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La Stampa Rassegna Stampa
14.10.2005 «Se dovessi definire il sionismo con una sola parola sarebbe "confini" »
Avraham B. Yehoshua racconta il colloquio nel quale ha illustrato a Sharon l'idea di una barriera difenisiva

Testata: La Stampa
Data: 14 ottobre 2005
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yehoshua
Titolo: «Ho convinto sharon a costruire il muro»
LA STAMPA di venerdì 10 ottobre 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 9 un articolo di Avraham B. Yehoshua che riportiamo.
DI solito non amo analizzare la personalità o le scelte di questo o di quel leader, e neppure tracciarne un profilo psicologico. Non sono un esperto di alchimie politiche, di intrighi o di brogli di partito. La mia attenzione si incentra piuttosto sui processi storici e ideologici a livello nazionale in cui politici e governanti adempiono al loro ruolo, nel bene e nel male.
Cercherò tuttavia di soddisfare indirettamente chi si interroga sul radicale cambiamento avvenuto in Ariel Sharon, raccontando, forse per la prima volta pubblicamente, di un mio incontro con Sharon avvenuto due anni e mezzo fa, che potrebbe avere a che fare con la sua drammatica svolta politica. Non sono tanto ingenuo da credere che le parole degli intellettuali possano influenzare le opinioni e le convinzioni dei politici. Cambiamenti e mutamenti di opinione sono dovuti a una realtà in continua evoluzione. Può però accadere che determinate parole, pronunciate in determinati momenti, possano essere come gocce di lubrificante negli ingranaggi della storia.
Negli Anni Cinquanta Ariel Sharon era comandante del glorioso corpo d'armata dei paracadutisti, impegnato in innumerevoli rappresaglie contro l'esercito giordano e distintosi durante la campagna del Sinai. Tale posizione gli ha assicurato la fama di valoroso guerriero. Anch'io giunsi a far parte di quel corpo durante il servizio militare, ma mi fermai al grado di soldato semplice.
Diversamente da altri ufficiali miei superiori che fecero carriera fino a raggiungere il grado di capo di stato maggiore dell'esercito, Sharon mi parve sempre un uomo rozzo e sempliciotto, continuamente alla ricerca di scontri e di lotte. Una sorta di toro ansioso di partire alla carica.
Per anni ne ho seguito la carriera politica. Molti sostenitori della sinistra vedono in lui il nemico numero uno, soprattutto per via della sua straordinaria capacità di portare a compimento gli obiettivi che si prefigge. Infatti, contrariamente a molti esponenti della destra tradizionalista, oratori di talento e arringatori di folle ma scarsamente dotati su un piano pratico, Sharon è uomo d'azione. Aggirando sapientemente ostacoli burocratici e lunghi iter amministrativi riesce a raggiungere il proprio scopo, sia questo la massiccia costruzione di insediamenti nei territori occupati o la distruzione di colonie nella regione di Yamit nel quadro dell'accordo di pace con l'Egitto. Da un punto di vista ideologico vi sono naturalmente leader più estremisti di lui ma Sharon è inimitabile nel lasciare un marchio su qualsiasi impresa intraprenda. Durante la guerra del Libano la sua reputazione fu macchiata e sembrava che la sua carriera politica fosse giunta al termine. Ma lui, araba fenice, risorse dalle ceneri e grazie a eccezionali doti di costanza e di perseveranza, tornò a una posizione di preminenza.
GLI ANNI IN DIVISA
La sua elezione a primo ministro dopo lo scoppio della seconda Intifada nel settembre 2000 fu vista dalla sinistra come un ulteriore, venefico, regalo di Arafat, il quale aveva fatto precipitare noi e i palestinesi in un caos sanguinario. Nonostante alcune sporadiche dichiarazioni dai toni concilianti nessuno si attendeva da Sharon alcuna iniziativa politica a favore della pace, ma unicamente una lotta strenua contro la resistenza e il terrorismo palestinese. Considerando poi irrealistiche le condizioni da lui poste ai palestinesi per un proseguimento del processo di pace, quelle dichiarazioni concilianti ci parvero vuote di contenuto.
Agli inizi del 2003 pubblicai un lungo e dettagliato articolo intitolato «La necessità di un confine» in cui sostenevo la necessità di costruire una reale barriera divisoria tra Israele e i territori palestinesi ed esponevo un programma concreto di separazione parziale tra i due popoli. Tale programma contrastava con la posizione ufficiale della sinistra, mirante a un accordo di pace comprensivo basato sugli accordi di Ginevra, di cui peraltro ero tra i firmatari ma che consideravo più un'aspirazione futura che un progetto realizzabile. Naturalmente gli esponenti della destra videro in questa mia proposta una formula sicura per una futura disfatta e un umiliante ritiro.
L’IDEA DELLA BARRIERA
L'articolo suscitò una vasta eco ma non fu preso troppo sul serio dai circoli politici. Una mia cara amica - di professione psicoanalista, figlia di uno dei più radicali leader del Likud ormai scomparso, caro amico di Sharon e suo stretto collaboratore nella creazione di colonie - divenuta ormai un'attivista di sinistra dopo aver rinnegato le opinioni del padre, insistette che mi incontrassi col primo ministro per illustrargli i punti del mio programma. Ero indeciso se accettare. Non credevo che le parole di uno strenuo oppositore politico potessero avere qualche effetto su Sharon. Temevo inoltre che il suo entourage potesse sfruttare una simile occasione per dare prova di legittimazione della politica estremista del premier da parte di un intellettuale di sinistra. Dopo molti tentennamenti proposi al mio amico Lova Eliav di unirsi a me nell'incontro e nel momento in cui lui accettò, decisi di procedere.
A questo punto è d'obbligo una cesura per introdurre ai lettori italiani una delle personalità più straordinarie di Israele, purtroppo non molto conosciuta all'estero.
Lova Eliav ha ottantadue anni ed è considerato da molti (me compreso) il vero leader politico ed ideologico del movimento per la pace israeliano. Sarebbe impossibile enumerare in questo contesto gli incarichi da lui ricoperti nel corso degli anni. Nel 1948 prestò servizio come comandante sulle navi dei profughi ebrei in fuga dall'Europa. Negli Anni Cinquanta servì come primo segretario dell'ambasciata israeliana a Mosca e anticipò il risveglio e il movimento di dissidenza (si era allora in piena guerra fredda) della locale comunità ebraica. In seguito fu tra i più attivi promotori di nuovi insediamenti in Israele e dello sviluppo di intere zone agricole. Fu a capo di corpi di spedizione accorsi in aiuto a popolazioni colpite da terremoti o da altri cataclismi in varie regioni nel mondo. Fu membro della Knesset e segretario del partito laburista fino a dopo la guerra dei Sei Giorni, quando il suo spiccato senso di giustizia e la sua dirittura morale lo portarono a dissociarsi dalla politica perseguita dal suo partito e dell'allora capo del governo, Golda Meir.
ELIAV E LA MEIR
Costei, ignorando completamente il problema palestinese, aveva infatti dato il via alla costruzione di colonie nei territori occupati nella speranza di annetterne una parte. Eliav si dimise dal suo incarico per fondare un movimento di pace favorevole al dialogo con i palestinesi e alla creazione di un loro Stato a fianco di quello ebraico. Negli anni seguenti, pur continuando a militare alla testa di un piccolo partito e a lottare per un dialogo con i palestinesi, proseguì le sue molteplici attività pionieristiche e didattiche nel Negev e in Galilea guadagnandosi il rispetto di tutti (avversari politici compresi e senza dubbio quello di Ariel Sharon) e numerosi riconoscimenti da parte dello Stato.
L'incontro con Sharon era fissato per un venerdi d'aprile del 2003, alle dieci del mattino nel ranch di sua proprietà nel Negev, una ventina di chilometri a nord della striscia di Gaza. Quello stesso giorno, all'una del pomeriggio, avevo in programma di assistere a «La Traviata» di Verdi al teatro dell'Opera di Tel Aviv. Poiché pensavo che l'incontro sarebbe durato un'ora, al massimo due, ritenevo di poter raggiungere mia moglie in tempo per lo spettacolo.
NEL RANCH
Il ranch del primo ministro era strettamente sorvegliato. A quel tempo non si temevano attentati da parte di estremisti di destra, come nel corso dell'ultimo anno, ma di terroristi palestinesi che seminavano morte e distruzione in tutta Israele. Al nostro incontro era presente anche un ex alunno di Lova Eliav, presidente di un consiglio regionale della zona, molto vicino a Sharon e organizzatore di fatto dell'incontro. Dopo aver superato diversi controlli entrammo nel ranch e Sharon, vestito in modo informale, ci accolse con calore. Vi fu uno scambio di convenevoli e il primo ministro cominciò a parlare della situazione in termini generici, ripetendo luoghi comuni e ribadendo la convinzione che la presenza di colonie nella striscia di Gaza era di vitale importanza per la sicurezza di Israele.
Dopo di lui parlò Lova Eliav. Sharon lo ascoltò con cortesia e quando giunse il mio turno, avendo il programma che intendevo illustrare ben stampato in testa, mi espressi con estrema chiarezza, precisione, senza mezzi termini e con grande fermezza. Pur non coltivando la speranza di riuscire a convertire il primo ministro alle mie idee mi sforzai, con l'ausilio di metafore, di minare l'ideologia alla base delle sue convinzioni. Lui mi ascoltò con attenzione e a un certo punto afferrò carta e penna e cominciò a prendere appunti. Quando dissi che volendo definire il sionismo con una sola parola, avrei scelto il termine «confini», che indicava una situazione diametralmente opposta a quella degli ebrei nella diaspora, mi resi conto che qualcosa era scattato in lui. Sharon pregò uno dei presenti di andare a chiamare il figlio Gilad, perché anch'egli sentisse quanto avevo da dire. Illustrai infine la necessità di costruire una barriera di separazione tra Israele e la futura Palestina, e Sharon si mise a calcolarne la lunghezza e a lamentarsi degli alti costi.
PARLARE CHIARO
Il colloquio si fece sempre più approfondito. Trascorse un'ora, ne trascorsero due. Sharon non pareva intenzionato a congedarci e io già cominciavo a preoccuparmi di perdere lo spettacolo. Alla fine ci accomiatammo e facemmo ritorno a Tel Aviv. Giunsi a teatro alla fine del primo atto, mi intrufolai tra le poltroncine e quando mia moglie mi chiese com'era andato l'incontro risposi: «Non un granché. Sharon non cambierà mai idea». Alcuni mesi più tardi il primo ministro annunciò il piano di ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza. L'ex alunno di Lova Eliav, il presidente del consiglio regionale presente all'incontro, ci riferì che le nostre parole avevano lasciato un segno profondo su Sharon e lo avevano aiutato nella sua decisione. A tutt'oggi ho dei dubbi in proposito. Ma se dovessi per caso scoprire che la cosa è vera, sono senz'altro disposto a perdermi un'altra opera, a fare un salto a casa di Sharon e a cercare di convincerlo a proseguire nel processo di pace.
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