Le verità precostituite di Vargas Llosa per esempio: "gli insediamenti sono la causa del conflitto israelo - palestiense"
Testata: La Repubblica Data: 07 ottobre 2005 Pagina: 22 Autore: Mario Vargas Llosa Titolo: «Hebron, la città dei patriarchi dove i coloni dettano legge»
La quarta puntata del reportage di Mario Vargas Llosa da Israele e Territori riguarda gli insediamenti, in particolare Kiryat Arba a Hebron. Qual'è la conclusione cui arriva lo scrittore sull'argomento ? Riuscite a indovinarla ? Che gli insediamenti sono il cuore del conflitto israelo palestinese, la questione cruciale che impedisce ogni soluzione, naturalmente. Glielo aveva detto, al suo arrivo in Israele, Amira Hass, ma lui non era convinto. Passati dieci giorni invece, ne è certo. Avesse chiesto a noi gli avremmo assicurato che se ne sarebbe convinto, in tempo, quanto meno, per scrivere un articolo sul tema. Questo, come gli altri articoli di Vargas Llosa che compongono il reportage, è scritto con la costante preoccupazione di rispondere all'accusa di partire da un giudizio preconcetto. Lo scrittore, per così dire, mette continuamente "le mani avanti". Fa bene, perché l'accusa è più che fondata. Per convincersene, basta confrontare i fatti (o i presunti fatti) qui dà rilievo con quelli che ignora del tutto. Vediamo qualche esempio:
1) scrive di una "pulizia etnica" dei coloni ai danni dei palestinesi di Hebron ignorando del tutto le violenze del terrorismo palestinese contro i coloni 2)sostiene di possedere "un video dove si vede la raccapricciante scena di bambini e bambine dell´insediamento di Tel Rumeida che lanciano pietre e prendono a calci gli scolari arabi e le loro maestre della scuola del quartiere, che per proteggersi reciprocamente ritornano alle loro case in gruppo invece che individualmente", ma tace delle violenze commesse dai terroristi contro giovani e giovanissimi israeliani che risiedono negli insediamenti, e dell'indottrinamento all'odio dell'infanzia palestinese 3)accusa l'esercito israeliano di brutalità e di omicidi, in definitiva commessi per proteggere i coloni, ma tace delle inchieste e delle condanne della giustizia militare nei pochi casi accertati e dell'esistenza di una guerra terroristica contro l'intera popolazione israeliana 4) non fa alcuna differenza tra un insediamento come Kiryat Arba, un'enclave ebraica nel cuore di Hebron, e città di migliaia di abitanti come Maale Adumin o Ariel o addirittura i quartieri ebraici di Gerusalemme est 5)sostiene che la presenza degli insediamenti ha fatto fallire gli accordi di Oslo, ma dimentica che la questione poteva essere risolta la momento della firma dell'accordo definitivo e che terrorismo che ha iniziato a colpire subito dopo l'accordo tra Rabin e Arafat.
( a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco il testo, pubblicato da REPUBBLICA del 7 ottobre 2005 (per gli articoli precedenti vedi su Informazione Corretta: "Le "domande" di Vargas Llosa sono solo risposte dettate dal pregiudizio", 2005-10-03 "Vargas Llosa non capisce il terrorismo suicida" 2005-10-04 e "Ora Vargas Llosa se la prende con la barriera difensiva" 2005-10-05 ) Hebron, città palestinese abitata da circa 130.000 arabi e 500 coloni ebrei, si trova ad appena 36 chilometri da Gerusalemme, ma arrivarci è un´avventura dai contorni kafkiani, che può durare parecchie ore. La mappa indica diverse possibili strade per entrare a Hebron, ma in realtà molti di questi ingressi sono bloccati da grandi pietre o da montagne di spazzatura o da sbarramenti militari dove i soldati di guardia, molto gentili, spediscono l´automobilista a un altro posto di blocco dieci o venti chilometri più in là, che naturalmente risulta chiuso anch´esso. Dopo un paio d´ore di questo gioco deprimente abbiamo scelto di fare un tentativo che ci sembrava improbabile: arrivare alla città passando per l´insediamento di Kiryat Arba. Ce l´abbiamo fatta grazie all´atteggiamento persuasivo del fidanzato di mia figlia Morgana, che è ebreo e parla l´ebraico. Kiryat Arba, con i suoi eleganti edifici e viali alberati, negozi, farmacie, giardini e casette impeccabili, tutto di un lindore immacolato, dà l´impressione di essere uno di quei sobborghi residenziali statunitensi per gente benestante, invece di un luogo nel cuore dell´angolo più teso e conflittuale del Medio Oriente. Hebron, invece, è l´immagine della desolazione e del dolore. Parlo del cosiddetto settore H-2, la parte più antica di questa antichissima città che è ancora sotto il controllo militare di Israele, e dove sono incuneati i quattro insediamenti in cui vivono circa cinquecento coloni. In questa zona si trova uno dei luoghi più sacri per l´ebraismo e per l´islam, la cosiddetta Tomba dei Patriarchi, dove, nel febbraio del 1994, il colono Baruch Goldstein prese a mitragliate i musulmani riuniti in preghiera, uccidendo 29 persone e ferendone altre decine. È per proteggere i coloni che tutta l´area è disseminata di sbarramenti, accampamenti e postazioni militari, ed è attraversata da pattuglie israeliane. Ma per come stanno andando le cose, tutta questa mobilitazione fra poco sarà inutile, perché quel settore di Hebron, dove viene portata avanti una sistematica pulizia etnica o religiosa, rimarrà senza abitanti arabi. Il mercato è vecchio di svariati secoli, e a quanto sembra, quando i negozi erano aperti e i compratori affluivano, era multicolore, vario e gremito come quello di Gerusalemme. Ora è vuoto e le porte di tutti i negozi sono sigillate. Le pareti di tutto questo quartiere semivuoto sono piene di scritte razziste, come «Morte agli arabi», e anche di insulti e minacce a Sharon, per il ritiro da Gaza. Di fronte al cimitero c´è una scritta omicida: «Sharon: Rabin ti aspetta qui». Il giornalista del quotidiano Haaretz Gideon Levy segnala in un articolo dell´11 settembre scorso che negli ultimi cinque anni circa 25.000 residenti sono stati strappati alle loro case nella zona H-2 della città. E soltanto nel quartiere di Tel Rumeida, dove si trova l´omonimo insediamento, delle 500 famiglie arabe che ci vivevano ne restano appena 50. La cosa straordinaria è che quelle 50 famiglie non se ne siano ancora andate, sottoposte come sono a una persecuzione sistematica e feroce da parte dei coloni, che gli lanciano contro pietre, che gettano spazzatura ed escrementi sulle loro case, che organizzano spedizioni per invadere le loro abitazioni e devastarle e che aggrediscono i loro bambini quando ritornano dalla scuola, nell´assoluta indifferenza dei soldati israeliani. Non me lo ha raccontato nessuno: l´ho visto con i miei stessi occhi e l´ho udito con le mie stesse orecchie dalla bocca delle vittime. E possiedo un video dove si vede la raccapricciante scena di bambini e bambine dell´insediamento di Tel Rumeida che lanciano pietre e prendono a calci gli scolari arabi e le loro maestre della scuola del quartiere, che per proteggersi reciprocamente ritornano alle loro case in gruppo invece che individualmente. Quando ho parlato di queste cose con amici israeliani, qualcuno di loro mi ha guardato con incredulità e ho visto nei loro occhi il sospetto che stessi esagerando o che stessi mentendo, come sono soliti fare i romanzieri. Si dà il caso che nessuno loro si sia mai recato a Hebron né abbia mai letto gli articoli di Gideon Levy, che considerano il tipico ebreo «giudeofobo e antisemita». Per arrivare alla casa di Hashem al-Gaza non si può passare per la porta principale, perché è bloccata da montagne di spazzatura e pietre che i coloni, installati in un insediamento che sovrasta l´intero quartiere, gli gettano addosso. Bisogna passare da dietro, scalando la ripida collina praticamente a quattro zampe, come una capra, e scivolando in tutta fretta oltre la piccola porta e il giardino, anche loro ricoperti di rifiuti ed escrementi, come anche i tetti. Ma nonostante questo, e nonostante le finestre vengano tenute chiuse per timore dei proiettili degli irascibili vicini, l´interno della casa di Hashem al-Gaza è caldo e confortevole. È un uomo di 43 anni, alto e macilento, che ci offre il tè e ci presenta ai suoi due figli, di sette e due anni. La bambina, Raghad, va a scuola; lei e i suoi cugini Jannat, Yundus, Yusef e Ahmad, anche loro del quartiere, sono stati aggrediti spesso al ritorno da scuola dai bambini dell´insediamento Ramat Ishay. Sono ben allenati e sanno che devono tornare sempre insieme, di corsa e facendo attenzione a sfruttare gli angoli morti della strada. Sanno anche che non devono mai uscire in giardino né nell´orto, e che devono vivere sempre asserragliati in casa. Ma neanche lì si può essere certi di stare al sicuro. Nel gennaio del 2003, un sabato pomeriggio, improvvisamente dieci coloni e tre poliziotti israeliani fecero irruzione nell´abitazione. Chiusero dentro Hashem, la moglie e i bambini, e con una motosega tagliarono tutte le vigne dell´orto, che erano state seminate dagli antenati del padrone di casa. Hashem mi porta fuori per farmele vedere: erano lì, mutilate e circondate di merda e di detriti. «Ma nonostante tutto, né io né la mia famiglia ce ne andremo da qui», afferma con forza. «Se vogliono, possono ucciderci». Quando dico che mi sembra incredibile che i soldati, che hanno una postazione a pochi metri da lì, consentano ai coloni di far subire agli arabi del quartiere questa implacabile persecuzione, Yehuda Shaul mi spiega che le istruzioni che ricevono dall´esercito sono molto precise: devono cercare di persuaderli a non agire contro la legge, ma hanno il divieto di arrestarli. Lui deve saperlo bene: è stato nell´esercito per quattro anni ed è arrivato a rivestire un ruolo di comando. È un ragazzo grosso e passionale, ha soltanto 22 anni ma sembra molto più grande, per l´intensità con cui vive e parla. È uno dei giusti di questo paese. Yehuda è nato in una famiglia molto religiosa, e anche lui lo è stato. In certo qual modo deve continuare a esserlo, perché porta in testa la kippah, anche se adesso, per via di quello che sta cercando di fare, la famiglia ha rotto con lui. Yehuda era un patriota ed entrò in Tsahal per svolgere il servizio militare, pieno di orgoglio ed entusiasmo. Tornato alla vita civile, dopo tre anni di servizio, optò per quello che fanno molti giovani israeliani: un viaggio in India. Un viaggio lustrale, per riposarsi, meditare e ripulirsi la mente. Per lui, quel viaggio significò anche cambiare pelle e idee, e tornare in Israele dominato da un progetto temerario: rompere il silenzio sulla vera funzione dell´esercito a Gaza e nei Territori occupati. «In India, il ricordo del terrore che avevo visto negli occhi dei bambini palestinesi, delle donne delle case in cui facevamo irruzione, degli uomini che picchiavamo o uccidevamo, non mi lasciava dormire. Se non avessi fatto qualcosa, non avrei potuto continuare a vivere». Con un gruppo di 64 soldati come lui, Yehuda Shaul ha fondato l´organizzazione Breaking the Silence (Rompere il silenzio), che ora, mi dice, conta circa 300 aderenti, tutti uomini e donne che hanno servito nell´esercito, decisi a denunciare gli eccessi e le violenze. Pubblicano una newsletter, riuniscono materiale informativo, raccolgono testimonianze, e l´anno scorso hanno organizzato una mostra fotografica a Tel Aviv, visitata da diverse migliaia di persone. Conversiamo all´ombra dei salici in una piazzetta di Hebron, e una signora seduta sulla panchina adiacente all´improvviso riconosce Yehuda e lo insulta, indignata. Lui non si scompone e mi traduce con obbiettività quello che le ha detto: «Mi ha chiamato il disintegratore di Israele». «Non sono un pacifista», mi dice, «e nemmeno un politico. Non sono affiliato a nessun partito politico e mai lo sarò. Quello che fanno i coloni, qui e in altre zone dei Territori, è una distorsione assoluta della mia religione. Noi vogliamo solo aprire gli occhi all´opinione pubblica. La stragrande maggioranza degli israeliani non ha neanche idea degli orrori di cui l´esercito è responsabile nei confronti dei palestinesi. Le torture, gli omicidi, gli abusi che vengono commessi quotidianamente. Gli insediamenti dei coloni sono la fonte di tutti i problemi». Quando avevo sentito dire la stessa cosa, alcuni giorni prima, dalla scrittrice e giornalista Amira Hass, sulla bella terrazza dell´Hotel Aldeira di Gaza - l´unico luogo che si meriti questo aggettivo, in quella sventurata e bruttissima città - non ne ero convinto. Ma ora, passati dieci giorni, credo che la Hass e Yehuda abbiano ragione. Gli insediamenti non sono operazioni passeggere che possono essere smantellate con facilità, come si potrebbe credere dopo aver visto quanto successo a Gaza. Laggiù, le 21 colonie e i loro 8.500 occupanti hanno potuto essere sgomberati grazie a una spettacolare mobilitazione di tutto l´esercito israeliano. Ma in Cisgiordania ci sono quasi duecentomila coloni e centinaia di insediamenti, alcuni dei quali si sono trasformati, come Kiryat Arba, in autentiche città equipaggiate con tutti i servizi e le risorse più moderne, con un livello di vita elevatissimo e armate fino ai denti, abitate in larga maggioranza da militanti religiosi e nazionalisti, convinti di essere lì per realizzare un mandato divino e disposti a qualsiasi cosa per impedire che li privino di una terra che, secondo loro, Dio ha assegnato ad Israele. Se si sommano questi coloni a quelli che occupano gli insediamenti costruiti a Gerusalemme Est e dintorni, la cifra oltrepassa i quattrocentomila. Pochissimi si accorsero di questo fatto quando furono firmati gli accordi di Oslo nel 1993. In quegli accordi non si fa parola della spinosa questione degli insediamenti. «E per questo», dice Amira Hass, «erano destinati a fallire». Lei fu una delle pochissime personalità della sinistra israeliana che non si entusiasmò per quell´accordo che tutti i pacifisti e i progressisti di Israele celebrarono come una grande vittoria. E per questa ragione non è rimasta affatto sorpresa che pochi anni dopo la firma di quegli accordi tutto sia andato per il peggio. Amira Hass è una donna straordinaria, che ho voluto conoscere fin da quando lessi per la prima volta un suo articolo, su Haaretz. Figlia di sopravvissuti all´Olocausto e militanti comunisti, la Hass ha studiato all´Università ebraica di Gerusalemme e ha passato due mesi nella Romania di Ceausescu, esperienza, dice, che l´ha vaccinata per sempre nei confronti del comunismo. Lavora ad Haaretz da anni. Nel 1993 è andata a vivere nei Territori occupati, prima a Gaza e poi a Ramallah, dove risiede attualmente, perché «voleva sapere che cosa si provava a essere schiacciati da un esercito colonizzatore, obbligata a chiedere permessi per lavorare, per viaggiare, per spostarmi all´interno della città stessa». Ha imparato l´arabo, che, mi accorgo, parla con la massima disinvoltura. I suoi articoli sono sempre minuziosamente documentati, e sono tutti animati da un forte respiro morale, da una volontà di giustizia che scuote il lettore. Raccomando a chiunque voglia sapere che cosa significa vivere sotto una dominazione coloniale di leggere il suo «Drinking the Sea at Gaza» (1996), uno dei libri più tristi e vibranti che abbia letto da molto tempo a questa parte. Lei è un altro dei giusti di Israele. Amira Hass è molto pessimista su quello che potrebbe succedere dopo la fine dell´occupazione a Gaza. Non crede che questo processo avrà un seguito. «La Palestina è talmente frastagliata e spezzettata dagli insediamenti che non sarà mai gestibile come entità sovrana». E riguardo alla Striscia di Gaza, la sostiene che finché Israele manterrà il controllo delle frontiere - aeree, marine e terrestri - impedendo agli abitanti di Gaza di poter esportare e commerciare con la Cisgiordania, povertà e disoccupazione rimarranno. Parla con sicurezza e senza la minima truculenza. Ma quando racconta il senso di soffocamento e di claustrofobia che opprime gli abitanti di Gaza, e la disperazione che affligge i profughi, gli occhi le brillano di indignazione. Grazie a lei, passo una delle serate più piacevoli di tutta la mia permanenza nella regione. Mi porta a cenare a casa di una coppia di amici che la ospitano, in un quartiere un po´ periferico della città di Gaza. Lui è ingegnere e la moglie dirige una Ong che lavora per organizzare le donne e incitarle a difendere i loro diritti. Sono giovani, moderni, belli, e, nel mondo di sofferenza e violenza che li circonda, sereni e sensati. Si sono conosciuti a Praga, dove studiavano tutti con una borsa di studio, e da allora, oltre a guadagnarsi da vivere esercitando professioni liberali, sono impegnati politicamente, in difesa di una linea riformista. «Da giovani eravamo comunisti, ma dato che il comunismo è morto, ora siamo quello che rimane: moderati, centristi, riformisti, questa roba qui». Scherzano e non si limitano ad accogliere di buon grado tutto quello che può succedere, ma possiedono un ottimismo talmente genuino che mi contagia: «Sì, sì, c´è speranza, è successo qualcosa di positivo con la partenza dei coloni da Gaza, e non è impossibile che continui a succedere». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.