Contro il fanatismo intervista ad Amos Oz, che ha parole molto dure anche per gli incendi di sinagoghe a Gaza
Testata: Avvenire Data: 23 settembre 2005 Pagina: 23 Autore: Giorgio Bernardelli Titolo: «Oltre il fanatismo»
Da AVVENIRE di venerdì 23 settembre 2005 riportiamo un'intervista di Giorgio Bernardelli allo scrittore israelaino Amos Oz.
Ecco il testo: Vuoi fare qualcosa di concreto contro il fanatismo crescente? Comincia tu per primo a metterti nei panni degli altri. A Gaza come in ogni angolo del mondo. O magari (come nel suo nuovo libro che sta per uscire in Italia) anche in un villaggio di fantasia che però ricorda da vicino qualcosa di molto concreto. È la ricetta su cui Amos Oz, celebre scrittore israeliano appena insignito in Germania del prestigioso Premio Goethe, protagonista ma anche coscienza critica della galassia pacifista di Gerusalemme, ha dialogato ieri sera con Enzo Bianchi e Miriam Mafai al teatro Carignano a Torino nell'ambito di «Torino spiritualità». Amos Oz, perché oggi così poche persone sono in grado di compiere un gesto apparentemente così semplice come mettersi nei panni degli altri? «Perché viviamo in un asilo infantile globale, in un mondo dove la gente pensa sostanzialmente a giocare, a consumare e a divertirsi. Anche i poveri subiscono il lavaggio del cervello dei gadget. In una realtà del genere non ci si mette nei panni degli altri. A parte quando dobbiamo vendere loro qualche cosa. È l'unico momento in cui ci chiediamo davvero che cosa prova l'altro». Dunque, visto che il mondo è infantile, lei adesso con «D'un tratto nel fondo del bosco», sceglie la terapia del genere "fantasy". «Un momento. Ho già scritto "Come curare un fanatico": si può vendere quello nelle farmacie. Questo nuovo libro è un racconto, non una terapia. Non penso che raccontare storie abbia bisogno di scuse esteriori: è un'esperienza primordiale, come respirare. Certo, può darsi che quando leggiamo un romanzo siamo più portati a immaginare l'altro. Ma è un invito. Si può accettare o gettare nella spazzatura. Tutto quello che posso fare, quando scrivo un nuovo libro, è dire: siediti, ho una storia per te». Il libro, però, prende di mira l'abitudine di sbeffeggiare l'altro, un'altra forma di fanatismo? «Se parlassi sempre di fanatismo diventerei fanatico io stesso. Detto questo è vero, è una storia su come la beffa e il sarcasmo possano a volte trasformare la gente in persone ancora più sole di quanto siano già. Lo vede anche lei: il sarcasmo è il tono prevalente nei discorsi di oggi. Io stesso lo uso spesso, insieme all'ironia. Buttare tutto in battuta è legittimo quando l'altro è potente, o sicuro di sé, o arrogante. Ma se l'altro è vulnerabile, insicuro, più debole di noi, è un'arma iniqua». Lei ha scritto più volte che il fanatismo può annidarsi anche nel mondo pacifista. Dove in particolare? «Conosco persone del movimento pacifista talmente militanti nelle proprie convinzioni su come costruire la pace da impegnarsi in guerre molto serie con le altri pacifisti. Li chiamano colombe, ma che razza di colombe sono quelle che combattono in continuazione l'una contro l'altra? Il punto è che nessuno è davvero immune dal fanatismo. Anche se non ogni forma di fanatismo è un pericolo mortale». Dove stanno i segni di una riconciliazione possibile nel Medio Oriente di oggi? «Nella possibilità di capire che cosa spaventa l'altro. Non nello sbocciare improvviso di un amore vicendevole. La riconciliazione non avverrà gettandosi in lacrime nelle braccia dell'altro dicendo: fratello, ciò che abbiamo fatto è stato terribile. Oggi vedo un po' più di attenzione verso le paure e i bisogni dell'altro. E questa è un'ottima cosa. Israele è fuori da Gaza: è un buon inizio. La leadership palestinese sta usando un nuovo linguaggio rispetto ai tempi di Arafat: è un altro buon inizio. Questo, ovviamente, rende i fanatici da entrambe le parti più nervosi e più pericolosi. Siamo solo all'inizio: non mi aspetto miracoli, ma un cambiamento molto lento. Un pragmatismo triste, non entusiasta. La comprensione che non tutti potranno avere tutto quello che vogliono e forse nemmeno quello che gli servirebbe. Bisognerà attraversare dolorose crisi d'astinenza, da entrambe le parti». Che cosa ha provato a vedere alla televisione i coloni barricati nelle sinagoghe di Gaza, prima, e le stesse sinagoghe bruciate dai palestinesi, poi? «I coloni hanno sofferto davvero vedendo infrangersi il loro sogno. E io non posso gioire quando il sogno di qualcuno si infrange; nemmeno quando penso che quel sogno fosse pericoloso. Quando invece ho visto alcuni palestinesi incendiare le sinagoghe ho pensato che queste persone stavano incendiando anche il futuro della Palestina. Perché una Palestina fanatica, carica di odio, violenta, non otterrà mai la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Bruciare quelle sinagoghe è stato un atto di barbarie, una risposta a una sete di vendetta. Ma la vendetta chiama solo altra vendetta». Che cosa ricorderà, domani, la società israeliana dello storico agosto 2005? «Dipenderà molto dalla risposta dei palestinesi. Se considereranno il ritiro da Gaza come il primo sintomo della disintegrazione di Israele e aumenteranno la violenza, allora la società israeliana si indurirà e ricorderà questo passaggio come un grave errore. Ma se dall'altra parte lo si considererà davvero un primo passo verso la soluzione dei due Stati, allora c'è davvero una buona possibilità che la maggioranza degli israeliani possa riconoscere che sì, ritirarsi da Gaza è stata la cosa giusta». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Avvenire. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.