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La Repubblica Rassegna Stampa
03.10.2005 Le "domande" di Vargas Llosa sono solo risposte dettate dal pregiudizio
un fazioso articolo dello scrittore peruviano su Ariel Sharon e il dsimpegno da Gaza

Testata: La Repubblica
Data: 03 ottobre 2005
Pagina: 1
Autore: Mario Varga Llosa
Titolo: «Tra pace e guerra santa il piano segreto di Sharon»
LA REPUBBLICA di lunedì 3 ottobre 2005 pubblica in prima pagina e alle pagine 16 e 17 un reportage di Mario Vargas Llosa, che dovrebbe approfondire i temi del ritiro da Gaza, delle prospettive del processo di pace tra israeliani e palestinesi e interrogarsi sulla "svolta" politica, da molti giudicata "misteriosa" e persino "incomprensibile" di Ariel Sharon.

Scriviamo "dovrebbe" non casualmente: perché, di fatto, l'articolo dello scrittore peruviano è tutto fuorché il resoconto obiettivo di un'onesta ricerca della verità.
Il titolo che gli è stato dato in prima pagina, "Tra pace e guerra santa il piano segreto di Sharon", con l’allusione a presunte intenzioni nascoste del premier israeliano e ai suoi presunti bellicismi e fanatismi religiosi, è sicuramente più fedele di quello interno, "La scelta surreale di Ariel il falco che cerca la pace", che appare neutrale verso il leader israeliano, se non addirittura a lui favorevole.

Llosa esordisce con un' affermazione perentoria: Sharon avrebbe "contribuito più di chiunque altro a far fallire" gli accordi di Oslo. Più di chiunque altro ? Sharon in realtà non ha responsabilità nel fallimento degli accordi di Oslo, dovuto al terrorismo e alla sostanziale indisponibilità al compromesso della leadership palestinese, ma sostenere che tale responsabilità sia superiore a quella di chiunque altro, compresi lo sceicco Yassin e Arafat, sembra semplicemente folle.

A sostegno della sua tesi, per di più, Llosa non può portare che un argomento del tutto inadeguato, in quanto, a sua volta, fondato su un falso. Scrive, infatti, che Sharon avrebbe "provocato la seconda intifada, la sollevazione armata dei palestinesi" con "la sua celebre passeggiata sulla Spianata delle Moschee". In realtà più volte esponenti dell’Autorità palestinese hanno chiarito alla stampa araba che la violenza, per altro iniziata prima della "passeggiata", era stata pianificata subito dopo il fallimento del negoziato di Camp David.

Preparato così il campo Llosa può formulare le domande cui l’articolo dovrebbe cercare di rispondere. Posto che Sharon sia stato sempre il nemico principale di ogni soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese, si chiede Vargas Llosa, com’è "possibile" che sia così repentinamente cambiato decidendo di consegnare Gaza ai palestinesi?

Qui il lettore cha abbia un minimo di orecchio per la retorica dovrebbe aver già capito dove Vargas Llosa voglia andare a parare. La descrizione così esageratamente negativa di Sharon ha sicuramente uno scopo: quello di preparare a una risposta che renda nuovamente coerenti il passato del premier israeliano e il suo presente. In definitiva, si dirà, Sharon non è affatto cambiato, il disimpegno da Gaza non è che un inganno, volto a coprire gli obiettivi di sempre.

Infatti, dopo aver lungamente riportato le contrastanti opinioni udite durante colloqui con esponenti israeliani e palestinesi della politica e della cultura , lo scrittore approda alla sua conclusione: "la restituzione di Gaza non è quello che sembra". Lo Stato palestinese che infine inevitabilmente sorgerà sarà soltanto "un "simulacro", con confini imposti da Israele attraverso lo stratagemma dei ritiri unilaterali.
Tale progetto godrebbe del sostegno degli israeliani a causa (testuale) della "paranoia" e dell’" astio" che la "pressione internazionale" e gli "attentati suicidi" avrebbero causato in loro.
Ma il "piano segreto di Sharon" avverte Vargas Llosa, potrebbe essere "frustrato" da molti "fattori". Tra questi (qui lo scrittore si fa minaccioso) "il più terribile è il terrorismo suicida".
Gli israeliani sono avvertiti, dunque: l’"astio" e la "paranoia" che il terrorismo avrebbe generato in loro portandoli a sostenere il "piano segreto di Sharon", potrebbe ora ritorcersi contro di loro,divendendo la causa remota di una nuova ondata di terrore palestinese.

Quest’opinione è avvicinata da Vargas Llosa al giudizio espresso Shlomo Ben Ami, ex ministro degli Esteri del governo Barak sul disimpegno da Gaza.
Ben Ami, in realtà, inserisce le sue considerazioni in un contesto storico che Vargas Llosa trascura deliberatamente o distorce (quando scrive che il terrorismo ha prodotto "paranoia"): se Israele sceglie l’unilateralismo, sostiene il politico israeliano di sinistra, è perché ha perso fiducia negli interlocutori palestinesi, dopo il fallimento Camp David e l’ondata di violenza che ne è seguita.

Rifarsi a Ben Ami, tuttavia, consente a Vargas Llosa di giustificare la sua opinione sul ritiro semplicemente appoggiandosi a un’ "autorità", senza misurarsi con la realtà del terrorismo che ha flagellato Israele negli ultimi 5 anni, dell’incapacità dell’Anp a governare e a disarmare Hamas e gli altri gruppi che hanno come obiettivo la distruzione di Israele; di tutto ciò, insomma, che rende l’unilateralismo fin qui adottato da Israele una scelta dettata dalle circostanze e non da un qualche oscuro progetto di dominio e di inganno.

L’intero articolo, in definitiva, sembra fondarsi sul principio di autorità. Vargas Llosa scrive che il ritiro da Gaza è un inganno, ma non si sforza nemmeno di provarlo. Non serve perché con tutta evidenza lo scopo del lungo "reportage" è un altro: permettere ai "progressisti" di citare il grande scrittore Vargas Llosa quando dichiarano che il ritiro da Gaza è solo un inganno di Sharon. Senza sapere perché.
Non giornalismo, ma chiacchericcio politicamente corretto.

( a cura della redazione di Informazione Corretta)

Ecco il testo:

Non so quanti israeliani mi hanno raccontato la storia della mamma di Ariel Sharon, che quand´era piccolo lo cullava cantandogli all´orecchio un ritornello: «Non ti fidare mai degli arabi…». Da allora quest´insegnamento materno è stato sempre la spina dorsale della sua politica. Ma a quanto pare, ora il primo ministro israeliano ha rinunciato a un´altra delle idee di fondo che fino a poco tempo fa presiedevano a ogni sua azione pubblica: la costruzione del Grande Israele, uno stato ebraico nei confini biblici, comprensivo della Striscia di Gaza e dei territori occupati, da lui sempre designati con i nomi di Giudea e Samaria. Ariel Sharon è stato il grande promotore degli insediamenti dei coloni, che si sono moltiplicati come funghi in Cisgiordania, e il più accanito avversario degli accordi di Oslo (1993- 1995) tra il governo di Yitzhak Rabin e l´Olp di Arafat, che ha contribuito più di chiunque altro a far fallire.
Cos´è accaduto ad Ariel Sharon, l´uomo che nel 1982 ha guidato l´invasione del Libano, e più tardi, con la sua celebre passeggiata sulla Spianata delle Moschee, ha provocato la seconda intifada, la sollevazione armata dei palestinesi? Cosa lo ha indotto ad annunciare all´improvviso la decisione israeliana di ritirarsi da Gaza e smantellare i 21 insediamenti di coloni, più altri quattro in Cisgiordania? Come ha potuto diventare da un giorno all´altro un «traditore» per importanti settori della destra israeliana che vedevano in lui il loro idolo, e in un insperato alleato di moderati e pacifisti dei quali fino a ieri era la bestia nera?
Ho fatto queste domande a decine di israeliani e palestinesi, ottenendo risposte quasi sempre molto diverse. C´è chi vorrebbe spiegare tutto con il tentativo di Sharon di bloccare un´indagine giudiziaria a suo carico per abuso d´ufficio e corruzione: «Con quale coraggio un procuratore generale metterà ora sotto accusa uno statista applaudito dal mondo intero, che ha l´appoggio di due terzi degli israeliani?».
E c´è invece chi pensa che abbia voluto scongiurare le aspettative destate nell´opinione pubblica internazionale dagli accordi firmati due anni fa a Ginevra da un prestigioso gruppo di palestinesi e israeliani, capeggiati dagli ex ministri Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, che hanno avuto entrambi un ruolo importante nei negoziati del 2000 a Camp David e in quelli del 2001 al centro balneare egiziano di Taba.
«Sharon è un uomo pratico, un realista», mi dice il suo ex avversario e leader del partito laburista Shimon Peres, divenuto oggi suo alleato. «Le ragioni non hanno importanza. L´importante è che lo abbia fatto. E´ un passo verso la pace, e per questo lo appoggio. Tra qualche tempo passeremo ai negoziati con i palestinesi per una soluzione globale e definitiva». Con i suoi 82 anni portati splendidamente, e 60 anni di vita politica alle spalle, Shimon Peres è oggi molto più che un uomo pubblico: è un´icona, un mito, l´ultimo dei grandi pionieri sionisti tuttora in primo piano. E´ un uomo raffinato, amabile e di buone letture. Dieci anni fa abbiamo trascorso insieme un paio d´ore su una terrazza di Gerusalemme, parlando di Flaubert. Quando gli riferisco le dure critiche di alcuni suoi compagni di partito per la sua alleanza con Sharon, con la quale rischia, secondo loro, di distruggere il laburismo consegnando alla destra il monopolio della vita politica israeliana, la sua risposta è lapidaria: «La pace è più importante del partito laburista.» Se non fosse assolutamente certo che si stia aprendo una nuova, «seria» prospettiva di pace, non resterebbe al governo. Ma quando gli chiedo se crede che quest´accordo israelo-palestinese in cui ripone tanta fiducia si possa fare, più o meno, sulla falsariga degli accordi di Ginevra dell´ottobre 2003, si mette a ridere: «Quel documento è poesia. La pace con i palestinesi va scritta in prosa». Dal suo ufficio si vedono i grattacieli che sorgono ovunque a Tel Aviv, città simbolo dell´enorme progresso economico del paese. «Sì, in Israele abbiamo raggiunto una grande prosperità», riconosce senza entusiasmo. «Ma le disuguaglianze tra ricchi e poveri sono enormi».
Il suo ottimismo sull´iniziativa di Sharon è condiviso soprattutto dagli israeliani di sinistra, iscritti o meno al partito, ma anche da scrittori e intellettuali come David Grossman o Amos Oz, che hanno dedicato alla lotta per la pace buona parte della loro vita. Ho incontrato Grossman in un caffè di Gerusalemme che anni fa fu distrutto da un attentato terroristico: si chiamava Momentum. Ora è stato ricostruito con il nome di Restobar, ed è affollato di giovani. E´ uno dei pochi luoghi di Gerusalemme dove i religiosi, che non ricordavo tanto presenti e opprimenti, brillano per la loro assenza. «È stata una svolta insperata; nessuno si aspettava che potesse venire da quella parte» dice Grossman. «È un´iniziativa da sostenere, perché va nella direzione giusta. E per di più in un momento che appariva nero per le prospettive di pace ».
Ho conosciuto Amos Oz una trentina d´anni fa al Kibbutz Julda, quand´era ancora un kibbutznik impegnato per mezza giornata in lavori manuali, e nel resto del tempo a scrivere romanzi. «È un caso di surrealismo israeliano» mi spiega. «Di Sharon dicevamo che se un giorno avesse preso il potere avremmo dovuto fuggire da Israele. Mentre oggi è proprio lui a rappresentare la speranza per una soluzione del conflitto; e a noi pacifisti non resta altro che difenderlo dai suoi compagni di partito: sarebbero capaci di sostituirlo alla testa del Likud con Benjamin Netanyahu, che lo accusa di essere passato dalla parte del nemico. Chi avrebbe mai immaginato che un giorno la lotta per la pace sarebbe passata per Ariel Sharon?».
Conversiamo nella sua casa, luminosa e piena di libri nelle più diverse lingue, nei pressi di Tel Aviv. Qui trascorre una parte dell´anno; e nei mesi restanti abita nel deserto, non lontano da Beersheva, dove da alcuni anni insegna all´Università. E´ qui che si isola per scrivere e per sottrarsi alle servitù del successo (è stato recentemente insignito del Premio Goethe in Germania). Anche per lui, l´evacuazione di Gaza ha avviato una dinamica che potrebbe condurre a un accordo con i palestinesi. «Per la prima volta, ebrei e arabi hanno finito per accettare l´idea di due stati indipendenti su questo territorio. E´ una prospettiva che a molti non piace affatto, e l´accettano con tristezza, con amarezza. Ma tutti hanno compreso che non c´è altro da fare. E´ un grande passo verso un accordo, che presto o tardi si realizzerà. Avremo due stati, uno israeliano e l´altro palestinese. Non so davvero perché proprio Sharon abbia lanciato quest´iniziativa. Ma l´importante è che abbia messo in moto questo processo. Ora bisogna mantenerlo vivo, e non lasciare che torni ad arenarsi».
Amos Oz è uno degli scrittori impegnati del nostro tempo, nell´accezione che Jean-Paul Sartre diede a questo termine negli anni Cinquanta: un autore per il quale scrivere è a un tempo impegno artistico e responsabilità civile e morale. I suoi saggi e le sue opere narrative riflettono la problematica israeliana, e sono spesso severe requisitorie contro gli abusi e i crimini causati dall´occupazione di Gaza e dei territori. E una difesa costante del carattere laico e democratico dello stato d´Israele, contro l´estremismo ultraortodosso di chi vorrebbe imporre al paese una svolta in senso religioso. A suo parere, «i religiosi nazionalisti che vivono negli insediamenti della Cisgiordania e sognano il Grande Israele sono pericolosissimi». D´altra parte, Amos Oz non ha mai cessato di essere sionista, e vede con scetticismo la posizione di certi israeliani, quali ad esempio la giornalista Amira Hass o lo storico Ilan Pape, per i quali l´idea sionista – quella di uno Stato esclusivamente ebraico - è all´origine di tutti i problemi, dalla xenofobia al razzismo e al nazionalismo, che frappongono ostacoli insuperabili a qualunque accordo. Il loro progetto è quello di uno stato laico e binazionale, ebraico e palestinese. «Forse un giorno, in un futuro molto lontano. Ma nell´immediato, questa è un´utopia. Una volta, a Oslo, qualcuno ha chiesto il mio parere in proposito; e io gli ho risposto con un´altra domanda: Come mai la Norvegia e la Svezia, che hanno tante cose in comune, non formano un solo stato? Eppure tra i vostri due paesi non c´è nemmeno l´ombra della violenza, dell´odio, del sangue, del risentimento che segnano il conflitto israelo-palestinese. Dunque, intanto lottiamo per il riconoscimento di uno stato palestinese da parte di Israele: questa è un´ipotesi realista. Poi si vedrà».
Secondo tutti i sondaggi, l´evacuazione di Gaza e dei quattro insediamenti della Cisgiordania ha l´appoggio maggioritario degli israeliani. Devo dire però che nelle due settimane trascorse in Israele ho visto migliaia di macchine ornate di nastri arancione in segno di solidarietà con i coloni, e pochissimi nastri azzurri – il colore dello schieramento favorevole all´evacuazione. Questo non vuol dire che i sondaggi dicano il falso; ma evidentemente l´atteggiamento dei coloni e dei loro sostenitori – cioè di tutta l´estrema destra israeliana – è molto più militante di quello dei moderati. Sentendosi «traditi» dal leader del Likud, arrivato al potere grazie ai loro voti, reagiscono con l´impeto del toro da corrida quando è colpito dalla pica e dalle banderillas.
Anche tra i dirigenti palestinesi che ho incontrato c´è chi vede nell´evacuazione di Gaza una tappa verso un accordo integrale. Come Nabil Amir, ex ministro dell´informazione dell´autorità palestinese e severo critico di Arafat, scampato a un attentato della brigata al-Aqsa, una fazione di al Fatah. Lo incontro nella sua elegante casa nei pressi di Ramallah, dove vive sotto la protezione di una corazza di guardaspalle. «E´ uno sviluppo molto positivo. E´ la prima volta che Israele compie un passo del genere, e dobbiamo approfittare di quest´opportunità. A mio giudizio, il fattore decisivo è stato il presidente Bush, che ora deve continuare a fare pressione su Sharon. Oggi le condizioni per negoziare sono migliori che in passato. L´autorità palestinese sta compiendo ogni sforzo per ridurre la corruzione che proliferava sotto il dominio di Arafat. Così potremo ricuperare il prestigio perduto. Chi aderisce a Hamas non lo fa per motivi religiosi, ma per disperazione, per mancanza di lavoro, per fame, per la claustrofobia generata dall´occupazione e dagli insediamenti. Noi non vogliamo uno stato islamista. Oggi il nostro paese è il più libero di tutto il mondo arabo. Lo Stato palestinese sarà una democrazia laica e pluralista».
Altri però la pensano diversamente. Come la parlamentare Lana Ashrawi, o il dottor Haidar Abdel Shafi, padre del nazionalismo palestinese laico, o come Yasser Abed Rabbo. Secondo loro, Ariel Sharon non ha la minima intenzione di completare l´evacuazione di Gaza con un negoziato in tempi più o meno ravvicinati. E vedono nell´iniziativa del primo ministro solo un modo per guadagnare tempo, per ragioni di politica interna; o anche una manovra diversiva, in vista di rafforzare l´occupazione della Cisgiordania. Un personaggio carismatico come Mustafa Bargouti, Segretario generale dell´iniziativa Nazionale Palestinese (o al-Mubadara), un partito politico tra i cui fondatori figura anche Edward Said, crede che quella di Gaza sia «una pura e semplice concessione tattica di Sharon. Non si tratta nemmeno di un vero e proprio ritiro da Gaza, dato che Israele mantiene il controllo dei confini terrestri, dello spazio aereo e di quello marittimo, e soprattutto delle fonti d´acqua; e può quindi continuare ad asfissiare la popolazione, impedendole di lavorare, di esportare, di collegarsi con i territori palestinesi della Cisgiordania. E se vuole, può anche farla morire di sete».
«D´altra parte, aggiunge, che stupenda operazione di pubbliche relazioni davanti agli occhi del mondo! Quei coloni straziati dal dolore, costretti ad abbandonare le loro graziose casette coi giardini fioriti, che piangono e pregano abbracciati ai soldati israeliani, anche loro in lacrime e in preghiera. Che spettacolo commovente! All´improvviso Ariel Sharon è diventato un pacifista, un valoroso capo di governo che affronta i fanatici del suo paese guadagnandosi l´ammirazione del mondo intero. Che pantomima!»
Chi ha ragione? L´evacuazione di Gaza è davvero il principio della fine dell´occupazione israeliana dei territori conquistati nel 1967, al termine della guerra dei sei giorni? O è solo una mossa per consentire ad Ariel Sharon di rafforzare il suo dominio coloniale in Cisgiordania, rinviando alle calende greche un negoziato nel quale non ha mai creduto, dato che fin dalla culla gli hanno insegnato a non fidarsi degli arabi?
A mio parere, la tesi più vicina alla verità è quella di Shlomo Ben-Ami, già ministro degli esteri di Ehud Barak, che ha preso parte ai negoziati di Camp David e di Taba, ed è uscito dal partito laburista in seguito alla sua alleanza con Sharon. E´ sempre stato un uomo di pace, e una delle teste più lucide nell´analizzare le prospettive che si aprono dopo l´evacuazione di Gaza. Non crede in un negoziato imminente, perché a suo parere Sharon non lo vuole. E non lo vuole neppure l´opinione pubblica israeliana, che non è più quella dei tempi di Oslo, o dei negoziati di Camp David, dove Arafat respinse l´offerta più ampia mai avanzata da Israele: la restituzione del 97% dei territori occupati e la condivisione dell´amministrazione di Gerusalemme, dove lo Stato palestinese avrebbe avuto la sua capitale. Oggi la maggioranza degli israeliani pensa che la soluzione del conflitto sarà raggiunta attraverso decisioni unilaterali da parte israeliana, come nel caso di Gaza. «Sharon ha rinunciato al suo sogno del Grande Israele e si rassegna allo Stato palestinese. Ma questo Stato non risulterà da un negoziato. Sarà lo stesso Sharon ad imporlo ai palestinesi, e in condizioni tali che non possa rappresentare il minimo rischio per la sicurezza di Israele: ma sarà uno Stato inoperante, per non dire impossibile».
Conversiamo in un ristorante della vecchia Tel Aviv, il Carmella, in un edificio tutto colonne, costruito nel 1927. «Un´architettura, osserva Shlomo Ben Ami, che potremmo definire un compromesso tra le nostalgie polacche dei sionisti dei primi anni del XX secolo e lo spirito mediterraneo». Ha studiato storia a Oxford, e parla uno spagnolo impeccabile, che ha appreso da bambino a Tangeri, dove è nato. Le sue parole di quella sera mi hanno accompagnato per tutta la durata del mio viaggio, e oramai sono convinto della fondatezza dei suoi sospetti.
La pressione internazionale, gli attentati dei terroristi suicidi che hanno causato un migliaio di morti in Israele durante la seconda intifada, la paranoia e l´astio che tutto questo ha generato tra gli israeliani, e fors´anche le sue proprie necessità di sopravvivenza politica hanno indotto Sharon a rinunciare a Gaza: un territorio dove la sicurezza 8.500 coloni, circondati da un milione e trecentomila palestinesi, creava difficoltà crescenti a Israele. Ma la restituzione di Gaza non è quello che sembra. Senza una serie di misure complementari per un´apertura dei confini, un´intensa attività economica e la possibilità di scambi costanti con la Cisgiordania, i suoi abitanti continueranno a vivere oppressi dalla disoccupazione, dalla fame, dalle frustrazioni e dalla violenza. Difficilmente l´autorità palestinese può garantire l´ordine, quando molti degli abitanti di quelle topaie che sono i campi profughi finiscono nelle braccia di Hamas per sfuggire alle loro condizioni di vita. D´altra parte, anche se in una fase più o meno prossima Israele non potrà evitare di riconoscere lo Stato palestinese, con la costruzione del muro di protezione, e con gli insediamenti che sottraggono alla Palestina buona parte delle sue terre, questo Stato finirà per essere ridotto a un puro semplice simulacro. Lo accetteranno i palestinesi? Non per via negoziale. Ma forse ne accetterebbero l´imposizione, come nel caso di Gaza. Così le forme sarebbero rispettate, e l´opinione pubblica internazionale riconoscerebbe il sacrificio compiuto da Israele sull´altare della pace.
E´ questo il piano segreto di Sharon? Se così fosse, molti fattori potrebbero frustrarlo. E il più terribile è il terrorismo suicida.
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