Quanta ipocrisia sul processo a Saddam Hussein una riflessione di Toni Capuozzo
Testata: Il Foglio Data: 21 ottobre 2005 Pagina: 2 Autore: Toni Capuozzo Titolo: «De gustibus»
Mentre è notizia del giorno che l'avvocato di uno dei coimputati di Saddam Hussein, rapito dai terroristi, è sttao assassinato, IL FOGLIO di venerdì 21 ottobre 2005 pubblica una riflessione diToni Capuozzo sul processo all'ex raìs e sul garantismo "preferenziale" che ha suscitato in Italia
Ecco il testo: Diciamoci la verità: Saddam è piuttosto bello, adesso. Con quel gessato di taglio decente che sostituisce i giubbotti delle sue improbabili divise, i panciotti da cacciatore, gli abiti bianchi da riccone caucasico finito nel calderone della Mesopotamia. Con la camicia bianca aperta sul collo, informale e meno distante delle modeste cravatte del suo personale guardaroba, come se ci avesse guadagnato, nel divieto di lacci e cinture. La barba curata non ha l’aspetto ispido del catturato, ma piuttosto l’ascesi del prigioniero, e cancella, ammorbidisce, la solitudine dei baffi, che erano il distintivo degli scagnozzi del Baath. Si avverte qualcosa di speciale, in questo suo abbigliamento, circondato dal manipolo indistinto dei vecchi complici, tutti in abiti tradizionali. Ha la ieraticità, Saddam, di tutti i processati e i condannati che incarnano la rivincita, da Maroncelli a Sacco e Vanzetti. Forse per questo piace, perché incarna la strategia del processo politico, dove non contano le accuse, ma la voglia di condannare, e dove non conta la difesa in punta di fatto, ma il rifiuto di sottoporsi al giudizio. Piace, Saddam, per un’inversione degli umori, perfino ai giustizialisti d’occidente, a quelli che smaniano per i processi, agli amanti dei verbali e delle intercettazioni, a coloro che affidano ai tribunali il compito di migliorare il mondo, cominciando con lo sconfiggere i propri avversari. Piace – e spiacciono i suoi giudici – a coloro che vedono le vite degli uomini, e i misteri delle loro esistenze passare come cammelli nella cruna della giustizia, come un verdetto totale e definitivo, ultimo come un’ordalia, e non come modesto tentativo di appurare infrazioni e crimini, di rabberciare appena un po’ le ingiustizie e i contenziosi. Non casualmente le stesse pagine di quotidiano riferivano asciutte di un altro procedimento, e della richiesta di estradizione di tre militari americani, che portano una qualche responsabilità nell’uccisione, a un balcone dell’hotel Palestine, del povero cameraman spagnolo Couso, presumibilmente, secondo l’accusa, colpito perché svolgeva un lavoro irritante per gli americani che entravano a Baghdad, o solo perché non era embedded e dunque sospetto, e non invece ucciso dalla stupidità, dall’ingoranza, dalla paura e dalla fretta che spiegano sempre le vittime da fuoco amico. Piace, il Saddam captivus, a chi ama le frasi fatte, quali la "giustizia dei vincitori", come se esistesse da qualche parte una giustizia dei vinti che non sia la memoria, nel migliore dei casi, la vendetta nel peggiore. Piace a chi trova che la riduzione a pochi capi d’imputazione, necessaria a rendere il processo praticabile, non sia il tentativo di artigliare prove e circostanze di fatto, ma la volontà di evitare i grandi temi della complicità occidentale, nell’ascesa del Saddam che doveva piegare gli ayatollah iraniani, e della disinvoltura con cui lo si armò, o si consentì che si armasse. Piace a chi crede che in fondo, se la guerra a Saddam era fondata su giustificazioni false, è misero il tentativo di sostituire le armi di distruzioni di massa con il record criminale del dittatore, che distruggeva in massa i suoi stessi concittadini. Piace a coloro che amerebbero, invece, vedere alla sbarra il vero colpevole, George W. Bush, perché è lui la rovina del mondo, il nome vituperato, lo slogan da manifestazione, il male incarnato, e avvolto nella bandiera a stelle e strisce: avete mai visto un cartello pacifista o no global contro Saddam? Piace, il despota a tutti quelli che, coerentemente, se lo son fatti piacere quando era al potere. Fosse solo in nome dell’antiamericanismo, o degli affari, o dell’embargo da sfidare, o di qualunque altra cosa abbia potuto unire Haider e Battiato, Un ponte per… e il leghismo, Rifondazione e Formigoni, Milosevic e i fraticelli di Assisi: diciamo tenere una porta aperta alla speranza, non interrompere il filo che legava al mondo il popolo iracheno? Diciamo così, ma diciamo anche che per fare questo si sono chiusi gli occhi su molte cose, non ultime quelle che dodici capi d’imputazione riassumono malamente, e ce le ricordano. E diciamo anche che in quella porta aperta passavamo anche noi giornalisti, così severi e a schiena diritta oggi nel giudicare l’Iraq, almeno quanto fummo duttili, e relativisti quando Saddam era al potere (e se facessimo un Blob con i servizi della televisione italiana, e anche quelli dei giornali, in occasione delle due ultime scadenze elettorali, e accanto i servizi sull’ultimo referendum di Saddam, vinto con il 99 per cento dei voti?). Assomiglia, adesso Saddam, a un burbero non cattivo con alcune fissazioni, e l’aria svagata di chi vive in un mondo suo. Un mondo, quello di Saddam, che non farà mai davvero i conti con le accuse, non verrà mai a patti con il nemico, e troverebbe offensivo veder definito banale il male che ha sparso. Per questo bisognerebbe condannarlo alla pena di vivere, alla pena di ricordare, e di vantarsi, se non di chiedere perdono, di scrivere libri, e aiutare gli altri a capire che non tutto il male del mondo è figlio del burattinaio Bush, e non tutti i processi degni di questo nome sono quelli delle piazze e delle bandiere bruciate. Lunga vita a Saddam Hussein. Toni Capuozzo Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.