Caos al valico di Rafah, pericolo Hamas per l'Egitto e inoltre: il giudizio di Freedom House su Israele e sui suoi vicini, una lettera di Luigi Compagna sui cristiani nei territori dell'Anp
Testata: Il Foglio Data: 15 settembre 2005 Pagina: 3 Autore: un giornalista - Mauro Sutura - Luigi Compagna Titolo: «La (breve)fuga in Egitto dei palestinesi della nuova Gaza - Mubarak teme il patto d'azione tra Hamas e Fratelli musulmani - Giro del mondo con Fredoom House -lettera al direttore»
IL FOGLIO di giovedì 15 settembre 2005 pubblica a pagina 3 l'articolo "La (breve)fuga in Egitto dei palestinesi della nuova Gaza", un "viaggio a Rafah, città di frontiera senza confine".
Ecco il testo: Rafah. Gli undici chilometri di confine tra Egitto e Striscia di Gaza evacuati dalle forze israeliane sono passati sotto il controllo delle forze di sicurezza egiziane. La situazione lungo la frontiera, ieri, era confusa. "Dov’è l’ordine?", si chiedeva un egiziano davanti all’alto muro che divide la città di Rafah in due: una parte egiziana, l’altra palestinese. Da diverse ore, infatti, migliaia di palestinesi stanno entrando e uscendo dalla Striscia, prima attraverso passaggi ufficiali, poi attraverso brecce nel cemento armato o nel metallo della barriera. Uomini, donne, anziani, ma soprattutto ragazzini hanno affollato le strade della Rafah egiziana e della vicina al Arish. Sul retro di colorati pick-up, decine di adolescenti si sono mosse fra le cittadine del Sinai. palestinesi hanno approfittato dell’occasione per incontrare parenti e amici che non vedevano da quando, nel 1967, è stata chiusa la frontiera. Per molti si tratta della prima volta in Egitto: alcuni hanno passato il confine per curiosità o spinti dalla volontà di fare shopping. A Rafah, vicino alla porta di Salasheddin, il cancello per Gaza, i negozi sono stati presi d’assalto. Ieri pomeriggio le vie del centro, erano piene di persone con pacchi colmi di ogni tipo di mercanzia: "Medicine, vestiti, biscotti, formaggi, coperte, sigarette, tabacco per i narghilé, cartoleria", spiega al Foglio Mohammed, un abitante. Un negoziante dice che non ha più nulla nei suoi due frigoriferi, ma i palestinesi continuano a entrare nello spaccio e ad aprirli in cerca di qualcosa di fresco. L’uomo è contento: "Se tutti i giorni fosse così, sarei miliardario – dice – oggi è un giorno di festa e di pace, anche io ho potuto rivedere, dopo anni, amici che erano rimasti dall’altra parte". Gli scaffali dei negozi, ieri, erano quasi vuoti: impossibile trovare una bottiglia d’acqua o una bibita. In mezzo alla strada egiziani e beduini del Sinai hanno fatto affari. C’è chi dice che, rispetto a pochi giorni fa, i prezzi siano già saliti. Lungo i marciapiedi si è contrattato per acquistare capre, pecore, asini e galline, in dialetto egiziano e in arabo palestinese. A una stazione di benzina, ad al Arish, si è formata una lunga coda di auto con targa della striscia di Gaza. I conducenti riempiono le taniche che hanno nei portabagagli. La benzina in Egitto costa un pound (sette pound e mezzo valgono circa un euro), a Gaza un dollaro e mezzo. Un poliziotto palestinese lungo il confine, in quei pochi metri sabbiosi di terra di nessuno denominati "Philadelphi road", dice al Foglio che almeno 10 mila persone hanno attraversato la frontiera. Non c’è traccia dell’esercito: gli agenti egiziani sono pochi, quelli palestinesi ancora meno. Un fiume di persone cammina lungo la barriera in cerca di brecce per rientrare a Gaza. Tutti hanno in mano pacchi; alcuni alcuni uomini portano sulle spalle fucili, appena comprati. Da una vecchia Mercedes nera spuntano due bandiere del Jihad islamico palestinese. Il conducente dice al Foglio e alla Reuters di essere qui da quando gli israeliani sono partiti. Non risponde quando gli si chiede il motivo della visita; due pistole sono bene in vista all’interno dell’auto. Poco più avanti c’è una tenda. Accanto la bandiera della Palestina e quella del Fatah. Alcuni uomini riposano all’interno. Due donne sono sedute su alcune valigie, davanti a un’apertura nella barriera che testimoni dicono sia stata praticata facendo esplodere un’automobile. La carcassa è a poca distanza, circondata da una folla che sta smontando ogni pezzo. Le due palestinesi hanno passaporto egiziano, stanno andando a trovare la famiglia che non vedono da quando il confine ha chiuso. Portano regali, mostrano una coperta. Staranno solo due o tre ore, perché il confine dovrebbe chiudere alle sei di sera (ma alle sette risulterà ancora aperto); "Allah vuole così", "ed è meglio di niente". Hani ha circa trent’anni, è un militare di Deir el Balah, è arrivato due giorni fa in Egitto per la prima volta. Porta a casa pacchi di biscotti. Ibrahim ha comprato un cellulare, Ramadan le sigarette. Sono a Rafah dalla notte prima. Hanno fatto festa. Non hanno neppure vent’anni; dicono che l’Egitto è bello, ma vogliono tornare a casa. Di seguito "Mubarak teme il patto d'azione tra Hamas e Fratelli musulmani".
Ecco il testo: Rafah. Due giorni fa è stato chiuso il confine tra Gaza ed Egitto. Il valico di Rafah, città divisa in due dalla frontiera, passa definitivamente sotto il controllo egiziano e palestinese. "Gaza entra in una nuova epoca d’indipendenza", titolava martedì in rossi caratteri cubitali il quotidiano governativo al Ahram. L’Egitto ha fatto appello al mondo intero affinché la comunità internazionale aiuti Gaza dopo il ritiro israeliano, ma cerca soprattutto un aiuto indiretto per se stesso. Il regime di Hosni Mubarak è stato, negli ultimi mesi, l’intermediario tra palestinesi e israeliani e il mediatore tra le fazioni palestinesi. Questo suo ruolo di mediatore lo rende un interlocutore privilegiato del prezioso alleato americano, da cui arrivano molti dei finanziamenti su cui il paese si regge. Il capo dei servizi segreti egiziani, Omar Suleiman, e altri funzionari del Cairo si sono recati diverse volte a Gaza nei giorni precedenti il ritiro, e durante il disimpegno le forze di sicurezza egiziane erano presenti nei Territori come supporto logistico alle forze dell’Autorità nazionale palestinese. Ora i militari già messi a guardia del poroso confine tra Egitto e la Striscia sono 200, altri, per un totale di 750, saranno dispiegati nel corso della settimana. Il Cairo è preoccupato non soltanto dal contrabbando d’armi e droga attraverso i tunnel lungo la frontiera – come quello scoperto ieri dagli agenti egiziani, che custodiva 38 mitragliatrici, 3 lanciarazzi a spalla e 2.000 granate per lanciarazzi – e dall’instabile situazione interna alla Striscia per la lotta sotterranea tra le fazioni palestinesi. Mubarak deve affrontare anche una nuova situazione politica interna. L’immobilismo che per decenni ha caratterizzato la scena politica del paese si è rotto. Il rais è appena stato rieletto con l’88,6 per cento delle preferenze, ma il debole afflusso alle urne, al 23 per cento, è stata una sconfitta per il regime, che sta facendo i conti con una piccola, rumorosa e mediatica opposizione. "Hanno paura dei fondamentalisti islamici palestinesi", è la risposta che più si sente al Cairo quando si parla della Striscia. Il fantasma dell’integralismo musulmano rimane vivo. E sui mass media, non soltanto egiziani, è ricorrente la teoria per la quale, in caso di elezioni libere e democratiche, i Fratelli musulmani, gruppo islamico bandito dal governo ma tollerato, vincerebbero con una valanga di voti. L’attivista democratico Saad Eddin Ibrahim, che da anni studia la questione attraverso il suo centro Ibn Khaldun, ha spiegato al Foglio che si tratta di una falsa convinzione e che, secondo i dati da lui raccolti, i Fratelli musulmani se potessero correre potrebbero ottenere alle parlamentari di novembre soltanto il 20 per cento delle preferenze. Nonostante ciò, oggi il movimento rimane, insieme alla nuova opposizione liberale guidata da Ayman Nour – il candidato presidenziale che è arrivato secondo al voto, con il 7,4 per cento delle preferenze – l’opposizione più credibile e pericolosa per il regime. La Fratellanza infatti, grazie al suo strutturato sistema sociale, ha un forte sostegno nei quartieri più poveri dell’enorme capitale. Dall’altra parte della frontiera di Rafah, a Gaza, c’è Hamas, gruppo islamico palestinese nato dai Fratelli musulmani egiziani. Il rischio di nuovi legami è preso in considerazione dalle autorità del Cairo, che da poche ore sono diventate i guardiani di quegli undici chilometri di confine sottile che separano gli attivisti dei due movimenti. Apagina 2 dell'inserto troviamo l'articolo di Mauro Sutura "Giro del mondo con Fredoom House". La Fredoom House è l'organizzazione indipendente che si occupa di monitorare il grado di libertà dei paesi del mondo. Di seguito riportiamo la parte dell'articolo dedicata al Medio Oriente nel suo complesso. Che inizia così: "In quest’area l’unico paese libero è Israele"
Ecco il testo: Disastro medio oriente. In quest’area l’unico paese libero è Israele. Quattro lo sono solo parzialmente: Giordania, Bahrein, Kuwait, Yemen. L’Egitto, nonostante il recente voto, non ha raggiunto la libertà, anche se migliora: dal 6 dell’anno scorso a 5,5. Anche altri otto Stati a maggioranza islamica hanno fatto progressi: Afghanistan, Comore, Giordania, Malesia, Marocco, Niger, Qatar, Turchia. Viceversa, ben cinque fra le otto peggiori dittature del mondo (voto 7) sono islamiche: Arabia Saudita, Libia, Siria, Sudan e Turkmenistan (gli altri "pessimi" sono Birmania, Cuba e Corea del nord). Infine, riportiamo una lettera del senatore dell'Udc Luigi Compagna, pubblicata dal quotidiano mercoledì 14 settembre.
Ecco il testo: Al direttore - Incendiare le sinagoghe abbandonate dai coloni è odioso. Ma lo è pure quanto denunciato sul Corriere della Sera, in una intervista a Lorenzo Cremonesi, da padre Pierbattista Pizzaballa, Custode dei luoghi sacri appartenenti alla Chiesa cattolica in Terra Santa ("stupri, rapimenti, terre e proprietà rubate, case occupate, abusi e soprattutto offese degli estremisti islamici contro i cristiani"). Questa realtà di violenza e sopraffazione viene troppo spesso ignorata per pregiudizio favorevole alla causa palestinese. A parte il fatto che dovrebbe essere semmai il contrario, come rilevava ieri sul Foglio Emanuele Ottolenghi, c’è anche un problema di "radici cristiane" non meno incalzante. Nel 1950 i cristiani a Betlemme erano il settantacinque per cento, oggi sono il dodici per cento; per gli accordi di Oslo il novantacinque per cento della popolazione araba (cristiani e mussulmani) vive sotto giurisdizione dell’Autorità nazionale palestinese; continuare ad attribuire la responsabilità dell’esodo dei cristiani da quelle terre allo Stato di Israele, come in molte prese di posizione dell’Unione europea, non ha senso ed è un volgare segno di cinismo di fronte all’eroismo quotidiano di uomini di buona volontà, cristiani nel senso più alto, come il padre francescano Pizzaballa. Un saluto
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