Confusione e affermazioni sconcertanti nell'articolo di Igor Man sul processo a Saddam di cui alcuni negano la legittimità
Testata: La Stampa Data: 19 ottobre 2005 Pagina: 1 Autore: Igor Man Titolo: «La resa dei conti»
LA REPUBBLICA di mercoledì 19 ottobre 2005 dedica al processo a Saddam Hussein un articolo di Antonio Cassese, "Il processo a Saddam e i nobili fini della giustizia" che ne sostiene l'illegittimità. Al pari del processo di Norimberga, del processo contro Slobodan Milosevic e di quello contro pianificatori ed esecutori del genocidio ruandese, quello al dittatore iracheno sarebbe l'espressione della "giustizia dei vincitori". Significativi gli argomenti portati da Cassese a sostegno di questa tesi: il rifiuto del tribunale di Norimberga di giudicare anche gli alleati per l'affondamento di navi commerciali tedesche, la mancata apertura di investigazioni per accertare se i militari della Nato avavano commesso crimini di guerra in Serbia e la sostituzione de procuratore della Corte internazionale dell'Aja quando ha iniziato a indagare sui crimini imputati "ai vincitori nel Ruanda, cioè ai Tutsi attualmente al governo". Quste considerazioni rivelano la loro inconsistenza non appena si consideri che 1) la Germania nazista era lo Stato aggressore nella Seconda guerra mondiale, e non si è limitato a colpire civili nell'ambito di operazioni belliche, ma ha organizzato ed attuato lo sterminio di milioni di persone 2) durante la guerra del Kossovo la Nato non ha colpito deliberatamente civili, non c'è paragone tra l'aver causato involontariamente vittime innocenti durante operazioni militari legittime e le fosse comuni di cui il regime di Milosevic stava riempendo e aveva riempito per un decennio i Balcani 3) in Ruanda, contrariamente a quanto implicitamente ammette Cassese, non vi è stata una "guerra civile", ma uno sterminio, con l'eliminazione di centinaia di miglia di persone in poche settimane; l'idea che si dovessero punire i crimini di guerra di due parti belligeranti invece che la pianificazione e la perpetrazione di un immenso crimine contro l'umanità è, nella migliore delle ipotesi, un totale fraintendimento degli eventi.
Considerazioni analoghe possono essere applicate al processo a uno dei peggiori regimi del mondo e al tentativo di negarne la legittimità.
Ancora più deciso di Cassese nel negare la legittimità del processo a Saddam Hussein è, sul MANIFESTO il filosofo del diritto Danilo Zolo, in un articolo programmaticamente intitolato "La vendetta". Processo farsa a Saddam anche per Franco Cardini su L'UNITA' nell'articolo "Un boomerang per l'Occidente" . Per lo storico le colpe dei dittatori ricadono in realtà sull'Occidente che con essi stringe accordi politici . Una tesi che, sostenuta da uno strenuo avversario del progetto di democratizzazione del Medio Oriente, è solo propaganda contro il mondo libero. Infatti, è evidente che le dittature devono essere affrontate o blandite, evitare entrambe le cose è impossibile e lo era tanto più all'epoca del confronto bilaterale quando le due superpotenze cercavano alleati sullo schacchiere internazioanale e i dittaori del terzo mondo protettori. Cardini, un risoluto avversario della prima strategia (il confronto), dovrebbe di logica prendersi la responsabilità di appoggiare la seconda (l'alleanza).
LA STAMPA pubblica sul processo un articolo di Igor Man, "La resa dei conti" confuso e con alcune affermazioni sconcertanti, per esempio quella per cui il processo sarebbe un'applicazione della legge "semitica" del taglione, quella per cui l'"opinione pubblica mondiale chiede un processo giusto, non una nuova Norimberga" (da quando quello di Norimberga è assurto ad esempio del processo ingiusto?) e quella per cui i terroristi suicidi (ispirati in Iraq a un'ideologia wahabbita ferocemente antisciita) sarebebro mossi da una "passione per il sangue" mutuata dalla cultura sciita. Sulla natura delle violenze in Iraq Igor Man svicola: per lui sono "a metà strada" tra la guerriglia e il terrorismo. Un bel modo per sosttrarsi all'obbligo della chiarezza.
Ecco il testo:
NEL nome di Dio clemente e misericordioso, Saddam Hussein al-Tikriti compare alla sbarra. Comincia una Norimberga col turbante nel segno antico di «vita per vita, occhio per occhio, naso per naso, orecchia per orecchia, dente per dente». La legge del taglione non è una prerogativa dell’islám ma una istituzione presente nelle scritture semitiche (cfr. Deut., 21) e successivamente incamerata dal Corano (V- 45). Sarà un Tribunale speciale (TSI) a giudicare il Tiranno attingendo fatalmente al diritto internazionale ancorché adattato a un accadimento senza precedenti. Che si sappia, nel mondo (o universo) islamico, i tiranni sono morti in battaglia ovvero ammazzati da sicari, e persino nel proprio letto, col conforto degli adepti più fedeli e dei più cari familiari. Mai in seguito alla condanna d’un tribunale. Saddam Hussein fa storia a sé. Gli americani contavano su di una rapida campagna militare che avrebbe distrutto la dittatura, per consegnare agli iracheni, liberati dal terrore, e agli esuli, il paese affinché fosse subito avviato alla democrazia. La campagna militare è stata rapida, come sappiamo, ma invece di una folla plaudente (vedi il 4 di giugno del ‘44 a Roma) i GI han trovato il caos (fra l’altro Saddam prima di darsi alla macchia aveva svuotato le carceri) che se possibile hanno aggravato sciogliendo l’esercito col risultato di far dilagare in tutto l’Iraq una armata brancaleone affamata; anche il partito unico, il Baas, è stato subito sciolto complicando il caos non foss’altro perché il Baas era il regolatore della vita quotidiana: dal mercato ortofrutticolo alla scuola, dai media all’ospedale. Nemmeno la cattura di Saddam (preso come un topo di fogna grazie all’[FIRMA]intelligence ovvero ammanettato dopo un conflitto a fuoco) è valsa ad accelerare la ricostruzione dell’Iraq. Paradossalmente quell’accadimento ha peggiorato le cose, a tutto danno della società civile che eroicamente manda avanti la macchina-paese rischiando ogni giorno la vita. Lo spontaneismo armato degli ultimi mohicani di Saddam ha assunto i connotati perniciosi d’una guerriglia episodica a mezza strada fra la «resistenza all’invasione straniera» e un sistematico piano terroristico ideato e diretto da al-Qaeda. Sfrattati dall’Afghanistan, i pazzi lucidi dello Sceicco della Morte, Osama (o un suo clone) stanno rinforzando la «rete» irachena grazie anche alla complicità dell’Iran della quale i Servizi sauditi avrebbero le prove. Di più: il coraggioso assedio della società civile ai seggi elettorali rischia di mutarsi in un terribile boomerang. Su questo sfondo crespo il processo a Saddam finisce col configurarsi alla stregua d’un Giudizio di Dio a mezza via fra internet e Corano. Anche se alla fine si è ripiegato sulle rituali «immagini in differita» preventivamente rivedute e corrette? Il fatto è che, sia pure in catene, il Tiranno continua a far paura. Sicché corre il pericolo che sue dichiarazioni bombastiche adrenalizzino quei disperati allo sbando che tutt’ora vestono la divisa leopardata dei commandos, grazie alla quale riescono ad infiltrarsi nei ranghi della polizia, dell’esercito che faticosamente americani ed alleati formano al prezzo di oneste vite umane. Chi scrive è stato non poche volte in Iraq e ha potuto toccare con mano il terrore che intossicava la vita degli iracheni che, poi, sono arabi niente affatto sfaticati al contrario di molti loro «fratelli». Certamente Saddam era odiato e tuttavia in forza della «mafia di Tigrit», il borgo contadino dove nacque il 3 di aprile del 1937 e dal quale viene il piccolo esercito di suoi fidi, lo circondava molto «rispetto». Il «rispetto» che i picciotti portano al capo della cupola mafiosa, giustappunto. Orfano di padre, vive come un gatto randagio, a otto anni non sa né leggere né scrivere ma è un abile tiratore di pistola. Suo uomo del destino è uno zio ufficiale epurato perché «nazionalista-monarchico». Lo fa studiare tanto da farlo ammettere al liceo al-Kharkh di Baghdad, fucina di attivisti antimonarchici. Nel 1955 Saddam entra nel Baas (Al-baath Al’-Arabi, il partito (nazionalsocialista) della Rinascita araba. Il giovine Saddam si fa presto notare per il suo coraggio e per l’assoluta mancanza di stati d’animo. Entra nel Servizio di sicurezza del partito, una scelta che lo porterà lontano. Allorché, il 17 di luglio del 1968, il Baas coglie il potere, Saddam sarà il numero 2 del regime. Quando lo incontrai a Baghdad, nel 1974, il numero 2 era un uomo alto e magro, avvolto in un lungo burnus nero, il volto scavato e gli occhi lucidi. Gli chiesi se credesse ancora nel socialismo arabo (istiraki) inventato da Nasser e lui, con garbata irritazione: «Il socialismo arabo è opera di Michel Aflak (uno dei padri del Baas n.d.r.); Nasser tutt’al più ha inventato il socialismo egiziano», disse. «Ne riparlemo la prossima volta», sorrise. La prossima volta fu l’estate del 1979. Saddam era subentrato al malaticcio presidente Bakr, preoccupandosi, prima ancora di insediarsi, di far fuori, secondo una consolidata prassi baasista, tutti quei compagni, in numero di 22, ch’egli considerava «negativamente critici» nei suoi riguardi. (Uno o due li liquidò di mano sua «senza sforzo eccessivo, strangolandoli»). Dopo il trionfo della rivoluzione «a mani nude» di Khomeini in Iran, un machiavellismo dei più elementari, insieme con la voglia, naturale, d’un buon business, spinse l’Occidente ad armare il nuovo Saladino («Meglio lui che Khomeini») e così Saddam cumula debiti ma altresì armi mungendo le petrolmonarchie. Durante otto anni di guerra contro l’Iran, Saddam avrà soffocato nel sangue almeno tre golpe e liquidato un numero non quantificabile di oppositori veri o presunti, sicché, al pari di Nabucodonosor, potrà affermare: «Non vedo ostacoli all’orizzonte». Saddam sa di non essere amato e d’altra parte non è facile governare un paese che contiene tre comunità etniche - e lui, sunnita, appartiene alla minoranza poiché gli sciiti sono il 60 per cento della popolazione. Non basta: la metà dei sunniti sono kurdi, una etnia che non s’è mai dichiarata fedele al Baas. Quel che conta è esser temuto, e certamente Saddam lo è poiché il dittatore è soprattutto un Padrino. Saddam, sterminatore di «comunisti» e di ebrei, odiato ma rispettato proprio perché temuto, è riuscito a creare quel che lui stesso definì «un vincolo di sangue» coi suoi compatrioti. Specie coi più giovani (che oggi, guerriglieri o no, marciano sulla trentina). Il sangue è una componente forte della storia personale e della personalità stessa di Saddam. Lo si può capire riandando ai foschi suoi trascorsi giovanili e non. Ma lo è anche d’una gente, quella irachena, che subisce culturalmente il fascino del martirio e quindi del sangue. Se non fosse per quel «vampirismo psicologico» mutuato dagli sciiti perché mai non pochi giovani si fanno saltare in aria a Baghdad, a Nassiriya badando bene di ammazzarsi per ammazzare il «nemico lontano», vale a dire i soldatini della democrazia? Megalomane com’è, Saddam sognava di mobilitare il mondo arabo contro Israele ma furono invece i suoi «fratelli» a mobilitarsi contro di lui quando osò invadere il Kuwait e fu la prima Guerra del Golfo che ne fece un vinto sul campo ma un eroe casalingo. Insomma, non è un tiranno qualunque (un Bokassa della situazione) quest’uomo cupo, dagli occhi minacciosamente disperati davanti al quale son schierati cinque magistrati consapevoli di giuocarsi la pelle. Il problema è come gestire il Padrino. Non puoi trattarlo come un delinquente comune giacché lui non è uno qualunque anche se le sue mani grondano sangue, come usa dire. D’altronde non si può negare che il Saddam fotografato (a sua insaputa) in mutande è tutto fuorché ridicolo. L’opinione pubblica mondiale pretende un processo giusto, non una nuova Norimberga. A far un po’ di conti risulta che Saddam debba avere sulla coscienza almeno due milioni di morti ammazzati. La sentenza è già scritta nella mente e nel cuore dei giudici e di chi soffrì la sua mostruosa mafiosità. Ma, condannandolo a morte, il TSI ne farebbe certamente un martire da leggenda. Al processo lo si lasci dunque parlare, senza timore: le colpe dell’Occidente che se ne servì (male) per far fuori Khomeini le conosciamo, le abbiamo già metabolizzate e non ci sono «documenti» compromettenti in giro come quelli (presunti o veri) con cui Mussolini, se processato, avrebbe messo in imbarazzo qualche grande leader anglosassone (e dunque si pensò bene di impedirgli di parlare). Questa è una storia diversa, torbida ma facile da leggere. E qui ci sia consentito dire che condannare a morte il Padrino in turbante sarebbe un errore immenso. La fucilazione (o la forca) ne farebbe un martire-eroe per non pochi arabi in generale, islamisti in particolare. Che sia punito, allora, come il nazista Hess: a non parlare con nessuno, solo nel silenzio a vita d’un carcere remoto. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla direzione della Stampa . Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.