in mente due antefatti, uno generale e uno specifico. Quello generale è il tentativo di Abu Mazen di fermare il terrorismo, senza tuttavia impegnarsi in dirette misure repressive, per arrivare di nuovo alla Road Map con Israele. Per farlo il suo primo supporto contro Hamas e la Jihad Islamica è il suo Fatah, e, dentro il Fatah, le Brigate di Al Aqsa. La sua strategia è restituire ai clandestini cittadinanza e guadagnare così consenso e protezione.
«Sì - dice il grosso ragazzo che siede di fronte a noi - io sono delle Brigate di Al Aqsa. Sei mesi fa Abu Mazen mi ha arruolato nelle forze di sicurezza nell’ambito di un accordo con l’Organizzazione. Da allora, da quando prendo uno stipendio ma non sono attivo (secondo l’accordo) non ho più compiuto quel tipo di azioni per cui sono ricercato».
Che tipo di azioni? Parliamo di terrorismo? Naji sorride, e intende dire «Di tutto». Era fra quelli che sparavano su Gilo (una colonia israeliana) da Beit Jalla, per mesi e mesi? Era fra quelli che...? Mi ferma con la mano: «Certo che non te lo racconto adesso».
Bene, Naji sembra dunque di quelli che Abu Mazen recupera al suo disegno con un salario e una speranza. Ma, ed ecco la seconda premessa, non sempre funziona: molte volte allettati da promesse migliori provenienti dalla Jihad o da Hamas, o semplicemente per non tradire i vecchi compagni («non andrei ad arrestare i miei amici a nessun costo» risponde Naji alla mia domanda), gli ex delle Brigate si arruolano, ma gli è difficile entrare nel nuovo corso. Qualche giorno fa cinque personaggi di Betlemme, gente delle Brigate, amici di Naji, vengono trasportati in una Jeep condotta dagli americani che fornivano assistenza alla polizia palestinese nella prigione palestinese di Gerico. Si chiamano Mohammad Bashir, Muhammad Hajahje, Firas Hashem, Immad Assaf e Wael Jawabreh. «Lo stesso giorno - racconta Naji - dalla polizia mi telefonano, e mi dicono di presentarmi. Io ho capito subito, e con me altri due amici: ci volevano portare a Gerico considerandoci pericolosi per questa fase politica. E anche, volevano proteggermi dagli israeliani che ci cercano».
Dove vive Naji adesso? In nessun posto, dice, non dorme mai nello stesso posto: «Non ho moglie, e non dormo da mia madre». E comunque, per forza, dice, o lo metteranno in prigione o lo ammazzeranno. Insomma, Abu Mazen, cioè, ha provato a riassorbirlo, ma non ce l’ha fatta: e la sua voce suona come un de profundis per qualsiasi processo di pace: «Penso che preferisco, ormai, diventare uno shahid» ovvero, un «martire», un terrorista suicida. Naji si sente finito a 22 anni, proprio mentre nell’Autonomia si combatte un corpo a corpo per il futuro.
Andiamo a chiedere spiegazioni a un importante notabile del Fatah, ex capo dei Tanzim, anche lui in stretto contatto col Movimento. Abdallah Abu Hadid ha un ufficio nel mezzo di Betlemme, a pochi metri dalla Piazza della Mangiatoia, il suo rapporto con Abu Mazen è molto forte tanto che sarà candidato del Fatah alle prossime elezioni di gennaio.
Spiega che «la popolarità del Raiss non cresce quando gli uomini della Jihad Islamica vengono attaccati frontalmente dagli israeliani. La gente tiene per loro». Ma vengono attaccati perché hanno compiuto quasi tutti gli ultimi attacchi terroristi. Abu Mazen aveva promesso di disarmarli: «Non sono cose che avvengono in un giorno, ci vuole tempo e organizzazione. Intanto, Abu Mazen sta raccogliendo tutte le milizie, ben 18, in solo tre gruppi, di cui due sotto il diretto controllo del ministero della Difesa. Le armi dovrebbero servire alla difesa della nuova democrazia».
Naji è uno degli uomini che dovevano rientrare in questo disegno. Che succede con le Brigate di Al Aqsa? «Succede che buona parte sono assorbite; ma una parte seguita ad essere ricercata e quindi in fuga continua; un’altra parte subisce il richiamo del budget (sic, ndr) proveniente da oltre il confine siriano e libanese e convogliato dagli Hezbollah. Ma anche dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dall’Iran, dal Kuwait, e altri. Anche gli Usa un tempo davano soldi a Hamas. In parte valgono invece i rapporti personali fra famiglie e uomini, che complicano... Che ci facevano gli americani nel trasloco da Betlemme a Gerico dei prigionieri? «Sono rapporti di collaborazione che esistono da tempo. Noi, per quello che ci riguarda, cerchiamo di mettere in salvo a Gerico la nostra gente».
Ma Abu Mazen, intende cercare di cancellare il terrorismo? «Il Raiss ha ripetuto più volte che il terrore è un danno soprattutto per i palestinesi». Allora, perché non si decide a combatterlo? «Perché anche se è forte nel militare, e Fatah lo è, non lo è abbastanza presso l’opinione pubblica, e non vuole arrivare a una guerra civile».
Abdallah Abu Hadid fotografa una situazione in cui campeggia il ritratto di Naji: «Voglio essere shahid» è la sua opzione di fronte a una prospettiva incerta e pericolosa. «Comunque, non vedo fine all’occupazione, e la prospettiva della prigione, di qua e di là, mi viene descritta come un inferno sulla terra». Il passato è molto più rilevante, per la sua vita, della speranza di un vero futuro.
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