Dopo il referendum in Iraq: ripensamenti e risposte alle critiche anche a quelle dell'ex ambasciatore Romano
Testata: Il Foglio Data: 18 ottobre 2005 Pagina: 3 Autore: un giornalista - Christian Rocca Titolo: «Oservatorio Romano - Scettici e liberal iniziano a riconoscere che la strategia di Bush non era male»
IL FOGLIO di martedì 18 ottobre 2005 pubblica a pagina 3 l'editoriale "Oservatorio Romano" che riportiamo: Il Corriere della Sera ieri ha riservato l’editoriale al referendum iracheno invece che al plebiscito prodiano, e di questo gli va dato atto. L’autore era Sergio Romano, il raffinato ex ambasciatore che negli ultimi anni ha dedicato gran parte dei suoi interventi a dimostrare che l’11 settembre non è stato l’evento epocale che conosciamo né la presa di coscienza di un conflitto che in epoca recente è iniziato con la rivoluzione iraniana e con la fine della Guerra fredda. Per Romano l’11 settembre è stato un inammissibile atto barbarico, ma non uno spartiacque per cui valesse la pena rischiare di stravolgere consuetudini, costumi e status quo mondiale. La conseguenza di questo minimalismo è che la risposta al terrorismo islamista è stata sbagliata, irresponsabile e pericolosa. Una tesi legittima, ma che nel corso degli anni il suo autore è stato costretto a modificare innanzi alle confutazioni ricevute sul campo. Il caso più clamoroso è quello dell’assassinio di Enzo Baldoni, il reporter pacifista ucciso in Iraq dalla guerriglia. Romano si stupì che gli islamisti avessero ucciso un pacifista, visto che fino a quel momento era prevalsa la "comprensibile", così scrisse, logica antiamericana dei terroristi. L’ambasciatore, insomma, non aveva colto l’essenza dello scontro, che non è legato alle politiche "arroganti", "saccenti", "inconsistenti", "prigionere della lobby religiosa" e "dilapidatrici del patrimonio morale e civile dell’America" elaborate da Bush: viceversa non si spiegherebbe la carneficina di iracheni, musulmani, europei e buddisti. L’ambasciatore, nota il nostro piccolo Osservatorio Romano, ha virato i suoi ragionamenti su un attacco preventivo americano alla Cina (su Vanity Fair), sul bluff di Sharon in Palestina (su Panorama), fino a criticare Bush per essere "piccolo, tozzo" e "di modesta statura", quando Bush supera il metro e ottanta. Soprattutto ha puntato sul pericolo di guerra civile in Iraq, dimenticando che la guerra civile in Iraq c’era ai tempi di Saddam, quando la minoranza sunnita gasava i curdi e massacrava gli sciiti. Ora, invece, quegli stessi gruppi si riuniscono in partiti politici, scrivono insieme la Costituzione, discutono in Parlamento, si confrontano e si dividono dentro una cornice istituzionale politica e democratica. E’ tutto rose e fiori? Ovvio che no. Ma non è vero che prima della guerra gli americani "non avevano alcun progetto costituzionale per l’organizzazione dello Stato". E’ vero il contrario: l’ipotesi federalista è stata presentata a Washington nell’agosto 2002 dai partiti iracheni in esilio, gli stessi che a Romano risulta abbiano "perduto i contatti con la realtà" ma che al contrario hanno ricevuto i voti degli iracheni. Romano sostiene che Saddam non era un pericolo e che guidava uno Stato laico, cancellando così la conversione islamista del regime alla fine degli anni 80, i finanziamenti ai kamikaze, i rapporti con al Qaida provati dalla Commissione sull’11 settembre, l’ospitalità ad Abu Abbas, Abu Nidal e Al Zarqawi, il collegamento con Ansar al Islam, le violazioni delle risoluzioni Onu e la condivisione del medesimo progetto politico di bin Laden: conquistare il mondo arabo, distruggere Israele, sconfiggere gli americani. A pagina 2 dell'inserto troviamo l'articolo di Christian Rocca "Scettici e liberal iniziano a riconoscere che la strategia di Bush non era male".
Ecco il testo: Milano. La soddisfazione dell’Amministrazione Bush è contenuta, mentre i grandi giornali liberal mostrano i primi imbarazzati sorrisi per il successo del referendum costituzionale iracheno e, di conseguenza, della politica mediorientale di Bush. Non si conoscono ancora i risultati definitivi nelle regioni a maggioranza sunnita, ma è molto probabile che la Costituzione otterrà i voti necessari. In ogni caso, poco male: il risultato è già di per sé straordinario, dicono a Washington, perché a differenza del voto per l’Assemblea Nazionale del 30 gennaio, questa volta i sunniti hanno partecipato da protagonisti nel processo politico, invece che boicottarlo. E se la Costituzione fosse respinta col no dei due terzi degli elettori di tre province, il cammino democratico del nuovo Iraq continuerebbe ugualmente colvoto del 15 dicembre. A fine anno, infatti, si voterà per il Parlamento, il quale dovrà eleggere entro il 31 un nuovo governo non più transitorio e quindi definire gli aspetti costituzionali lasciati aperti dalla Costituzione sottoposta sabato al voto popolare (oppure riscrivere la Carta, se sabato fosse stata bocciata). A Washington si ragiona come se la Costituzione fosse in vigore e si cominciano a studiare le prossime mosse, confidando su una costante che soltanto due anni fa sembrava di improbabile realizzazione ("Gli iracheni hanno esercitato un fondamentale diritto democratico che solo qualche anno fa sembrava inconcepibile", ha commentato ieri il New York Times). C’è, infatti, che gli iracheni in pochi mesi sono riusciti a rispettare tutte le scadenze imposte dall’Onu e dalla coalizione con l’accordo del 15 novembre 2003, cioè la formazione di un governo provvisorio di solidarietà nazionale, l’adozione di una Costituzione transitoria (novembre 2003), il ritorno della sovranità (30 giugno 2004), la convocazione delle elezioni per l’Assemblea costituente (30 gennaio 2005), la nascita del primo governo democratico a interim (aprile 2005), l’approvazione di una Costituzione democratica e non fondamentalista (agosto 2005), il coinvolgimento dei sunniti (ottobre 2005), la conferma popolare di sabato e, nei prossimi giorni, il processo a Saddam. Le novità hanno convinto un analista critico delle politiche bushiane come Fareed Zakaria, di Newsweek, a lodare le ultime mosse della Casa Bianca coordinate sul campo dall’ambasciatore Zalmay Khalilzad, già artefice della transizione costituzionale afghana nonché firmatario nel 1998 dell’appello con cui il Project for a new american century chiedeva la destituzione di Saddam. Khalilzad è un americano di origini afghane che ha studiato matematica a Chicago con Paul Wolfowitz e Richard Perle, nell’ambiente culturale influenzato dalle idee di Leo Strauss e dalle lezioni di Allan Bloom e di Albert Wohlstetter. Particolari biografici che smentiscono la tesi di moda secondo cui in Iraq ora le cose vanno meglio perché è stata abbandonata l’ideologia neocon a vantaggio del pragmatismo realista del passato. Piuttosto è vero il contrario: oggi appare evidente a molti analisti che il grande errore politico in Iraq sia stato quello di non cedere la sovranità agli iracheni subito dopo la caduta del regime e di provare a governare il paese direttamente con Paul Bremer e i suoi piani preconfezionati dai centri studi del Dipartimento di Stato. Il nuovo Parlamento sarà eletto con una nuova legge elettorale, non più centrata sulle liste come accadde a gennaio su suggerimento dell’Onu, ma sul territorio, in modo da poter dare rappresentanza a quelle province sunnite dove si registrerà un’affluenza media più bassa. Il Parlamento dovrà far nascere una seconda Camera, stabilire le modalità di selezione della Corte Suprema, l’unico organo cui sarà assegnato il compito di interpretare la legge. Infine dovrà avviare le procedure di formazione dei governi locali, i quali non avranno competenza su difesa, tasse e politica estera. Il petrolio appartiene a tutti gli iracheni, dice la nuova Costituzione che garantisce "l’unità dell’Iraq". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.