Il caos di Gaza e i pregiudizi duri a morire della sinistra italiana
Testata: Il Foglio Data: 13 settembre 2005 Pagina: 3 Autore: Carlo Panella - Emanuele Ottolenghi Titolo: «Un lavoro per Hamas - Oggi l’Autorità palestinese (non) assume il controllo di Gaza -Sharon è cambiato, Fassino e Bertinotti un po’, ma tanta sinistra no»
IL FOGLIO di martedì 13 settembre 2005 pubblica a pagina 3 dell'inserto l'articolo di Carlo Panella "Un lavoro per Hamas": Da mesi bande di "terroristi disoccupati organizzati" spadroneggiano per Gaza, si dedicano all’industria dei sequestri per denaro o per "public relations", come nel caso di Lorenzo Cremonesi, occupano manu militari uffici dell’Anp, come fossero "Comitati di base di disoccupati", per farsi dare lo stipendio, fanno attentati contro dirigenti palestinesi, impongono la sharia a suon di mitra e di linciaggi, come nel caso di quella sventurata fidanzatina colpevole di aver passeggiato mano nella mano sul lungomare col suo ragazzo. I media mondiali danno conto di tante e tali imprese con disinvolta obbiettività, come se tutto ciò fosse normale, come se in altre lotte di liberazione nazionale, alla vigilia della liberazione, tutto questo fosse accaduto (ma non ve ne è una in cui sia accaduto), come se anche tutto fosse da addebitarsi alle "colpe" di Israele. Si perde così una buona occasione per comprendere che cosa accadrà nella Striscia di Gaza nei prossimi mesi, e come sia inadeguata la strategia di Abu Mazen che rifiuta di disarmare le bande armate palestinesi e spera in una fine dell’ondata di violenze affidata solo al processo di rappresentanza politica delle elezioni. E’ una pia speranza, destinata al fallimento, perché da 49 anni non smantella quella politica sociale aberrante che tutte le dirigenze arabo-palestinesi hanno sviluppato proprio a partire da Gaza. Una "strategia sociale" unica al mondo e mirata a un solo fine: produrre armati, produrre terroristi, diffondere idee di morte. Tutta la vicenda palestinese dal 1948 in poi è caratterizzata da un unicum, che non si è mai verificato in nessuna organizzazione di liberazione nazionale: la voluta, programmata cristallizzazione dei propri campi profughi. Qui, in questi agglomerati che non si sono voluti sciogliere nelle popolazioni arabe, complice l’Onu terzomondista, "la rabbia palestinese" è stata coltivata, armata ideologicamente e praticamente per un solo fine: distruggere Israele. Gamal Abdel Nasser nel 1956 dà il crisma ufficiale e teorizza questa strategia: annette all’Egitto il territorio di Gaza, ma non concede ai suoi abitanti la cittadinanza egiziana, dichiarando che "i profughi palestinesi saranno la nostra arma per distruggere l’Entità sionista". E’ la strategia della "produzione di profughi per produrre terroristi". Così è. Oggi quel cinico mostro giuridico va ricordato perché chiarisce bene di chi sia la responsabilità nella vita cinquantennale dei profughi. In quegli stessi anni, ovunque nel mondo, altri popoli che avevano dichiarato guerre ingiuste e le avevano perse (e i palestinesi avevano dichiarato una guerra ingiusta nel 1948, perché contro una risoluzione dell’Onu), sudano sangue per svuotare i propri campi e integrare nelle loro società i profughi: 12 milioni di tedeschi dell’Est, 300 mila italiani di Istria e Dalmazia; milioni di indù e musulmani tra Pakistan ed India… Dappertutto, in una decina di anni, i campi vengono smantellati, senza peraltro diminuire l’identità politica dei profughi, che resiste ai decenni. Non così gli arabi di Egitto, proprio a Gaza, non quelli di Giordania, non quelli del Libano. Pure, alcuni Stati arabi chiamano da allora 5 milioni di immigrati per le proprie economie da petrodollari. Ma gli emiri importano pachistani e filippini, non palestinesi. I palestinesi devono stare nei campi a crescere la loro rabbia, per fare da "bombe" per una lotta armata che "è una strategia, non una tattica", dice al Fatah nel suo Statuto. E così è. La strage dimenticata di Tell al Zatar Nel 1970, dopo mesi in cui accade ad Amman quello che accade oggi a Gaza, re Hussein è costretto a "settembre nero", per evitare il golpe di Arafat, innescato nei campi profughi. Nel 1976, identico uso dei profughi nella guerra civile libanese, ed è la strage di Tell al Zatar (di cui stranamente nessuno si ricorda), nel 1982 Sabra e Chatila: i morti palestinesi a opera di arabi superano così di gran lunga tutti quelli addebitabili a Israele. Poi, negli ultimi 12 anni, tutti i media palestinesi hanno cresciuto generazioni di ragazzi che esaltano il martirio, che odiano gli ebrei "porci e scimmie", che non sanno aspirare ad altro se non a sparare e a morire. Contemporaneamente, l’Intifada delle stragi blocca ogni uso produttivo dei milioni di dollari piovuti dall’Europa, fa saltare ogni possibile integrazione del mercato del lavoro di Gaza in quello israeliano, fa arretrare di un terzo il reddito dei palestinesi, produce corruzione, elimina il lavoro dalla prospettiva culturale dei giovani cui indica solo il mitra. Ora, però, inaspettatamente, i palestinesi di Gaza hanno piena disponibilità della loro patria. Il problema è che non hanno la minima idea di che farsene. Nessuno glielo ha mai detto. Chi si preoccupa di dirglielo, come Hamas e le Brigate di al Aqsa, spiega che la patria di Gaza serve solo come retroterra per attaccare, accumulate le forze, "l’Entità Sionista" e distruggerla. Come sempre. A ridicolizzare le belle speranze nelle virtù taumaturgiche del voto di Abu Mazen. Carlo Panella Dappertutto, nell’arco di una decina di anni, i campi vengono smantellati. Lo stesso non accade per i palestinesi. C’è un motivo Di seguito "Oggi l’Autorità palestinese (non) assume il controllo di Gaza", di Emanuele Ottolenghi: Omicidi eccellenti, guerre di bande, un rapimento dimostrativo di un giornalista italiano (Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, ndr), sinagoghe bruciate, ma che Stato vogliono i palestinesi? E’ una domanda che merita risposte concrete, non solo la retorica della liberazione, ora che il ritiro d’Israele da Gaza si è concluso e, se il compromesso egiziano sui controlli frontalieri sarà accettato, l’occupazione israeliana sarà ufficialmente dichiarata finita. In meno di un mese i palestinesi insomma potrebbero trovarsi per le mani un territorio che, a differenza dell’area A sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese nell’ambito degli accordi di Oslo, sarebbe privo di sovrano oltre che di potenza occupante. Tutti, in quel caso, si aspettano che i palestinesi rivendichino la sovranità e procedano a esercitarla, de iure e de facto, proclamando uno Stato. Retorica antisraeliana a parte, uno Stato palestinese a Gaza non rappresenta né la fine del processo di pace né un inganno di Ariel Sharon per guadagnare tempo e consolidare l’occupazione della Cisgiordania. Esso rappresenta l’opportunità di attuare la seconda fase della road map, che prevede uno Stato palestinese provvisorio, con confini provvisori quindi, ma con tutti gli attributi statuali, a partire dalla sovranità, e gli obblighi che derivano dal diritto internazionale. L’esercizio della sovranità non è solo questione di simboli, come la bandiera, il cerimoniale, le parate in alta uniforme e le salve di cannone. Non è solo burocrazia, come i passaporti, i timbri e la moneta dello Stato. La sovranità significa controllo effettivo del territorio e monopolio da parte dello Stato del legittimo uso della forza. Come se la stanno cavando i palestinesi sul tema sovranità? Maluccio, visto l’assassinio del generale Moussa Arafat, il sequestro di Cremonesi e le feste alle sinagoghe assaltate di Hamas e dintorni ieri a Gaza. La responsabilità immediata dell’esecuzione di Arafat, presa dai Comitati popolari di resistenza, indica come occorre un po’ di dietrologia per risalire ai mandanti. I comitati sono un’organizzazione mercenaria, composta principalmente di fuoriusciti del movimento arafattiano di al Fatah, ma che ha offerto i propri servigi anche a Hamas negli ultimi mesi. Chi sia stato a commissionare l’eliminazione del personaggio rimarrà un mistero forse, ma restano dubbi sulla complicità delle autorità. La villa blindata di Arafat si trova a meno di 500 metri dagli uffici dove si trova il presidente Abu Mazen e a circa 300 metri dalla sede dei servizi di sicurezza palestinesi. Possibile che la sparatoria, durata circa un’ora, con cento uomini armati di mitra, fucili, lanciarazzi e granate e seguita dall’esecuzione di Arafat in mezzo alla strada, non abbia svegliato nessuno? Possibile che né le guardie presidenziali né i servizi di sicurezza siano intervenuti? Possibile che nessuno abbia chiamato la polizia? Possibile. Poche ore dopo l’accaduto i comitati hanno tenuto una conferenza stampa per spiegare il loro gesto. L’atto teatrale e con imponente dispiegamento di uomini, seguito dalla conferenza stampa, suggerisce l’impunità goduta dai sicari. I casi sono due: o si sentono intoccabili perché l’anarchia a Gaza è tale da impedire alle forze di polizia e di sicurezza di intervenire e interferire in tali circostanze – il che rende l’omicidio una sfida aperta ad Abu Mazen – o perché godono della protezione di potenti e della connivenza delle autorità – il che rende l’assassinio un delitto di Stato. Quale che sia la ragione, l’immagine che emerge da questo episodio, come dal rapimento di Cremonesi, è di uno Stato palestinese prossimo venturo in bilico tra l’anarchia di bande armate rivali in stile Beirut anni 70 e lo Stato mafioso che elimina i propri scomodi scheletri nell’armadio, facendo ricorso a milizie e mercenari, il cui potere comunque mette in discussione apertamente l’autorità costituita e il principio dello Stato di diritto, sollevando un pesante interrogativo sulla capacità palestinese di mantenere il controllo sovrano a Gaza. I palestinesi finora hanno addotto scuse sulla mancata attuazione della prima fase della road map, che impone loro di disarmare le milizie. Finché le milizie servono ad ammazzare israeliani, avanzando quindi la causa dell’Intifada, si può anche capire la logica, cinica ma limpida, dell’Autorità palestinese, che si nasconde dietro la scusa di essere troppo debole per affrontare i terroristi. Ma ora che l’Anp si appresta a inaugurare una stagione di sovranità e le milizie sparano le prime salve di una guerra civile che da tempo aleggia nell’aria, l’Autorità appare incapace di imporre la propria autorità. La feroce calata sul villaggio di Taba Nel frattempo, in Cisgiordania emerge un altro sintomo di quanto malposto sia l’ottimismo di chi inneggia all’indipendenza palestinese. Causa un legame romantico tra un cristiano palestinese di Taiba e una donna musulmana di Ramallah, una decina di giorni fa 500 uomini armati sono calati sul villaggio mettendolo a ferro e fuoco, senza essere disturbati dalle forze dell’ordine. La donna in questione era nel frattempo stata uccisa dai famigliari per salvare l’onore della famiglia. Anarchia, Stato mafioso e deriva islamista sono i tre scenari da evitare nel futuro Stato indipendente. Chi ha a cuore la causa palestinese dovrebbe sollevare questi problemi, specie mentre la comunità internazionale si appresta a riversare aiuti e fondi nelle casse dell’Anp, a scopo di ricostruzione e riabilitazione della Striscia. Prima di firmare assegni, occorre sollevare una semplice questione: che Stato, che società volete? Uno Stato democratico, dove regna il diritto e il governo rappresenta i suoi cittadini, servendone i bisogni e gli interessi? Uno Stato che appartiene, commercialmente, culturalmente e moralmente, al mondo moderno, al villaggio globale, mediterraneo ma orientato verso nord-ovest, cioè verso l’Europa e valori occidentali? O uno Stato dove la giustizia viene fatta manu militari da bande armate, dove la polizia non ha autorità, dove la mafia regna sovrana, dove leadership politica e malviventi si conoscono e si aiutano nelle rispettive guerre di potere, dove i partiti hanno milizie armate indipendenti e dove simboli statuali riflettono un vuoto istituzionale e sostanziale? O magari uno Stato dominato dalla legge coranica nell’interpretazione fondamentalista, dove cristiani, donne e omosessuali vengono perseguitati? Volete un Libano anni 70 o un Afghanistan anni 90? L’indipendenza palestinese, ancorché provvisoria e incompleta, è dietro l’angolo. E’ tempo che i palestinesi si pongano questa domanda e che i loro amici e alleati li incoraggino a comprendere che l’aiuto occidentale dipende dalla risposta che i palestinesi si vorranno dare. Infine, sempre di Ottolenghi "Sharon è cambiato, Fassino e Bertinotti un po’, ma tanta sinistra no": Dire che a sinistra Ariel Sharon non sia popolare è un eufemismo. Iconograficamente, il premier israeliano è da sempre un orco. Nei cinque anni di Intifada, poi, la sua immagine raramente ha assunto toni positivi nella retorica e nell’immaginario della sinistra europea. E questo non solo tra gli estremisti, per i quali Sharon è, con George W. Bush, l’incarnazione del male, ma anche in ambienti politici e intellettuali moderati rispettabili. Sharon è stato raffigurato dal quotidiano londinese The Independent intento a divorare un bambino il 27 gennaio 2003, giornata della memoria in cui si ricordano un milione e mezzo di bambini ebrei trucidati nell’Olocausto. Altrove, Sharon è apparso in divisa nazista o in veste di carnefice, vampiro e aguzzino. E’ generalmente bollato d’infamia per il suo ruolo di ministro della Difesa durante la Guerra del Libano (leggi: Sabra e Chatila), accusato di essere l’unico responsabile dell’Intifada per la sua passeggiata sul Monte del Tempio il 28 settembre 2000; spesso e volentieri paragonato ad Adolf Hitler e altri dittatori minori; l’epiteto "criminale di guerra" lo accompagna nella stampa europea. E pur essendo in abiti civili e in politica dal 1973, Sharon rimane il generale" Sharon. Nel migliore dei casi è militarista; basta rileggersi la stampa liberal europea nei momenti più salienti degli ultimi cinque anni per vedere che a Sharon non solo non si fanno sconti, ma che l’ostilità il sospetto verso il premier israeliano ha spesso sconfinato nell’ossessione, a tal punto da oscurare la svolta che il leader ha gradualmente portato a termine nella sua linea politica, nelle parole – spesso sommariamente respinte come tattica e retorica – come nei fatti. Che succede adesso che Sharon, da campione degli insediamenti e nemico implacabile delle aspirazioni palestinesi, si è ritirato da Gaza? Non solo. Sharon ha evacuato 9 mila coloni e smantellato gli insediamenti, che a sinistra sono visti come l’ostacolo principe alla pace. Ha annunciato che Gaza potrebbe essere un modello per altri insediamenti. Ha confermato che Israele non potrà rimanere in eterno in tutta la Cisgiordania. Ha ripetutamente sottolineato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Ha non solo promesso un piano di ritiro che, se accolto dai palestinesi come un’occasione per voltare pagina, potrebbe essere il preludio a un ritorno ai negoziati e alla fine del conflitto israelo-palestinese, ma lo ha anche portato a termine, nonostante il costo politico e i rischi che il piano comporta. Del cambiamento di Sharon se ne sono accorti tutti coloro che con il premier israeliano e le sue decisioni devono fare i conti. Il Pakistan potrebbe presto stabilire rapporti diplomatici con Israele e il presidente Pervez Musharraf ha definito Sharon "un grande soldato e un leader coraggioso". Giordania, Egitto, Turchia e Mauritania hanno rispedito i loro ambasciatori in Israele, dopo il gelo diplomatico calato durante l’Intifada. Il presidente egiziano Hosni Mubarak ha definito Sharon "uomo di pace", affermando che solo Sharon potrà fare la pace con i palestinesi. Se gli egiziani lo prendono sul serio, vorrà pur dire qualcosa. Da Jack Lang a Joschka Fischer Sharon è cambiato. E la sinistra? Dire sinistra ovviamente è fare una generalizzazione. Il ritiro da Gaza non lascia nessuno indifferente. Da Piero Fassino a Furio Colombo, da Jack Lang a Joschka Fischer, la sinistra moderata europea, quella che può e sa governare perché animata da moderazione e responsabilità istituzionale, ha applaudito non solo al gesto, ma anche all’uomo che ha compiuto la svolta di Gaza. Anche tra i commentatori cambia il timbro. Sandro Viola di Repubblica, spesso molto duro nelle sue critiche a Sharon, scriveva pochi giorni fa che "il ritiro da Gaza è stato dunque il segno decisivo d’una inversione di rotta nella politica e nella mentalità collettiva d’Israele". L’articolo non meritava necessariamente l’applauso, ma il tono è diverso. Parte della sinistra però continua a non vedere l’importanza del cambiamento e soprattutto mantiene le posizioni di sempre, aspettandosi che tocchi solo a Israele concedere, che Sharon abbia perso il pelo ma non il vizio, che il ritiro da Gaza sia un complotto per rafforzare la presenza israeliana nella Cisgiordania e frustrare per sempre le legittime ambizioni palestinesi a uno Stato. Marco Rizzo, per esempio, chiama "il maltolto" i territori, oggetto del contendere nel conflitto israelo-palestinese, in un articolo apparso sull’Unità. L’espressione ripete un adagio sinistro secondo cui l’occupazione israeliana sarebbe illegale, dimenticando che l’occupazione è conseguenza di una guerra difensiva (e non di un’invasione) e che per porre termine alle conseguenze di quella guerra esistono obblighi e meccanismi che riguardano non solo Israele, ma anche i palestinesi. Fintantoché quelle regole, sancite e ribadite da varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, non vengono rispettate dalla controparte araba e palestinese, Israele non ha l’obbligo di porre fine all’occupazione, la cui legalità prescinde dal rispetto delle singole norme internazionali che la regolano. Né Rizzo si ferma qui. Per Rizzo, il terrorismo palestinese si chiama, eufemisticamente, "il movimento di lotta palestinese". Per avviare un processo di pace occorre che Israele si ritiri dal resto dei territori, smantelli gli altri insediamenti e abbatta la barriera difensiva, ostinatamente definito "muro". Questi son gli ostacoli alla pace per Rizzo, non il terrorismo, di cui non fa parola. La cosa non sorprende più di tanto: "Chi sta dalla parte del torto sono i governi israeliani che si sono succeduti nel tempo. Certo errori, e anche enormi, li hanno fatti pure i palestinesi. Ma è lo scontro tra Davide e Golia, non una lotta tra pari. E finché sarà così, io starò dalla parte di Davide". Occhi chiusi sul terrorismo, dunque, perché in una lotta impari la parte più debole può ricorrere a qualsiasi mezzo evidentemente, senza che il giudizio morale che se ne dà sia rivalutato. E la sinistra, secondo Rizzo, deve stare dalla parte del più debole, perdonandone i crimini come atti veniali o comprensibili, e comunque meno gravi delle azioni di Golia. Rizzo non è il solo a pensarla così. Il suo è un pensiero liberal e radical di respiro globale. Daphna Baram, antisionista di turno di stanza al Guardian, quotidiano londinese liberal, ritiene che il ritiro da Gaza sia soltanto un complotto mirato a rafforzare le politiche di pulizia etnica di cui accusa Israele. E non è una voce isolata. La linea editoriale del quotidiano è che il ritiro da Gaza non è una concessione, tocca a Israele, non ai palestinesi, fare ancora molto prima di meritarsi un elogio. C’è poco da applaudire Sharon, insomma, come dichiara del resto il portavoce di Rifondazione comunista, Salvatore Cannavò, sulla scia dello scetticismo espresso da Oliviero Diliberto nelle sue critiche all’apertura di Fausto Bertinotti nei confronti di Sharon. Chi rifiuta di essere confuso dai fatti La sinistra insomma non cambia. Essendosi fatta un’idea dei torti e delle ragioni, dei buoni e dei cattivi, dei Davide e dei Golia (una distinzione manichea, specie se fatta da chi, da tre anni a questa parte, critica le distinzioni nette fatte nella guerra al terrorismo dal presidente americano George W. Bush come semplicistiche perché basate sulla separazione tra bene e male, buoni e cattivi, con noi o contro di noi. Davide e Golia? Indiani e cow-boy forse…), rifiuta di essere confusa dai fatti. Peccato. Chi non è in grado di comprendere il cambiamento nella storia è destinato a rimanerne escluso. E per una forza politica come la sinistra italiana, che aspira a riconquistare le redini del potere, stare al passo con la realtà non è un favore fatto all’orco e nemico di sempre, è una necessità. Chi, come Piero Fassino e persino Fausto Bertinotti, ha saputo esprimere apprezzamento per Sharon questo forse l’ha capito. Gli altri no. Sharon è cambiato. Avranno i suoi ossessionati critici a sinistra il coraggio di fare altrettanto? (e.o) Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.