Contro il multiculturalismo Irshad Manji e Phyllis Chesler difendono i diritti universali e le donne islamiche
Testata: Il Foglio Data: 19 ottobre 2005 Pagina: 3 Autore: Amy Rosenthal - Mauro Suttora Titolo: «Così la scrittrice MAnji cerca di»
A pagina 3 dell'inserto IL FOGLIO di mercoledì 19 ottobre 2005 pubblica un'intervista di Amy Rosenthal alla coraggiosa e acuta saggista Irshad Manji, autrice del saggio "Quando abbiamo smesso di pensare?" sulla paralisi intellattuale dell'islam.
Ecco il testo: Irshad Manji è una canadese di 36 anni, femminista, lesbica e musulmana "critica" dell’islam. Fin dalla pubblicazione del suo libro – "The toruble with islam: a wakeup call for honesty and change" (pubblicato in Italia da Guanda con il titolo: "Quando abbiamo smesso di pensare") – e dalla creazione del suo sito web (muslim-refusenik.com) nel 2003, è diventata uno delle più importanti portavoci per i diritti delle donne e le violazioni dei diritti umani nel mondo musulmano, nonché un’instancabile critica dell’islam radicale e delle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano questa fede religiosa. Le sue critiche all’islam, il suo tentativo di "curare la sua fede", come dice lei stessa, e soprattutto la sua estrema schiettezza le hanno attirato parecchi nemici. Manji sorride con aria sarcastica quando spiega al Foglio di che natura sono le critiche che riceve: "Sono attacchi personali. Non mi attaccano mai sulla sostanza delle mie tesi. Il fatto che sia una donna, che sia lesbica e che viva in occidente è usato come arma per le loro campagne diffamatorie contro di me. Ma non sono affatto scoraggiata da tutto questo perché i più antichi dissidenti dell’islam sono apparsi soltanto un centinaio d’anni dopo l’affermazione della nuova fede. Benché fossero arabi, maschi ed eterosessuali, furono ugualmente accusati di cospirare con gli ebrei. Da un lato, mi trovo in ottima compagnia; dall’altro, anche se non ci fossero tutte queste cose su di me, chi si scaglia contro di me riuscirebbe lo stesso a trovare armi di distruzione di massa. Per loro e un gioco, e il fatto che io non rispetti le loro regole li manda su tutte le furie". Manji ha anche dovuto adottare nuove misure di sicurezza per tutelarsi dalle continue minacce che riceve: "Subito dopo l’uscita del libro ho assunto una guardia del corpo in servizio permanente – spiega – A casa mia ho installato vetri a prova di proiettile e un sosfisticato sistema d’allarme. Mi hanno anche insegnato come controllare la mia auto prima di metterla in moto. Insomma, ho dovuto cambiare il mio stile di vita, ma posso dire che non vivo affatto nella paura". Il suo sito è la sua voce. Ma Manji ci tiene a sottolineare che "refusenik" non significa un rifiuto a essere musulmana, è qualcosa di più profondo: "Rifiuto di unirmi a un esercito di robot che marcia in nome di Dio – spiega – E, sì, sono orgogliosa di avere preso questo nome dagli originari ‘refusenik’, gli ebrei sovietici, ai quali non era concessa la possibilità di emigrare in Israele. Sono persone che hanno combattuto per la libertà individuale e religiosa. Hanno rifiutato di obbedire a un sistema crudele e totalitaristico e hanno dato un contributo decisivo alla sua sconfitta. Chiedo ai miei fratelli musulmani di seguire lo stesso spirito di determinato dissenso, protestando contro il totalitaris che oggi si cela nel cuore dell’islam". Quando parla Manji ha negli occhi soprattutto i visi delle donne musulmane, che spesso subiscono abusi che spesso subiscono abusi sanzionati dalla fede islamica: lei si batte per una trasfromazione delle società islamiche a favore delle donne, perché "hanno un’importanza decisiva" e il loro coinvolgimento può contribuire "a ridurre il gap tra istruzione e libertà": "Non sono soltanto io a credere che le donne abbiano grande importanza per la riforma e la democratizzazione del mondo musulmano – dice – anche altre istituzioni, come le Nazioni Unite, sostengono la stessa cosa. Qualsiasi campagna per la trasformazione della società islamica dovrebbe cominciare liberando il talento imprenditoriale delle donne. In questo modo si coinvolgerebbe più di metà della popolazione, attualmente del tutto inutilizzata". Ha una grande ambizione, Manji: "Voglio mostrare alle donne delle società musulmane che possono credere nell’islam e avere contemporaneamente il diritto di amministrare i propri affari, di guadagnare, di istruirsi, di insegnare a leggere e scrivere ai propri bambini e, soprattutto, di fondare nuove scuole". In alcune zone del mondo musulmano questo sta già avvenendo, per esempio, a Kabul: nelle scuole fondate da donne musulmane si possono vedere cartelli con questa scritta: "Istruire un ragazzo significa istruire soltanto quel ragazzo; ma istruire una donna significa istruire un’intera famiglia". Manji sottolinea: "Non bisogna sottovalutare gli effetti a catena che si possono avere puntando sull’emancipazione delle donne musulmane". Il problema è convincere gli uomini di quanto possa essere positivo un maggior coinvolgimento: Manji ha un piano anche per questo. "Comincerei sottolineando il fatto che è legittimo da un punto di vista islamico. Tutti i musulmani sanno che Kadija, la prima moglie del profeta Maometto, era una ricca mercante a servizio della quale lo stesso Maometto lavorò per numerosi anni. Era lei il suo capo, e spesso mi piace ricordare agli uomini musulmani che, se vogliono davvero imitare la vita del profeta Maometto, dovrebbero accettare che le proprie mogli lavorino. Posso assicurare che queste parole non suscitano quasi mai sorrisi da parte degli uomini musulmani". Poi Manji ha cercato di avviare il processo di riforma, creando una fondazione, chiamata Progetto Ijtihad: "L’ijtihad – spiega – è il simbolo della tradizione islamica di pensiero indipendente e dibattito critico. L’obiettivo di questa fondazione è quello di creare alcuni centri d’incontro per i musulmani di mente aperta". Naturalmente questo sottintende che per la giovane Manji esista un islam moderato, con il quale sia possibile dialogare, pur essendo "molto silenzioso": "Mi sono resa conto che non mancano affatto musulmani di mente aperta desiderosi di vedere l’islam aprire le proprie porte alla diversità, al pluralismo, ai diritti delle donne e ai diritti umani, ma la maggior parte di coloro che la pensano in questo modo rimane zitta per paura. Dopo quasi tutte le conferenze che ho fatto negli Stati Uniti e oltreoceano si sono sempre presentati donne e uomini musulmani che dicevano di essere d’accordo con me. Talvolta chiedo loro: ‘Perché non avete detto qualcosa mentre stavo parlando, quando le persone come voi e come me vengono denunciate?’. Le loro risposte hanno sempre a che fare con la paura di violenze fisiche. Secondo Manji è necessario che i musulmani comincino a prendere sul serio il compito di mutare gli stereotipi occidentali nei confronti della religione islamica: la reazione principale è invece quella del vittimismo, una specie di rassegnazione. "Il Corano contiene fondamentali brani che insegnano la necessità di cambiare la percezione della religione islamica – spiega Manji – Noi musulmani non abbiamo rispettato il passaggio nel quale si dice: ‘Dio non cambia le persone finché esse stesse non cominciano a cambiare da sole’. Non possiamo scrollare semplicemente le spalle, levare le mani al cielo e dire che tutte le critiche sono razziste, perché non è così che stanno le cose. Dobbiamo riconoscere ciò che ci stiamo reciprocamente facendo come musulmani. Un altro passo chiave del Corano, che mi ha sempre ispirato, recita: ‘Credenti, comportatevi con giustizia e testimoniate la verità davanti a Dio anche se va contro voi stessi, i vostri genitori o i vostri parenti’. Io interpreto questi versi così: non curatevi di chi state facendo infuriare, perché se sapete che la vostra religione è oggetto di abusi dovete dire la verità e rompere il muro del silenzio". Secondo Manji il riassunto di questo ragionamento sta in un dato, semplice quanto feroce: "Negli ultimi cento anni, sono stati torturati e uccisi più musulmani da altri musulmani che da qualsiasi potenza imperiale straniera. Questo non significa negare il colonialismo, ma dimostra che il colonialismo ha molte sfumature e che se i musulmani vogliono davvero opporsi all’imperialismo devono schierarsi contro quei musulmani che si stanno colonizzando reciprocamente. Se faremo questo, la cosa fantastica è che ci batteremo per i musulmani comuni". Manji fa una pausa, poi esclama: "Non c’è nulla di non islamico in questo". Oltre all’imperialismo culturale arabo, la scrittrice ha criticato anche "l’islam del deserto": "Gli arabi sono i segreti colonizzatori dei musulmani, non gli americani o altri occidentali. Gli arabi sono riusciti a convincere i musulmani di tutto il mondo che la conquista militare attraverso la diffusione del jihad sia necessaria e che la loro versione dell’islam sia l’unica legittima. Consiste proprio in questo l’aggressione di quello che io definisco ‘l’islam del deserto’, che proviene dalla penisola araba. Si possono fare anche altri esempi per dimostrare questo fenomeno: il Corano ci dice che, dovunque si rivolga lo sguardo, a est come a ovest, si vede il volto di Dio. Perché allora ci viene detto che la sola direzione legittima per la preghiera è verso la Mecca? Perché ci viene detto che la sola lingua legittima per comunicare con Allah è l’arabo? Perché un conflitto regionale come quello israelo-palestinese è diventato la cartina di tornasole per l’unità mondiale dei musulmani? In altre parole, perché la posizione che si assume su tali questioni definisce se si è un autentico musulmano oppure no?". Manji s’infervora nel porgere tutte queste domande, ma ha già pensato anche alle risposte: "Ora basta. Questi sono tutti aspetti dell’imperialismo culturale arabo e delle dinamiche tribali che stanno al suo centro – dice con tono fermo –L’ironia di questo imperialismo è che oltre l’80 per cento dei musulmani di tutto il mondo non è arabo, ma soltanto meno del 20 per cento. E questo mi porta a una domanda ancora più importante: perché i musulmani non arabi accettano questa interpretazione dell’islam? E’ un’interpretazione che ci dice, per esempio, che le donne devono portare il velo se vogliono essere buone musulmane. Questa non è una pratica islamica bensì araba, e sono due cose diverse" Negli ultimi tempi si è molto discusso sul concetto di multiculturalismo, soprattutto dopo gli attentati a Londra della scorsa estate, quando si è scoperto che i ragazzi che hanno causato la strage nella metropolitana erano nati e cresciuti in Inghilterra, giocavano a cricket e insegnavano nelle scuole. "So che molti occidentali vorrebbero accogliere tanto l’universalità dei diritti umani quanto l’idea che tutte le culture sono uguali – spiega Manji – ma non si può avere entrambe le cose. Se credete che tutti gli esseri umani abbiano diritto al rispetto della loro dignità, le pratiche culturali che violano queste dignità non possono essere accettate. Una volta comprendevamo quasi istintivamente che la sacralità dell’individuo era il cuore pulsante dei diritti umani, ma negli ultimi anni anche alle culture è stata riconosciuta una certa sacralità. Così ora ci troviamo di fronte a uno scontro tra i diritti degli individui e i cosiddetti ‘diritti delle culture’. Chi sostiene il multiculturalismo deve rendersi conto che talvolta ci sono pratiche culturali che violano i fondamentali diritti umani e che è necessario decidere immediatamente cosa fare e quali scelte prendere. In base alla sharia, la vittima di uno stupro è considerata il vero colpevole e non il suo autore, come stabilito dai codici penali d’impostazione laica". Il motivo di tale macroscopica differenza con la nostra cultura sta, secondo Manji, nella questione dell’onore: "L’onore è il fondamento della tradizione culturale araba, che richiede alle donne di rinunciare alla propria individualità pur di mantenere alta la reputazione dei propri uomini. Le donne sono trasformate in una proprietà della comunità e non sono più proprietarie della loro vita, che appartiene invece a un più ampio numero di persone: la famiglia, la tribù e talvolta addirittura la nazione. Quando una donna musulmana è accusata di un comportamento disonorevole o di avere infranto il codice morale, la sua punizione può essere molto più severa rispetto a quella comminata per il crimine commesso, perché se la sua reputazione è messa in dubbio è danneggiata anche la reputazione di un intero gruppo di persone. La donna musulmana porta il fardello della loro reputazione, ed è lei a essere punita anziché chi ha commesso il crimine". In Europa occidentale – racconta Manji – i delitti d’onore sono in crescita, soprattutto a Berlino, dove il fenomeno sta diventando sempre più grave. Le persone cominciano a domandarsi perché non si è detto e fatto nulla per impedire questi delitti, e la ragione, secondo la scrittrice, sta nel fatto che per denunciare questa pratica "bisogna criticare un aspetto centrale della cultura araba, vale a dire l’onore, e il multiculturalismo, con la sua ‘teocrazia della tolleranza’, ci dice che anche le culture hanno diritti, non soltanto gli individui, ma anche le culture. Ecco un perfetto esempio di come non si possano avere entrambe le cose contemporaneamente. Non si può affermare che tutti gli uomini sono creati uguali e poi accettare l’uguaglianza di tutte le culture. No, gli uomini sono stati creati uguali, ma le culture no. E’ questa la distinzione da tracciare". Sempre a pagina 3 dell'inserto troviamol'articolo "Musulmane" di Mauro Suttora, un resoconto di un dibattito pubblico con la scrittrice femminista Phyllis Chesler.
Ecco il testo: New York. Il femminismo è morto? Sì, se non sceglie come priorità il dramma delle donne islamiche. Lo sostiene Phyllis Chesler, 65 anni, dall’alto dei due milioni e mezzo di copie vendute di "Le donne e la pazzia", caposaldo della letteratura femminista degli anni 70. Il sottotitolo del suo nuovo libro – "The Death of Feminism" – fa imbestialire le ex compagne: "What’s next in the struggle for women’s freedom?", di cosa dobbiamo occuparci ora per fa avanzare la libertà delle donne? Per Chesler la risposta è chiara: "L’apartheid schiavista subito dal mondo femminile nell’islam. Se non capiamo il pericolo per i nostri valori, e per le nostre vite, rappresentato dal razzismo e dal sessismo dei reazionari musulmani, siamo morte: uccise dal virus della passività provocata dalla correttezza politica". Venerdì scorso, sulla Quinta avenue di Manhattan, di fronte all’Empire State Building, la pioggia torrenziale non ha trattenuto decine di donne dall’affollare il salone dei dibattiti della City University di New York (Cuny), l’ateneo pubblico che fece aspettare 22 anni anche Chesler prima di concederle la cattedra di ruolo in Psicologia. Il suo avversario non è più l’establishment accademico maschile, ma il femminismo di sinistra, incrostatosi in una palude conformista dove per ogni docente repubblicano ce ne sono sette democratici e in cui i contributi pro Kerry ad Harvard e negli atenei pubblici californiani hanno superato di 19 volte quelli pro Bush. Automatiche le proteste contro le organizzatrici del National Organization of Women e della Cuny appena è stata annunciata la presenza di Chesler. "Davanti a un clima d’intimidazione degno dell’era McCarthy, ringrazio le dirigenti per aver difeso il primo emendamento alla Costituzione, proteggendo la mia libertà di parola", ha esordito la "traditrice". Che difende l’intervento in Iraq, ma che poche settimane dopo l’11/9 suscitò clamore appoggiando l’attacco all’Afghanistan sul New York Times. Non ha migliorato lo status di pecora nera pubblicando, due anni fa, lei ebrea di Brooklyn, una requisitoria contro "Il nuovo antisemitismo" Nella polemica contro il maschilismo islamico Chesler parte da lontano, ma anche da vicino: "Nell’estate del 1961 mi trasferii a Kabul, dopo aver sposato il mio fidanzato Ali. Lui proveniva da una potente famiglia afghana, eravamo stati insieme per due anni frequentando l’università qui in America. Ali era delizioso, interessante, colto: parlavamo di Simone Signoret, Fellini, Proust e Dostoievski. Peccato che, una volta in Afghanistan, abbia smesso di parlarmi. Reimmerso nell’ambiente di famiglia, cambiò totalmente. Quanto a me, vissi segregata da quando, all’aeroporto di Kabul, mi confiscarono il passaporto. Ero praticamente agli arresti domiciliari, ma anche in casa non potevo mai stare da sola: se volevo leggere o scrivere mi chiedevano perché fossi così triste da volerlo fare. Non esiste il concetto di privacy da quelle parti. Ero prigioniera. Scoprii che il padre di Ali aveva tre mogli. Dopo qualche mese da incubo riuscii a scappare e a tornare indietro. Baciai la terra quando atterrai all’aeroporto di New York. Ero incinta, ma se l’avessi detto a Kabul non mi avrebbero lasciata partire. Abortii". Nulla è cambiato negli ultimi 44 anni, sostiene Chesler: "Nell’islam i matrimoni continuano a essere combinati, le donne sono torturate, per le accusate di adulterio c’è la lapidazione. A scagliare la prima pietra sono il padre o il primogenito. I maschi musulmani sono ancora affetti dalla sindrome di personalità multipla culturale, come il mio Ali: diversi quando sono in occidente, ci considerano ingenui perché di personalità tendiamo ad averne una sola. Di fronte a tutto questo, giustifico che gli Stati Uniti usino la propria potenza per sottrarre le donne islamiche al loro tremendo destino, e anche che facciano ricorso allo strumento militare come mezzo estremo". Segue dibattito. Cagnara. Parlano alcune femministe di estrema sinistra, senza porre domande. Interrotte, si mettono a urlare contro la censura, il fascismo e Bush. Unica obiezione sensata: le donne saudite stanno peggio delle irachene sotto Saddam, ma Riad è alleata degli Stati Uniti. "Su questo mi trovo più a destra di Bush", risponde ironica Chesler. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.