Ora Vargas Llosa se la prende con la barriera difensiva ignorando il fatto che salva vite umane
Testata: La Repubblica Data: 05 ottobre 2005 Pagina: 14 Autore: Mario Varags Llosa Titolo: «Nei villaggi spezzati dal muro tramonta il sogno di uno Stato»
La terza parte del reportage di Mario Vargas Llosa da Israele e dai territori è dedicata alla barriera difensiva (per le critiche agli articoli precedenti vedi: "Vargas Llosa non capisce il terrorismo suicida", Informazione Corretta del 2005-10-04 e "Le "domande" di Vargas Llosa sono solo risposte dettate dal pregiudizio, Informazione Corretta del 3-10-05). Prevedibilmente, lo scrittore arriva alla conclusione che lo scopo della barriera non è proteggere gli israeliani dagli attentati suicidi ma spezzare la continutà territoriale della Cisgiordania, isolare i villaggi palestinesi realizzando una "pulizia etnica" e inglobare territorio "palestinese" in Israele. Contro questa conclusione stanno i fatti, ignorati o minimizzati da Vargas Llosa: la diminuzione degli attentati suicidi, la salvaguardia della continuità territoriale del futuro stato palestinese (la barriera non divide la Cisgiordania dal punto di vista geografico ed'è stata ipotizzata la costruzione di nuove strade per rendere più agevoli gli spostamenti interni)le disposizioni della Corte suprema che addove, come a Kalikilia, il tracciato della barriera chiudeva all'esterno le città palestinesi ne impostola modifica.
Non preoccupamndosi minimamente di rispondere a queste e ad altre possibili obiezioni anche in questo caso Vargas Llosa fa appello al principio di autorità: "Dopo aver visto... mi sono convinto". Dopo averlo letto, noi non ci siamo affatto convinti.
Ecco l'articolo: Sono le undici di mattina quando arrivo al Liberty Bell Garden, un parco di Gerusalemme: qui trovo il pullman che porterà i pacifisti israeliani a Bilin, a manifestare insieme ai palestinesi del luogo contro la costruzione del Muro. Sharon lo chiama «barriera di protezione», ma per i suoi avversari è «il muro dell´apartheid». Altri pullman partiranno da Tel Aviv, e probabilmente da altre città israeliane, per portare i manifestanti fino a quel villaggio arabo di poche centinaia di abitanti, che dal febbraio scorso è divenuto il simbolo della resistenza pacifica contro il Muro. Quasi ogni venerdì israeliani e palestinesi organizzano qui riunioni di protesta. Secondo Meir Margalit, stavolta, dopo i recenti episodi di violenza dei soldati contro i manifestanti, i partecipanti potrebbero essere anche più numerosi del solito. Meir Margalit è uno dei sopravvissuti del grande naufragio subito dalla sinistra israeliana dopo la delusione dei negoziati di Camp David e di Taba nel 2000 e le bombe dei terroristi suicidi. A 18 anni, quando arrivò in Israele dall´Argentina, Meir era un sionista di destra. Si era arruolato nelle truppe d´assalto di Tsahal, addette tra l´altro alla costruzione di insediamenti nei territori occupati; e aveva contribuito a erigere la colonia di Netzarim a Gaza. Ferito nel 1973, durante la guerra del Kippur, aveva attraversato, durante la convalescenza in ospedale, una crisi profonda. Ne era uscito trasformato in pacifista militante e critico severo dei fautori del Grande Israele. Da allora ha lottato per la restituzione dei territori occupati ai palestinesi. È alla testa di un´associazione impegnata nella ricostruzione delle case degli arabi che il governo israeliano ha fatto demolire, spesso a titolo di rappresaglia contro le famiglie dei terroristi suicidi, ma anche per fare spazio a nuovi insediamenti o alla costruzione del muro. Il giorno prima mi ero recato con lui ad Anata, un villaggio nei pressi di Gerusalemme, dove mi aveva mostrato la casa di Salim Shawamre, demolita cinque volte e cinque volte ricostruita dal suo gruppo. «Noi lottiamo contro la pulizia etnica», mi dice. Ad esempio, cercando di impedire o ritardare il più possibile la confisca delle case e dei terreni degli arabi, con il ricorso a ogni possibile espediente giuridico; o di portare a conoscenza dell´opinione pubblica internazionale gli atti di prepotenza e le spoliazioni. Meir mi spiega che spesso, per giustificare le demolizioni, soprattutto a Gerusalemme Est e nei villaggi arabi, le autorità sostengono che per quelle case non siano stati chiesti tutti i permessi necessari; e col pretesto dell´abusivismo rifiutano ogni risarcimento per le proprietà confiscate in vista della «barriera di sicurezza». Abbiamo visitato poi vari luoghi in cui l´espansione dei coloni israeliani ha prodotto veri sconquassi: come il caso dell´insediamento di Maale Hazait, che si è mangiato il cortile di un collegio, destinato alle attività sportive degli alunni; o il villaggio di Abudis, diviso in due dal muro. Meir mi ha mostrato alcune brecce che si aprono in quell´imponente baluardo di cemento. A volte si vedono donne o anziani infilarsi in quelle aperture strisciando come lombrichi per passare dall´altra parte. «È questa la sicurezza che ci dobbiamo aspettare dal muro?» osserva con ironia. «C´è da chiedersi se servirà davvero a trattenere i razzi Kassam dei terroristi, o se non finirà piuttosto per moltiplicarli. La verità è che questa politica persegue scopi ben diversi: si vuole spezzare la continuità territoriale della Palestina, e cercare di esorcizzare il "fantasma demografico", la paura che un giorno Israele abbia più abitanti arabi che ebrei. Meir, un uomo di poco più di cinquant´anni, dal tono di voce dolce e pacato, è salutato affettuosamente soprattutto dalle donne e dagli uomini meno giovani che affluiscono al Liberty Bell Garden. Mi presenta un signore apparentemente vicino alla settantina, che si è prudentemente munito di una bottiglia d´acqua minerale e di un´ampia visiera per proteggersi dal sole. Meir me lo presenta: «Ecco l´ultimo marxista-leninista, unico superstite in tutto il mondo!» Sul pullman salgono anche molti giovani vestiti nei modi più variegati, dagli hippy agli ecologisti o ai punk, e confusi in mezzo a loro si notano anche alcuni religiosi ortodossi. Molti sembrano piuttosto diretti a un concerto rock. Generalmente in Israele questi contestatori sono tutti accorpati sotto la definizione di «anarchici», che a volte loro stessi rivendicano, tanto per alimentare i malintesi. Ma sarebbe più giusto chiamarli idealisti. Non c´è altro nome per il loro impegno donchisciottesco - a fronte della marcata svolta a destra del Paese - contro la costruzione di questo muro, che non solo ha l´appoggio dell´intero arco dell´establishment politico, dai laburisti al Likud, dai religiosi ai laici, ma anche quello di una robusta maggioranza di cittadini. In verità, in Israele esiste ancora una sinistra, per quanto fortemente ridimensionata in questi ultimi anni: una sinistra che mantiene vivo l´idealismo, la passione per la verità e per il senso etico in politica, oramai scomparsi da quasi tutte le sinistre del resto del mondo. Contrariamente a quanto si crede, quella del muro non è stata un´idea di Sharon, ma del partito laburista. Sharon e il Likud l´avevano contestata con accanimento, dato che credevano nel grande Israele; e quindi la costruzione di una barriera equivaleva ad ammettere il principio - per loro intollerabile - di una Palestina indipendente. Me lo hanno confermato tre persone molto vicine a Sharon all´epoca del dibattito su questo progetto: i due generali Uzi Dayan e Ramat Cal e il consigliere per la sicurezza Efraim Halevy. «Quando alla fine si è rassegnato ad accettare il muro - ha aggiunto uno di loro - ha posto come condizione di essere lui, Sharon, a decidere come costruirlo». Finora in Cisgiordania la costruzione è arrivata a metà. E´ un poderoso baluardo di cemento alto otto metri, Il "muro" è in massima parte una rete metallica, solo in parte è in muratura. lungo il quale sorgono a intervalli le torri blindate di sorveglianza, attrezzate con armi sofisticate. Complessivamente sarà lungo 650 km e completato da riflettori, telecamere, barriere elettrificate e in alcuni punti anche da trincee con doppie o triple file di ringhiere. Tutto questo è giustificato da ragioni di sicurezza, come mi assicurano i due generali già menzionati; me lo ripete Shimon Peres, e lo sostengono praticamente tutti gli israeliani dell´establishment che ho avuto modo di incontrare. A riprova si cita il fatto che dalla sua costruzione il numero degli attentati suicidi si è drasticamente ridotto. Ebbene: dopo aver percorso buona parte del Muro e averlo attraversato nei due sensi almeno un dozzina di volte - un´esperienza da incubo, che non dimenticherò mai - sono arrivato a credere che le vere ragioni siano altre. Con la costruzione del Muro, Ariel Sharon si propone di far guadagnare a Israele una parte importante dei territori occupati, isolando l´una dall´altra le città arabe, per cui ogni città diventa poco meno che un ghetto. Con la Cisgiordania così frazionata, un eventuale Stato non potrebbe nascere che asfittico e condannato a una totale inerzia economica e amministrativa. Ma l´alienazione di una parte del territorio non è certo il peggiore dei guasti provocati dal Muro. Per proteggere gli insediamenti dei coloni, la sua costruzione segue andamento a zig zag, una strana linea che va e viene e si rigira su se stessa, irrompendo brutalmente nelle borgate e nei villaggi, smembrandoli in due o tre parti, dividendo le famiglie, separando gli alunni dalle loro scuole, i contadini dagli orti, i malati dai medici e dagli ospedali, i lavoratori dai luoghi di lavoro, complicando e stravolgendo la vita degli uomini e delle donne. Alcune città - come Kalkilia, nel Nord della Cisgiordania - sono state addirittura accerchiate dal Muro, separate dal resto del mondo e dai tre villaggi che ne dipendono per la loro sussistenza. Il 15 settembre la Corte Suprema di Israele ha imposto la modifica di un tratto di 13 km del muro, per alleviare l´attuale stato di strangolamento della città. Ma così facendo, la Corte avalla al tempo stesso la costruzione del muro in quanto tale, in contrapposizione con la risoluzione emessa nel luglio scorso dalla Corte di giustizia internazionale dell´Aja, che lo aveva dichiarato illegale e ordinato il suo abbattimento e il risarcimento dei danni subiti da migliaia di palestinesi. Peraltro, il governo di Sharon aveva già dichiarato la sua totale indisponibilità a dare seguito a questa sentenza. La sorte di Kalkilia è identica a quella di Bilin e di innumerevoli villaggi più piccoli, che il Muro ha praticamente condannato a una morte lenta. Bisogna averle viste da vicino per comprendere fino a che punto queste situazioni possono essere disumane: i bambini obbligati a sottostare a code lunghissime per poter raggiungere la scuola, la disperazione delle donne costrette ad aspettare ai valichi anche tre o quattro ore, con le pesanti borse della spesa, sotto un sole spietato. E a volte, all´improvviso e senza la minima spiegazione, le postazioni vengono chiuse fino al giorno dopo, lasciandole nell´impossibilità di tornare a casa o di raggiungere i luoghi di lavoro. Per di più esiste per i palestinesi l´obbligo di richiedere permessi speciali per ogni minimo spostamento, per cui in pratica si vedono preclusa la possibilità di lavorare in territorio israeliano. Con le complicazioni a volte indescrivibili che comporta, per gli scambi commerciali come per la ricerca di un lavoro fuori dal luogo di residenza, il Muro aggrava la disoccupazione, comprimendo ulteriormente un livello di vita già molto basso: si è calcolato che taglierà fuori dalle comunicazioni più di 100.000 palestinesi. E´ difficile descrivere la frustrazione, l´amarezza, le umiliazioni subite da questa popolazione, punita indiscriminatamente e ciecamente per gli attentati di una piccola minoranza di criminali fanatici. In verità, sembra davvero poco plausibile che il modo migliore per battere il terrorismo sia quello di sprofondare tutto un popolo nella miseria e nella disoccupazione, in un regime di costrizioni e vessazioni che ha molto in comune con i campi di concentramento. Non si può non pensare che dietro a questo minuzioso sistema di controlli, a queste pratiche destabilizzanti, vi sia in realtà l´intenzione di demoralizzare un´intera società, di distruggerla psicologicamente. E spingerla così alla disperazione, e ad atti di rivolta insensati, che delegittimano la loro causa e consentono a uno Stato potente e praticamente invulnerabile quale é oggi Israele di imporre le sue condizioni di pace - con l´unica alternativa di continuare a subire le vessazioni, fino all´anomia e al disfacimento. E´ per protestare contro questo stato di cose che i pacifisti delle vecchie e nuove generazioni salgono sul pullman che li porterà a Bilin. Io li seguo su un´auto noleggiata con Meir Margalit, mia figlia Morgana e Ricardo Mir de Francia, un giovane giornalista spagnolo. All´ultimo momento sono circolate voci inquietanti: sembra che per far fallire la manifestazione il governo abbia decretato lo stato d´assedio in quella zona. Si è pensato di cambiare itinerario evitando la linea retta, nell´ingenua illusione di schivare i posti di blocco militari. Ma in prossimità dell´insediamento di Upper Modiin una pattuglia ci sbarra la strada, obbligandoci a un nuovo giro vizioso. Buona parte della mattinata è assorbita da questi andirivieni, su un terreno bruciato dal sole e irto di asperità e rilievi rocciosi. Bilin ci appare come un miraggio che svanisce non appena ci avviciniamo. Le manifestazioni a Bilin sono iniziate il 20 febbraio scorso, quando i trattori dell´esercito israeliano hanno divelto i primi mandorli e ulivi nei pressi di questo borgo di 1700 abitanti, per iniziare la costruzione di un muro che avrebbe diviso per sempre i contadini dai loro orti e dai terreni su cui facevano pascolare il loro bestiame. Dopo la preghiera nella moschea, i manifestanti sfilano lungo la traiettoria del Muro; cantano canzoni di protesta, lanciano sassi, e a volte improvvisano spettacoli, coinvolgendo i bambini del villaggio. Non sembra che tutto questo possa mettere in pericolo lo Stato di Israele. Eppure le reazioni sono sempre più intemperanti, fino alle aggressioni fisiche, al lancio di bombe lacrimogene, o anche, agli spari con pallottole di gomma. Di fatto, il governo israeliano ha intuito che questi piccoli gruppi potrebbero crescere, e magari risuscitare il movimento pacifista israeliano, promuovendo la solidarietà internazionale e mettendo a repentaglio i vantaggi che pensa di ricavare da quel mostruoso serpente di cemento. Questa settimana l´esercito israeliano ha deciso di bloccare la manifestazione sul nascere. Alcuni amici arrivati a Bilin la sera prima o all´alba si tengono in contatto telefonico con Meir Magalit, e lo informano che i soldati hanno lanciato bombe lacrimogene all´interno della moschea, causando vari feriti. E´ stata chiamata un´ambulanza. Frattanto siamo arrivati su un´altura vicina alla collina sul cui fianco appaiono le piccole case di Bilin; l´eco degli spari arriva fin qui. Alcuni agenti in civile, irritati, ci avvertono che nella zona è stato decretato lo stato d´assedio, con divieto assoluto di avvicinarsi al villaggio. Ma gli occupanti del pullman scendono e si lanciano attraverso i campi per raggiungere Bilin a piedi. E´ emozionante vedere la determinazione con cui i più anziani scendono a valle e poi risalgono su quel terreno impervio e pieno di rovi, aiutandosi coi bastoni, i fazzoletti legati intorno alla testa. Alla fine sono presi di mira dai lanci di lacrimogeni e intercettati a un posto di blocco; alcuni vengono fermati. Ma almeno un centinaio tra ragazzi e ragazze riescono a sfuggire, e li vediamo saltare come capre, già all´altezza delle prime case di Bilin. Ricardo e Morgana li seguono, mentre Meir ed io osserviamo la scena da un´altura. Ma poi Meir mi convince dell´inopportunità di tenerci a distanza dagli eventi. Dunque scendiamo fino al luogo degli scontri: c´è qualche colluttazione tra i manifestanti e i soldati, i quali evidentemente hanno l´ordine di lasciare in pace giornalisti e fotografi, e se la prendono solo coi pacifisti. Alcuni vengono fermati e caricati sulle camionette. Cosa li aspetta ora? Me lo spiega Claudia Levin, cineasta israeliana di origine argentina che sta girando un documentario su Bilin. E´ riuscita a sfuggire ai soldati approfittando di un attimo di confusione e ci chiede di portarla via di lì. Non è la prima volta che l´arrestano. Di solito i militari schedano i fermati, li multano, ma poi generalmente li rilasciano il giorno stesso, a meno che siano accusati di averli aggrediti - nel qual caso finiscono sotto processo. Claudia ci racconta che il caso di Bilin è eccezionale: sono rare le situazioni in cui israeliani e palestinesi collaborano in azioni congiunte. E´ probabilmente per questo che qui il governo ha deciso di usare la mano dura. «Non ci trattano con l´affetto che hanno dimostrato ai coloni quando li hanno costretti ad andarsene da Gaza», dice con ironia. E´ una giovane donna aperta e comunicativa; ci racconta delle molte serate trascorse a Bilin, a filmare scene di bambini che improvvisavano piccoli spettacoli da rappresentare alle manifestazioni del venerdì. «Per loro è anche un divertimento», aggiunge. Benché a volte finiscano a terra, semiasfissiati dal gas o tramortiti dalle pallottole di gomma». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.