L'"implacabile" e "univoca" giustizia di Wiesenthal inaccettabile per Giorgio Bocca, "imbevuto di cattolicesimo"
Testata: La Repubblica Data: 21 settembre 2005 Pagina: 1 Autore: Giorgio Bocca Titolo: «Il dilemma del perdono»
Immaginiamo un certo imbarazzo, nella direzione di REPUBBLICA, nel pubblicare un articolo come "Il dilemma del perdono", con il quale Giorgio Bocca ricorda Simon Wiesenthal. Sarebbe il minimo, per un articolo che descrive la giustizia perseguita da Wiesenthal come "implacabile e univoca" e attribuisce tali "implacabilità" e "univocità" all'influsso della religione ebraica. Fosse stato, se non cattolico, almeno "imbevuto di cattolicesimo" come Bocca, Wiesenthal si sarebbe "placato", lasciando i criminali nazisti ai loro esili in Sudamerica, e sarebbe stato anche più "imparziale", magari mettendo sotto processo qualche vittima. Concludendo il suo articolo Bocca paragona i processi regolari cui furono sottoposti i criminali scovati da Wiesenthal alla giustizia sommaria operata dai partigiani nel dopo guerra italiano e si chiede: "ho sentito nei giorni della resa dei conti della guerra partigiana, aprile del ´45, che quella giustizia non avrebbe lavato i peccati del mondo e che la voglia di fascismo sarebbe, nonostante tutto, ritornata. Mi sono sbagliato?" Forse non del tutto. Nel forum "Destra radicale" (http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php s=150b307d6be5020358d4b9b9f4868b28&threadid=192649 ) troviamo questi post di neofascisti che su Wiesenthal non sembrano pensarla molto diversamente da Giorgio Bocca: "...e' morto il loro amico wiesenthal,se viveva ancora ne segnalava altri mille nazi ora voglio vedere la delegazione italia chi porta ai funerali...", " Wiesenthal e' stato il tipico rappresentante dell' odio, incessante, infinito, senza pieta' tipico dell' antico testamento. Noi non dovremmo essere cosi' e dovremmo provare pieta' per una persona che ha fatto della vendetta infinita la sua ragione di vita, altrimenti siamo come lui. Ci pensera' colui che adesso lo guarda e lo giudica....che difficilmente si chiama Jhave'", "Tanto gli elenchi degli iscritti all'MSI glieli avevano già consegnati 10 anni fà, quindi il loro dovere di buoni sionisti lo hanno già adempiuto.".
(critica a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco l'articolo: Il 12 aprile del 2003 Simon Wiesenthal, l´uomo che aveva dedicato la vita alla caccia dei criminali nazisti, diceva: «Il mio lavoro è fatto. Se ci sono ancora criminali nazisti che non ho trovato sono troppo vecchi e fragili per sostenere un processo». Il suo motto era «giustizia mai vendetta», il motto di un architetto ebreo che nel 1945 venne assunto dal War Crime Section americano per raccogliere prove, documenti, nomi di nazisti colpevoli di delitti contro l´umanità, per fornire una testimonianza al processo di Norimberga. Era necessaria la testimonianza raccolta da un ebreo tenace e instancabile come Wiesenthal per affermare davanti alla storia che quel crimine spaventoso, incredibile contro l´umanità era davvero avvenuto? La rilevanza del personaggio Wiesenthal più che alla sua opera si affida alla domanda che essa pone a tutti noi: il perdono ha un senso? Il bisogno di giustizia spiega una caccia all´uomo senza esitazioni e senza eccezioni? Una risposta netta e convincente non esiste, più delle ragioni contano le formazioni culturali, religiose, di chi è chiamato a rispondere. Ho incontrato Wiesenthal cinque o sei volte, l´ho per così dire seguito passo a passo nella caccia a Eichmann, il capostazione della morte, nella periferia di Buenos Aires, ma pur non essendo un cattolico credente e praticante c´è troppo cattolicesimo in me per aderire alla sua giustizia implacabile e univoca. Del resto il primo a porsi il problema del perdono, se sia possibile o no, se sincero o ipocrita, se utile o meno nella generale malvagità del mondo, è stato proprio Wiesenthal che nel 1970 scrisse nella prefazione del suo libro «Il girasole»: «Nel giugno del 1942 a Leopoli, in circostanze insolite una giovane SS che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace dopo aver ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di doverglielo rifiutare. Ne discussi poi a lungo con i miei compagni di deportazione e finita la guerra andai a trovare la madre del giovane nazista ma non trovai il coraggio di rivelarle la verità su suo figlio. Questa vicenda continuava a tormentarmi. Così decisi di rivolgere la domanda sul perdono ad alcune persone importanti di diverse nazionalità». Le risposte di queste persone importanti sono contrastanti e in buona sostanza dicono che una risposta netta e definitiva è impossibile. Primo Levi è incerto: «Lei non avrebbe potuto perdonarlo se non mentendo e infliggendo a lei stesso una terribile violenza morale. E´ chiaro tuttavia che un suo rifiuto non risolve tutto, e si capisce abbastanza bene che lei abbia conservato dei dubbi. In casi come questo il sì e il no non si possono separare con un taglio netto, qualcosa resta sempre dall´altra parte». Stefano Levi della Torre aggiunge: «Il pentimento è anche un affare. Al pentimento in extremis manca per lo più qualcosa, manca la possibilità e quindi la responsabilità di redimersi con gli atti. Qui invece ha chiamato un ebreo di nascosto che ha tradotto il proprio crimine storico in una crisi privata». Le persone che rispondono a Wiesenthal sono degli intellettuali che hanno fatto della sincerità una ragion d´essere, eppure non si può non vedere che ciascuno tira l´acqua al suo mulino, intellettuale o di vita. L´architetto Albert Speer, l´esempio più noto dell´ambiguità verso il nazismo, il più stretto collaboratore di Hitler scampato al processo di Norimberga, ci racconta un Wiesenthal diversissimo da quello che seguiva come un segugio Eichmann su un tram, nella periferia di Buenos Aires, che organizzava il suo sequestro e il trafugamento su un aereo, piratesco e illegale pur che il colpevole dell´Olocausto pendesse impiccato nella veste rossa dei condannati a morte in un carcere segreto di Israele. Il Wiesenthal incontrato da Speer nel centro di documentazione ebraica è molto diverso. «Non mi ha accusato e non mi ha buttato in faccia la sua collera, ha dimostrato clemenza e umanità. L´ho guardato negli occhi, gli occhi che avevano visto la sofferenza, il degrado, il fatalismo e l´agonia dei suoi compagni, e tuttavia quegli occhi non esprimevano odio, erano caldi e tolleranti e pieni di comprensione per le sventure altrui. Sono venuto da lei traumatizzato, gli dissi. E lei mi ha molto aiutato, come ha aiutato quella giovane SS morente quando non ha ritirato la sua mano e non l´ha rimproverato. Ogni essere umano deve portare il suo fardello. Nessuno può assumersi quello di un altro, ma il mio, dopo il nostro incontro, è diventato più leggero». E qui bisogna riconoscere a Speer l´arte dell´inganno per cui è sfuggito alle forche di Norimberga. E Paolo De Benedetti: «Se il secolo XX dovesse trasmettere al XXI un solo messaggio vorrei che fosse l´angosciosa domanda del Girasole». Forse il disagio che ho provato di fronte a Wiesenthal le volte che l´ho incontrato deriva da un diverso atteggiamento verso la giustizia. Non cattolico ma imbevuto di cattolicesimo, ho sentito nei giorni della resa dei conti della guerra partigiana, aprile del ´45, che quella giustizia non avrebbe lavato i peccati del mondo e che la voglia di fascismo sarebbe, nonostante tutto, ritornata. Mi sono sbagliato? A proposito delle concezioni della giustizia e delle fedi ebraica e cattolica è interessante leggere quanto scrive Marco Roncalli nell'articolo "Il passato che non passa e l'obbligo di ricordare, una riflessione ancora aperta nell'ebraismo" pubblicato a pagina 30 di AVVENIRE, quotidiano che sicuramente vanta qualche titolo a scrivere di cattolicesimo, riferendosi al dilemma posto nel "Girasole": Un uomo che in un momento non è stato capace di perdonare -qualcosa che solo lui poteva fare, visto che secondo la religione ebraica il perdono spetta alle vittime, e soltanto a loro ( e visto che anche i cristiani sono invitati aporgere la propria guancia, e non l'altrui). ( va ricordato che il motivo per cui Wiesenthal non è "stato capace di perdonare" è stato precisamente che avrebbe dovuto perdonare anche per ciò che era stato fatto ad altri) Un uomo che tuttavia non ha lavorato al servizio della vendetta, cercando inutili punizioni, ma rispondendo a quello che considerava un suo dovere; rendere onore alla verità, spiegare al mondo cosa non dovrà più accadere. Un avvertimento? A questa domanda postagli tante volte il cacciatore di nazisti rispondeva: «Un avvertimento per gli assassini di domani, che oggi forse sono già nati». Gli assassini sono tra noi, titola non a caso un altro suo libro del 1967 (pure edito da Garzanti). E aggiungeva: «Non sappiamo quando nascono. Ma devono sapere che, se la storia si dovesse ripetere, contro gli ebrei o contro altri, saranno perseguiti: e non è detto che il prossimo olocausto debba essere contro gli ebrei. Né il tempo né la distanza proteggono chi ha preso parte a un assassinio di massa. Se non potessimo dare questo avvertimento, milioni di persone sarebbero morte per niente». Già, ma la domanda sul perdono? Senza risposte? Con la risposta di Manès Sperber che scriveva «di nessuno sia dimenticata la colpa…ma si perdoni a tutti quelli per cui la colpa è divenuta una fonte inesauribile di tormentoso rimorso»? No. Wiesenthal, tanti anni dopo, ha fatto sapere di averla trovata nella lettera scrittagli da una contadina norvegese. Gli aveva scritto: «Avrebbe dovuto dirgli: Lei deve pregare il suo Dio di perdonarla. E Dio perdonerà». Ma le parole più convincenti per rispondere a Bocca sono forse quelle scritte da Andrea Casalegno sul SOLE 24 ORE, nell'articolo "L'infaticabile cacciatore di nazisti", pubblicato a pagina 11: Le sofferenze non conosciute non trovano pace, i delitti impuniti continuano a proliferare. E' merito di Simon Wiesenthal se migliaia di testimoni hanno potuto gridare il dolore e l'ingiustizia subita, se centinaia di colpevoli hanno potuto risponderne ad altri uomini che li guardavano negli occhi. Della sua lotta per la verità e la giustizia gli saremo debitori per sempre; ma non sta solo qui il significato universale della sua missione. Wiesenthal ha contrapposto, nei fatti, alla disumanizzazione nazista, che pretendeva di cancellare un intero popolo per una colpa colletiva immaginaria, il principio su cui si fonda la nostra civiltà: la responsabilità individuale. Non è mai esistita per lui una colpa collettiva del popolo tedesco. Con la sua caccia infaticabile ai singoli autori dei singoli delitti egli ha riscattato la dignità e l'onore collettivo dei popoli - e sono molti - da cui provengono gli assassini. Coloro che hanno osteggiato le sue battaglie hanno dimenticato che soltanto chi riconosce il delitto e fa tutto il possibile per individuare e punire i colpevoli ha il diritto di proclamarsi innocente. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.