Come la scuola islamica di via Quaranta impediva l'integrazione dei suoi allievi e insegnava il fondamentalismo
Testata: Il Foglio Data: 05 ottobre 2005 Pagina: 1 Autore: Emanuele Boffi Titolo: «I ragazzi di via Quaranta»
IL FOGLIO di mercoledì 5 ottobre 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 3 dell'inserto un articolo di Emanuele Boffi, ripreso dal settimanale TEMPI, sulla scuola islamica di via Quaranta.
Ecco il testo: Milano. Come ogni buon insegnante anche Martino Rizzotti non disgiunge il giudizio severo sulla preparazione dei suoi studenti ("ai ragazzi di via Quaranta nessuno ha mai insegnato una divisione a due cifre") da un certo sentimento d’affetto per chi sedeva sui banchi davanti a lui ("sono bambini spesso intelligenti e molto disciplinati. Entrare in contatto con loro è come fare un viaggio in un paese straniero. Si scoprono nuove mentalità e costumi diversi"). E così, poiché non si può educare esimendosi da giudizi di merito né si può pretendere di insegnare a prescindere dal contesto e dalla valutazione di un ciclo d’apprendimento, Rizzotti dice sicuro a Tempi che "è stato giusto chiudere via Quaranta. Perché questi giovani imparino qualcosa è necessario introdurli nelle nostre scuole, nel nostro mondo, nella nostra quotidianità". Via Quaranta è la madrassa, la "non scuola" di Milano che l’8 settembre il prefetto Bruno Ferrante ha deciso di chiudere per motivi igienico-sanitari. Per quattordici anni ha sottratto all’obbligo scolastico centinaia di studenti – per la maggior parte egiziani – dai sei ai quattordici anni. Ma del chi fossero i bambini che la frequentavano, quale fosse il loro livello di istruzione e quale la loro visione del cosmo, ben poco finora è trapelato (perché ben poco finora s’era compreso). Fatta eccezione per qualche fulminea intervista tivù ai fanciulli (alla trasmissione "Terra!" su Canale 5 domenica 2 ottobre uno studente ha detto che in via Quaranta gli insegnavano che "gli israeliani sono tutti terroristi"), qualche viscerale lamentela dei genitori arabi degli stessi e l’assicurazione da parte dei responsabili del centro Fajr – da cui dipendeva la loro educazione – che hanno sempre garantito sul loro buon apprendimento, non molto s’è saputo sulla loro reale preparazione. Nell’estate 2003 l’Area disagio del Comune di Milano aveva organizzato quattro corsi di italiano per stranieri. Racconta con estremo disincanto Rizzotti: "Era la prima volta che venivo in contatto con i figli degli integralisti islamici residenti a Milano ed ero molto curioso di capire metodi ed effetti dell’educazione fondamentalista. Mi sentivo preparato: avevo letto molto sull’islam, avevo insegnato, anni prima, in una scuola professionale per ragazzi libici sia in Italia sia a Benghazi, avevo visitato tutti i paesi del Nord Africa e l’Iraq di Saddam Hussein, masticavo un po’ d’arabo classico". L’11 settembre sembrava ieri e, ricorda Rizzotti, si era immersi in un clima in cui "alcuni dei ragazzi ostentavano il distintivo con la foto di bin Laden, parlando con loro si sentiva nelle loro parole un tono d’orgoglio e di rivalsa". Nella scuola media di via Heine partirono dunque i corsi cui dovevano partecipare anche alcuni studenti provenienti dalla madrassa. "I responsabili del Centro Fajr avevano però posto una serie di condizioni: una classe solo per loro, la presenza di un insegnante arabo nella funzione di supervisore, maschi e femmine separati da una tenda e l’intervallo in tempi diversi da quelli delle altre classi". Tali clausole furono tutte accettate dai funzionari comunali eccetto quella riguardante la tenda "e noi pensammo bene, per alleviare il disagio, di mettere tutti i banchi dei maschi su un lato, e quelli delle femmine sull’altro". Era una delle prime volte che dal Centro Fajr si accettava un contatto col mondo esterno. Le autorità italiane, dopo un periodo lungo dieci anni in cui pare che nessuno si fosse accorto dell’esistenza di una "scuola" illegale nella periferia di Milano, erano finalmente riusciti a convincere i responsabili di via Quaranta a offrire ai ragazzi un’occasione per uscire dal loro isolamento. Forse perché realmente convinti di questa necessità o forse – e più probabilmente – perché i corsi erano gratuiti e per far svaporare i sospetti di legami con ambienti terroristici, il corso ebbe inizio. Fu scelta via Heine per permettere ai ragazzi di via Quaranta di recarsi prima delle lezioni in moschea e di ritornarvi subito dopo. "I miei allievi, una ventina, di età compresa fra i 10 e i 15 anni, provenivano da ogni parte di Milano e anche da Sesto San Giovanni e Quarto Oggiaro. Solo due o tre arrivavano usando i mezzi pubblici. Gli altri li passava a prendere un pulmino del centro Fajr, lo stesso che durante l’anno faceva fare loro il tragitto casa-scuola, e che aveva tutti i finestrini oscurati con pezzi di cartone. Questi ragazzi, figli di arabi, ma nati a Milano, non sapevano nulla della città. Quasi tutti non avrebbero saputo giungere in Piazza Duomo". Inoltre, coloro che abitavano più distanti, erano costretti a "levatacce alle 5 e 30 di mattina e a rincasare fra le 7 e le 8 di sera. Questo fatto incideva, naturalmente, molto sulla loro capacità di concentrazione". Molte ragazze, che forse a casa dovevano svolgere qualche lavoro domestico, si presentavano "con profonde occhiaie" la mattina. Tuttavia "nessuno di loro se ne lamentava mai. Avevano una capacità di sopportazione notevole. Come se questo andazzo fosse abituale". Con le prime battute della prima ora di lezione Rizzotti s’accorse che "solo alcuni di loro sapevano esprimersi in un italiano accettabile". Molti non avevano mai frequentato coetanei italiani, a casa parlavano solo in egiziano, vedevano telenovele arabe sui canali satellitari, sapevano a mala pena rispondere alle banali domande che si formulano a un primo incontro: "Di dove sei?" "Egiziano" "Dove sei nato?" "Milano" "Sei mai stato in Egitto?" "In vacanza". Tutto il mondo che conoscevano, conclude Rizzotti, era quello del microcosmo "casa-moschea". A Rizzotti fu raccomandato di non aver contatti con le ragazze ("era meglio che non le avvicinassi nemmeno"). Così, oltre a Rizzotti e al "controllore", in classe operava anche un’altra assistente del Comune con lo specifico compito di aiutare le giovani. La signora – che preferisce mantenere l’anonimato – psicologa di professione, dice a Tempi che "il primo giorno consegnammo loro dei pennarelli per disegnare. Le ragazze si rifiutarono di impugnarli. Nella loro mentalità a scuola non si disegna, non si canta, non si ride. L’unico tipo di istruzione consentita è la ripetizione pedissequa delle parole del professore. In particolare per le ragazze notavamo questa tendenza a ‘fare gruppo’ solo fra di loro, a rimanere appartate in classe anche durante l’intervallo, a parlare poco con gli altri, mai con gli uomini". La psicologa ricorda un episodio significativo: "Una volta proponemmo loro un gioco. Le ragazze bararono e furono scoperte da Rizzotti. Imbarazzate, si avvicinarono al professore – ma a una distanza di almeno un metro – ridendo. Quel giorno era assente il controllore che però, saputo dell’accaduto, il dì seguente, le redarguì per una buona mezz’ora". Anche Rizzotti rammenta l’episodio: "Sorpreso da quella filippica in stretto egiziano, che non avevo capito, gli chiesi delle spiegazioni. Fu piuttosto riluttante a fornirmele. Gli dissi a muso duro che avrebbe fatto meglio a parlarne prima con me e a informarsi sui fatti. Mi guardò in cagnesco". Rizzotti propose ai maschi di giocare a calcio all’intervallo coi coetanei che frequentavano gli altri corsi. "Accettarono, ma alla condizione che le squadre fossero ‘Egitto’ contro ‘resto del mondo’". Le ragazze, invece, rammenta la psicologa, "tutte ricoperte di vari strati di veli in piena estate", uscirono dalla classe durante i minuti d’intervallo "solo dopo qualche giorno. Ricordo che, una volta, chiesero la palla per giocare. Non sapevano lanciarla né afferrarla. Avevano la coordinazione di un infante. Come se fosse la prima volta che giocavano". Erano "molto spaventate da tutto ciò che le circondava. L’unico modo per sentire le loro voci era farle leggere all’unisono. Non volevano essere fotografate perché temevano che una loro immagine, arrivata chissà come in Egitto, avrebbe precluso loro la possibilità di sposare un uomo arabo. Temevano molto le punizioni corporali. Una volta mi videro studiare il libro per l’esame della patente. Incuriosite mi chiesero, nel caso fossi stata bocciata, chi mi avrebbe picchiata". Sui risultati ottenuti Rizzotti e la psicologa concordano che il livello raggiunto fosse vario a seconda dei soggetti e delle capacità. Nota però Rizzotti che, in generale, si può dire che "per la scuola italiana gli studenti di via Quaranta, nati e cresciuti in Italia, erano dei perenni neo-arrivati. E la percentuale di insuccessi di studenti neo-arrivati che si iscrivono alle nostre superiori è altissima". Rizzotti entrò nello stabile di via Quaranta nella prima metà del 2004. Mentre parla traccia su un foglietto la planimetria dell’edificio. "Vi sono uffici, una libreria e uno spaccio dove si vendono le merendine per i ragazzi. Nel seminterrato dell’edifico c’è una moschea con i bagni per le abluzioni. Le aule al piano rialzato sono piccolissime, i banchi – venti, venticinque per classe – quasi si accavallano uno sopra l’altro. Il sistema di riscaldamento funzionava a giorni alterni, c’erano solo un paio di estintori in tutto l’edifico pur essendo la pareti interne fatte di cartongesso. Fosse scoppiato un incendio, non ci sarebbe stato scampo per nessuno". Alcuni privati, collegati con l’Università Cattolica, avevano organizzato un corso di italiano per stranieri. Nelle intenzioni le lezioni dovevano essere frequentate dai genitori degli studenti della madrassa "ma poi questi non avevano tempo per un impegno serale. Così, i miei allievi furono arabi neo-arrivati, fra i 20 e i 30 anni, che giravano attorno alla moschea di viale Jenner, quasi tutti privi di permesso di soggiorno". Il corso permise a Rizzotti di vedere lo stabile di via Quaranta di cui ricorda, oltre a quanto già detto, "l’incredibile sporcizia. Le aule che trovavamo la sera erano piene di cartacce delle patatine fritte, dei dolcetti, degli involucri dei succhi di frutta lasciati dai bambini la mattina. In via Quaranta non c’è una mensa, solo lo spaccio. Questo significa che i bambini non facevano un pasto caldo fino alle sei di sera. I maschi dovevano stare separati dalle ragazze. Ma la carenza di spazio costringeva spesso i loro insegnanti a lasciarli liberi nella moschea sotterranea, privandoli di ore di studio e lezione". A questo c’è da aggiungere la pericolosità della strada che costeggia la scuola, via Quaranta appunto. Nei giorni del sit-in dei genitori contro la chiusura del centro Fajr, un bambino, Samir, è morto investito da un’automobile. "Sono addolorato ma non sorpreso", dice Rizzotti. "La strada è trafficata, le auto sfrecciano veloci, non ci sono segnali che lì potrebbero attraversare dei bambini. Io stesso, quando dovevo passare, avevo paura". Intanto proseguiva il tentativo da parte delle autorità italiane di "normalizzare" via Quaranta. Aly Sharif, il "preside", diede il compito a n’italiana, ex direttrice di scuola elementare, di studiare una via d’uscita. Ne fuoriuscì un piano secondo cui i ragazzi avrebbero ripetuto due volte lo stesso programma: una volta in italiano e una volta in arabo. Lo stratagemma aveva lo scopo di mostrare la buona volontà del centro Fajr e l’apertura alle richieste sempre più pressanti che arrivavano dall’esterno, al tempo stesso mantenendo in pugno l’educazione da impartire ai bambini (infatti i programmi scolastici erano quelli egiziani). Gli insegnanti, pagati pochissimo, erano arabi e avevano il compito di istruire i ragazzi che poi, su base volontaria, sostenevano in aprile l’esame al consolato egiziano. "E’ un esame scritto, un quiz a risposte multiple, molto facile. Quasi nessuno è bocciato" spiega Rizzotti. Solo alcuni studenti si sottoposero "da privatisti" agli esami della scuola pubblica italiana. Il sostanziale fallimento dell’iniziativa portò a cercare un’altra soluzione. All’inizio del 2005 il Cisem (Centro per l’innovazione e la sperimentazione educativa Milano, ente legato alla Provincia) ha messo a disposizione dei fondi per studiare un piano che riuscisse a integrare i programmi egiziani con quelli italiani. Rizzotti, assieme a un altro docente e a due colleghi arabi della scuola di via Quaranta, s’è trovato "per 30 ore attorno a un tavolo per discutere, finalmente, quale iter scolastico fosse più idoneo per questi bambini". Rizzotti ammette che il lavoro fu frustrante: "Ci concentrammo sui programmi delle scuole medie inferiori. due docenti egiziani ci illustrarono i loro e testi che – così dicevano – si adottavano nella madrassa. La proposta cui eravamo arrivati alla fine della ricerca era quella di riorganizzare la scuola media in modo tale che, ogni anno, oltre all’italiano, fosse studiata anche un’altra materia, così da permettere agli studenti di accedere alla scuola superiore italiana possedendo le necessarie competenze linguistiche e culturali". Prima dei noti fatti di cronaca Rizzotti è stato in via Quaranta e ha constatato, "senza sorpresa", che tutto il suo lavoro "non è mai stato applicato. Mi hanno detto che avevano riproposto lo stesso schema dell’anno prima: ripetere il loro programma in due lingue, italiano e arabo". Il suo sforzo era finito nel cestino, punto e stop. "In fondo trattavamo con intenzioni diverse: noi perché si aprissero, loro per proteggersi. Aly Sharif è una persona intelligente che molto si è spesa per questa ‘scuola’. Capiscono, lui e i genitori, che loro ragazzi incontreranno gravi difficoltà nelle nostre scuole, sanno che – aldilà di quel che dichiarano – non torneranno mai in Egitto. Però, la comunità che ha organizzato vuole mantenere la massima distanza possibile con la nostra cultura". Poiché Rizzotti è un insegnante non solo per mestiere ma pure di natura, di fronte a questa carrellata di insuccessi ha deciso di azzardare in prima persona un’iniziativa che potesse, in qualche modo, portare almeno un minimo frutto educativo. "Questa primavera ho trovato dei fondi per insegnare italiano ad alcuni studenti della scuola media di via Quaranta. Le lezioni si svolgevano nel pomeriggio e i miei piccoli allievi, nonostante la stanchezza, erano molto diligenti. Aiutai una ragazza a preparare gli esami di Stato che lei, non essendo egiziana, non poteva sostenere al consolato". La fanciulla "aveva un’intelligenza brillante mortificata da una ignoranza abissale". Non sapeva nulla sull’Egitto né sulla sua religione. Diceva di voler diventare una scienziata "ma non sapeva nemmeno dove si trova lo stomaco, né – in terza media! – sapeva fare una divisione a due cifre". Conosceva bene l’arabo "ma non sapeva dove era nato Maometto, né cos’è la sunna o chi sono gli sciiti". L’esperienza, durata i mesi di marzo e aprile, è poi naufragata per questioni logistiche. Rizzotti ammette di essersi chiesto spesso cosa studiassero in via Quaranta. E la risposta è questa: "Del gran arabo. Che studiassero tutto quanto dichiarato dai loro insegnanti mi appare abbastanza misterioso. Nelle loro aule abbondavano testi religiosi, volumetti di sure del Corano, il metodo di apprendimento è puramente mnemonico". Così, infine, rimane il rimpianto di aver conosciuto una realtà giovanile di ragazzini di passaporto italiano che "vivono in un tunnel", un non-luogo che non è l’Italia e non è l’Egitto. In cui sono "mortificati dall’assenza di quelle relazioni col mondo che stimolano la curiosità e danno un senso al sapere". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.