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La Stampa Rassegna Stampa
26.10.2005 Siria, Iraq, Anp: intervista a George W. Bush sul Medio Oriente
rilasciata alla televisione Al Arabiya

Testata: La Stampa
Data: 26 ottobre 2005
Pagina: 9
Autore: un giornalista
Titolo: «Bush: vorrei vedere uno Stato palestinese ancora da presidente»
LA STAMPA di mercoledì 26 ottobre 2005 pubblica a pagina 9 un'intervista della televisione Al Arabiya al presidente americano George W. Bush.

Ecco il testo:

Lei ha definito profondamente inquietante il rapporto Mehlis sull’omicidio Hariri. Gli Usa hanno intenzione ora di chiedere sanzioni contro la Siria?
«Noi chiediamo che il mondo prenda questo rapporto molto sul serio, perché contiene implicazioni molto serie. Chiediamo che venga pubblicato integralmente e che le Nazioni Unite agiscano. Ho dato istruzioni al segretario di Stato Rice di chiedere all’Onu di convocare un incontro dei ministri degli Esteri il prima possibile».
Stiamo andando verso uno scontro con la Siria?
«Spero senz’altro di no. Penso che una delle cose che la Siria ha imparato è che la mancata osservanza delle richieste internazionali porta all’isolamento. La risoluzione N°1559 è stata una dichiarazione molto seria fatta dal mondo libero e dalle Nazioni Unite per dire alla Siria: andate via dal Libano, lasciatelo in pace, lasciate fiorire e funzionare la democrazia libanese. La Siria ha udito il mondo parlare in coro. Nessuno vuole uno scontro. D’altra parte, ci deve essere una pressione seria perché i leader capiscano che, primo, non possono dare ospitalità a gruppi terroristici che puntano a distruggere il processo di pace israelo-palestinese; secondo, devono cessare le ingerenze in Libano; terzo, non devono più permettere il transito verso l’Iraq di attentatori e assassini che vogliono uccidere chi laggiù desidera la democrazia. Il rapporto Mehlis contiene implicazioni molto serie per la Siria, e il governo siriano deve prendere molto sul serio le domande poste dal mondo libero».
Il primo ministro francese chiede una risoluzione che imponga alla Siria di collaborare con l’inchiesta. Lei è d’accordo?
«Lavoriamo in stretto contatto con i francesi. L’abbiamo già fatto sulla 1559. Condi Rice, con la quale ho parlato oggi, conduce ancora consultazioni con i francesi per assicurare che ne veniamo fuori con un messaggio in comune».
Lei ha detto che si concentra sulle opzione della diplomazia, ma quella militare rimane sul tavolo.
«Nessuno vuole ricorrere all’opzione militare. E’ sempre l’ultima scelta che rimane a un presidente. Capisco l’uso della forza militare e so quanto è duro prendere queste decisioni. Ogni volta che un membro delle nostre forze armate perde la vita piango per le loro famiglie. E so che può succedere di colpire gente innocente, perciò quella è sempre l’ultima risorsa. Il mondo ha l’occasione di lavorare insieme per raggiungere una soluzione diplomatica. E i nostri diplomatici, a cominciare con il segretario di Stato Rice, stanno lavorando duramente per far emergere una posizione comune, e rendere chiaro alla Siria che ci sono richieste comprensibili e inequivocabili. Il rapporto Mehlis indica un coinvolgimento della Siria nella morte di Hariri, che era un uomo eccezionale».
Cosa farà se non collaboreranno?
«Spero che lo faranno. L’hanno fatto sulla 1559, ritirando le loro truppe. Lei sta cercando di farmi dire qualcosa, che io userò i nostri militari. Sarebbe l’ultima, veramente l’ultima opzione. Nessun Comandante in capo vuole usare i militari, non sono un’eccezione. Ho lavorato tanto sulla diplomazia e continuerò a insistere su una visione diplomatica del problema».
Abbiamo già visto situazioni simili. Qualcuno parla di modello libico, altri di modello iracheno...
«Ogni Paese è diverso. Saddam Hussein aveva ignorato numerose risoluzioni dell’Onu. Con lui la diplomazia non ha funzionato. Ovviamente vorremmo risolvere tutti i problemi pacificamente, è l’obiettivo principale degli Usa».
Francesi e britannici vi seguono, ma i cinesi e i russi?
«Domanda interessante. Penso che sia troppo presto per rispondere. Certamente spero che leggano bene il rapporto. Il signor Mehlis ha fatto un lavoro veramente meticoloso e dice che ci sono chiari segni di un coinvolgimento siriano nella morte di un leader straniero».
Saad Hariri, il figlio del premier ucciso, chiede la convocazione di un tribunale internazionale. Appoggerebbe l’idea?
«Sarò felice di discutere con gli altri leader per decidere se questo è il miglior modo di procedere o meno. Ma certamente i colpevoli devono rispondere, e il primo passo per farlo è andare alle Nazioni Unite».
Spostiamoci in Iraq. Cosa pensa della performance di Saddam Hussein durante il processo. Pensa che sia debole, o ancora pericoloso?
«Difficile dirlo. Il problema chiave è che ci sia un processo giusto, quello che lui non ha concesso alle migliaia di persone che ha ucciso. Ci sarà un forte controllo internazionale. Ci sarà una grande copertura mediatica. La gente lo seguirà molto attentamente. L’importante è che verrà processato correttamente».
E’ sicuro processare Saddam a Baghdad?
«Penso di sì. Se è abbastanza sicura per svolgere elezioni nazionali, nonostante questi assassini dicessero «vi ammazziamo se andate a votare», eppure tanta gente è andata alle urne».
Ma lei sa che uno dei difensori è stato ucciso
«Oh, sì, lo so. E’ semplicemente terribile».
Come può garantire allora che il processo...
«La questione è avere o no il coraggio di andare avanti. E penso che il popolo iracheno vorrebbe vedere Saddam Hussein processato per i suoi crimini».
Sosterrebbe un processo internazionale contro di lui?
«No, affatto. Penso che sia molto importante per gli iracheni avere un sistema di giustizia che si guadagna la fiducia della popolazione. E’ una nuova democrazia e fa parte della democrazia di avere un sistema giudiziario onesto».
Avevate iniziato le trattative con i partiti sunniti d’opposizione. Ci sono progressi?
«Il nostro ambasciatore Zal Khalilzad ha cercato di aiutare i partiti a trovare un accordo sulla Costituzione, per far partecipare la gente a questo processo, e mostrare che si può procedere attraverso discussioni e compromessi. Poi ci saranno nuove elezioni, se passerà, come sembra, la Costituzione, e ne emergerà un governo permanente. Gli Usa non puntano su un vincitore, sarà il popolo iracheno a decidere. La nostra missione è quella di incoraggiare tutti a partecipare».
E’ soddisfatto anche dei progressi della sicurezza?
«E’ dura. Il nemico, questi assassini, hanno una sola arma: andare in tv per aver ammazzato gente innocente. E’ un’arma potente, non mi fraintendete. Loro cercano di piegare la nostra volontà. Vorrebbero che noi ce ne andassimo. Vorrebbero approfittare di una situazione fragile per diffondere la loro oscura visione di governo. Hanno dirottato una grande religione. L’islam è pace, non guerra, non è uccidere bambini e donne innocenti. Ma la situazione della sicurezza sta migliorando. Non possiamo impedire atti di violenza casuali, ma le forze irachene sono sempre meglio preparate a difendersi. E, come ho detto al popolo americano, appena gli iracheni saranno in grado di farlo noi ce ne andremo. Ci stiamo già muovendo in quella direzione».
Un rapido sguardo alla Palestina. Riconoscerà i risultati delle elezioni di gennaio prossimo se vince Hamas?
«Ho detto ad Abu Mazen che questo dipende dai cittadini armati. Non potete avere un partito politico che, da un lato, si basa su una filosofia, e dall’altro si appoggia alla violenza e all’uso della forza e delle armi. Lo capisce. Sono rimasto impressionato da lui, è un uomo coraggioso. Nello studio Ovale il presidente Abu Mazen mi ha dato prova di un profondo desiderio di sconfiggere il terrorismo e promuovere la democrazia. E capisce che non possiamo trattare con bande armate, che facciano o meno parte di un partito politico. Lui conduce la politica di una sola autorità, una sola legge, un solo fucile».
Vorrebbe che lui disarmasse Hamas e la Jihad prima delle elezioni?
«Lui dice di voler eliminare la presenza armata dalle strade, e vorrei che seguisse questo proposito. Penso che il suo partito vincerà perché è il partito della pace, e penso che la maggioranza voglia la pace. In questa campagna lui potrà dire: «Ho lavorato con gli israeliani per farli ritirare da Gaza». Pochissimi pensavano fosse possibile. Ora dobbiamo andare avanti, e vogliamo aiutare. Ma se la gente che verrà eletta userà la violenza come strumento, non aiuteremo nessuno. Non vogliamo averci a che fare. Se la gente vota chi vuole pace e prosperità dei palestinesi, faremo la nostra parte».
Lei è stato il primo presidente americano a invocare uno Stato palestinese. Perché non vuole spingere le parti verso un negoziato definitivo sullo status della Palestina?
«Ho detto che mi piacerebbe che questo avvenisse prima che io cessi di essere presidente. Abbiamo intenzione di spingere in questa direzione. Condi e io, Condi Rice e io, ne parliamo sempre, di quanto ci piacerebbe una democrazia palestinese che guadagni lo status di Stato. D’altra parte, voi non volete che un presidente americano prenda decisioni per altra gente basabdosi sul suo calendario politico, sul tempo che gli rimane in carica. Non è giusto. E’ un processo, si faranno due passi avanti e uno indietro, e di nuovo due avanti. Sono rimasto impressionato dal calibro dei palestinesi che ho incontrato: sono veramente intelligenti, molto colti e intraprendenti. Sono buoni uomini d’affari, e vogliono essere liberi. E desiderano davvero la pace. Ho detto ad Abu Mazen che ha un popolo fantastico».
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