Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
L'indifferenza per le sinagoghe bruciate denunciata da Alberto Melloni
Testata: Corriere della Sera Data: 14 settembre 2005 Pagina: 1 Autore: Alberto Melloni Titolo: «I silenzi sui roghi di Gaza»
Il CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 14 settembre 2005 pubblica in prima pagina e pagina 36 un articolo di Alberto Melloni su "I silenzi sui roghi di Gaza", segno di "indifferenza interiore". Lo pubblichiamo, senza entrare nel merito della lettura religiosa degli eventi di Gaza proposta dallo storico cattolico.
Ecco il testo: Le fiamme che si sono alzate dalle sinagoghe di Gaza hanno acceso una discussione surreale. Sul manifesto Tommaso di Francesco parla dell’«ultima provocazione» di Sharon: «Scaricare sui palestinesi l’onore di distruggere le sinagoghe che sapientemente i bulldozer israeliani avevano risparmiato dopo avere invece demolito le belle case dei coloni». E c’è invece chi tace. Forse perché considera giustificato che un popolo oppresso si vendichi linciando almeno i simboli religiosi dell'occupante. Come se i roghi di queste ore fossero stati, comunque, inevitabili. Questa discussione è come cifrata dalla indifferenza interiore, con cui si può valutare la coda politica di un gesto politico. Il fuoco di Gaza, in realtà, ha fatto qualcosa di più, perché ha illuminato proprio questo: una indifferenza solida, ostinata, «matura», capace di sfuggire alla forza con cui quel fuoco evoca altri fuochi - quello che Goebbels diresse contro le sinagoghe tedesche nel 1938, quello che non ebbe pietà dei bimbi innanzi alla sinagoga di Roma nel 1982, quello dimenticato che devastò la sinagoga di Djerba nel 2002. Indifferenza del mondo, dell'Europa, di questa grottesca Italia che ha riaperto la caccia ai plutogiudeomassoni; indifferenza dei politici, dei patriarchi, dei diplomatici, di una opinione pubblica distratta da troppi guai e stanca del proprio passato. Su questa indifferenza, che sa sfuggire politicamente al giudizio, manca una parola profetica che le sbarri la via. Si può infatti minimizzare ciò che accade a Gaza spiegando che le ex sinagoghe non sono «luoghi sacri»; si può interpretare psicologicamente quella fiamma, descrivendola come il sogno del truce palestinese col passamontagna nero e i versetti del Corano bestemmiati sui razzi ovvero come il meritato incubo dell'israeliano, colpevole almeno d'esistere e di essere ebreo. Ma queste spiegazioni non rendono meno lacerante la mancanza di una parola profetica, capace di dire qualcosa dell'indifferenza di noi - gli spettatori di questa tragedia medio-orientale in cerca dell'approdo del perdono e della pace. Una mancanza che aveva già aleggiato sulle settimane dello sgombero israeliano. Solo un intuito profetico avrebbe potuto rintracciare il senso teologico ultimo di ciò che è accaduto da agosto in qua in quell'angolo di Medio Oriente. La decisione di Sharon di smantellare le colonie ha avuto obiettivi, controindicazioni, contropartite, limiti politici. L'entrata dei palestinesi in questi poderi d'Egitto che dopo anni d'occupazione profumano di patria è stata sperata come l'inizio di una pace militare che, dice ironicamente Amos Oz, non impiegherà i mille anni che le sono stati necessari in Europa per affermarsi. Ma questa è solo la superfice politica di qualcosa che ha un'abissale profondità religiosa, spirituale, teologica: gli israeliani che escono da un pezzetto della Terra dei padri compiono un gesto che tocca non solo la politica, ma la promessa stessa alla quale sta appesa la fede di tutti i figli d'Abramo. L'avevano capito i ragazzini entrati ai primi d'agosto nelle colonie da sbaraccare: entrati per piangere, mentre i soldati israeliani in lacrime li portavano via. Erano i giorni nei quali il calendario ebraico ricorda le distruzioni del Tempio (quella del 586 a.C. che bruciò il Tempio di Salomone e quella definitiva compiuta da Traiano nel 70 d.C. ai danni del secondo Tempio): per quelle distruzioni da secoli si danza piangendo sui rotoli della Legge. Ma quel pianto rituale, ad agosto 2005, continuava dentro e fuori dalle sinagoghe, davanti ai camion pronti a partire per un Israele che, senza quei pochi chilometri di terra, diventava un «piccolo Israele». Era fanatismo? Insensibilità degli adolescenti israeliani davanti alla nakbà , al dramma dei palestinesi? Forse anche questo: ma certo quei ragazzini esprimevano l'intuizione di un cambio profondo, o per dirla biblicamente «profetizzavano», al di là delle loro parole e delle loro intenzioni. Sul sogno neo-patriottico dei pionieri sionisti, la fede di Israele s'è innestata in modi inattesi e incancellabili. Nonostante gli errori o gli orrori politici dei governi, quella fede vissuta sotto il sole inospitale del Medio Oriente ha ruminato per decenni alcune parole della Bibbia («la Terra» o «Gerusalemme») in una luce che era quella della promessa di Dio. Una luce che poteva suggerire miraggi ideologici, sogni erronei, speranze arroganti: ma il contenuto era quello, la promessa. L'atto di Sharon, l'atteggiamento dei coloni, l'eroismo dei soldati disarmati dicevano invece che per poter vivere, e non solo morire, nella Terra dei padri, Israele doveva osare, toccare qualcosa che stava in quella luce. Che ne sia stato artefice un uomo dal passato a dir poco inquietante come Ariel Sharon ha qualcosa di biblico. Questo passaggio s'è compiuto senza una parola profetica capace di dire a tutti i figli d'Abramo che quando si scopre che la promessa di Dio può solo essere attesa, è lui che sta parlando al pianto, che sta parlando all'indifferenza. 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