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La Repubblica Rassegna Stampa
21.09.2005 La solita storiella sul terrorismo suicida conseguenza della "disperazione"
smenitita dai fatti, viene riproposta da Tahar Ben Jelloun

Testata: La Repubblica
Data: 21 settembre 2005
Pagina: 42
Autore: Tahar Ben Jelloun
Titolo: «Cosa c'è nella testa di un kamikaze?»
LA REPUBBLICA di mercoledì 21 settembre 2005 pubblica una recensione di Tahar Ben Jelloun del film "Paradise Now", sugli attentatori suicidi palestinesi.
Il film, scrive Ben Jelloun, "fornisce una chiave per capire meglio quello che succede nella testa di un ventenne che crede al sacrificio e al paradiso semplicemente perché la sua vita assomiglia a un inferno quotidiano".

Ma la guerra, che rende la vita dei giovani palestinesi, "un inferno quotidiano", anche stando alla cronologia è chiaramente il prodotto, non la causa, dell'aggressione terroristica contro Israele.
La cultura della morte e dell'odio è promossa da potenti mezzi propagandistici, dai sermoni nelle moschee alle trasmissioni televisive, all'industria dei poster e delle figurine che ritraggono gli attentori suicidi.
Questi ultimi appartengono spesso alle fasce di popolazione con il reddito e l'istruzione più elevate, e con maggiori possibilità di sottrarsi alle dure condizioni di vita della zona di conflitto.
Inoltre attentatori suicidi sono stati reclutati anche a Londra, o ad Amburgo e hanno colpito, come noto, anche al di fuori di Israele, a Madrid come a New York o a Bali.

La "spiegazione" di Ben Jelloun di "cosa c'è nella testa di un kamikaze" come pure la sua manichea distinzione tra "occupanti" e "occupati", ossessivamente proposta come chiave di lettura unica del conflitto israelo-palestinese, sono dunque, come minimo, semplicistiche, unilaterali e contrastanti con dati di fatto molto noti.

Ecco il testo:

Paul Nizan diceva che non avrebbe permesso a nessuno di affermare che i vent´anni sono l´età più bella della vita.
C´era la guerra, era il tempo del sacrificio e delle vite sprecate.
Oggi ci sono paesi in cui avere vent´anni è una disgrazia semplicemente perché i giovani non vivono una vita da giovani e l´istinto di sopravvivenza è stato soppiantato dalla passione per la morte, data o ricevuta. Quello dei giovani che si imbottiscono la camicia di esplosivi e vanno a farsi esplodere in un bar o in un autobus è un fenomeno incomprensibile. Non mancano spiegazioni sia di ordine politico sia di ordine religioso, ma come si arriva psicologicamente a soffocare in sé la voglia di vivere e offrirsi volontari per morire uccidendo altre persone anonime e innocenti?
Un film tedesco-franco-israelo-danese realizzato da Hany Abu-Assad, un palestinese che vive in Olanda, ci aiuta a capirlo.
Paradise now è un film eccellente. Non si tratta di un film militante, né di un film di propaganda e ancor meno di un film politico, nel senso che non appartiene a quel cinema impegnato che prende posizione per un campo o per l´altro. E un film sottile e possente che non risparmia nessuno, né l´occupante né l´occupato.
Racconta la storia di due giovani nati in un gruppo di rifugiati palestinesi, Sahid e Khaled, che lavorano in un´autofficina a Nablus. Hanno una vita angusta, senza speranze di miglioramento né prospettive per il futuro, senza gioia e senza piaceri se non per qualche tiro di narghilè che fumano davanti a una città semidistrutta. Said è molto attratto da Suha, figlia di un eroe della causa palestinese, ma sa bene di non avere nulla da offrirle. Niente è possibile in un campo dove la vita è quotidianamente impedita da un conflitto che diventa sempre più complicato e alimenta incessantemente l´odio tra i due popoli.
Dopo una presentazione dei personaggi e delle loro condizioni di vita, il film cambia tono e affronta il nocciolo del problema: Said e Khaled sono stati scelti per compiere un attentato a Tel-Aviv, programmato per l´indomani. Si viene a sapere che si erano offerti volontari qualche settimana prima.
Il regista piazza la telecamera in una vecchia casa in rovina dove assistiamo alla preparazione dei futuri martiri promessi al paradiso. Il film diventa quasi buffo. Vediamo Khaled col mitra in mano che legge il suo messaggio postumo in cui dice di offrire la vita per continuare la lotta fino alla vittoria, citando qualche versetto del Corano mentre un altro combattente lo riprende. Alla fine Khaled chiede se è andato bene. Ma la telecamera si è bloccata e bisogna rifare tutto dall´inizio.
Dopo questa sequenza, vediamo Said e Khaled mentre gli tagliano i capelli e li vestono con abiti neri, come se fossero invitati a un matrimonio o a un funerale. Dopo un´ultima preghiera gli avvolgono intorno alla vita una cintura imbottita di esplosivo, mostrano loro come funziona e soprattutto li avvertono che non potranno mai togliersela. Il giorno dopo li lasciano su una strada dove sono attesi dagli uomini che dovrebbero portarli a destinazione, ma proprio in quel momento passa una pattuglia che li mette in fuga. Khaled riesce a raggiungere la casa in rovina, dove la stessa squadra lo disinnesca, mentre Said vaga per le strade, diventando un pericolo per tutti, tanto per quelli che l´hanno reclutato quanto per i semplici passanti.
Said tiene molto ad andare fino in fondo perché ha un conto in sospeso: suo padre è stato giustiziato per aver collaborato col nemico e lui deve restituire alla famiglia l´onore perduto. La sua vita avrà un senso nella sua morte. La cosa notevole del film è l´immersione nell´animo dei due giovani che cominciano a dubitare e ad aver paura, quella paura che prende lo stomaco e fa sudare dalla testa ai piedi. Hanno detto loro che a operazione finita due angeli sarebbero scesi dal cielo per scortarli in paradiso. Gli è stato detto in tono serio, come un´affermazione incontestabile. I due amici si ritroveranno, ma vediamo come sono diventati vittime di un fanatismo che non esita a trattarli come bambini ritardati. Hany Abu-Assad mostra con rigore e a volte con umorismo quanto sia grottesco quel reclutamento omicida. Ci viene mostrato come avere vent´anni in un campo di rifugiati, in un territorio occupato, non solo è un´ingiustizia intollerabile ma è un´ingiustizia che incoraggia il fanatismo e la demagogia criminale.
La finzione cinematografica permette di identificarsi con i personaggi. Perché Paradise now è un´opera d´arte, una creazione che nasce da una realtà amara, e gli attori hanno dato a Khaled e Said una verità che porta lo spettatore, occidentale o arabo che sia, a confrontarsi con una problematica che dopo aver visto il film sarà costretto a considerare in modo più critico.
Non penso che questo film impedirà ad altri giovani di diventare dei kamikaze, ma fornisce una chiave per capire meglio quello che succede nella testa di un ventenne che crede al sacrificio e al paradiso semplicemente perché la sua vita assomiglia a un inferno quotidiano.
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