I roghi delle sinagoghe: una provocazione di Israele o una "legittima critica" a Sharon ? quelli che giustificano l'ingiustificabile
Testata:La Repubblica - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - Avvenire - Europa - Il Manifesto Autore: Renato Caprile - Lorenzo Cremonesi -un giornalista - Barbara Schiavulli - Camille Eid - Rudy Francesco Calvo - la redazione - Tommaso Di Francesco - Michele Giorgio Titolo: «Cronache da Gaza»
Niente scritte blasfeme sui muri della sinagoga di Netzarim, solo nomi in rosso. Dunque, possiamo stare tranquilli: niente antisemitismo, nè odio religioso, nell'incendio delle sinagoghe di Gaza. Incendio che è un "atto barbarico" solo per la "destra israeliana" perché "visto che non ci avevano pensato loro ad abbatterli, era impensabile che li lasciassero in piedi proprio i palestinesi".
E' una isntesi delle prime incredibili righe dell'articolo "Gaza, via tutti i soldati israeliani" di Renato Caprile, pubblicato da LA REPUBBLICA di martedì 13 settembre a pagina 10.
Ecco il testo integrale: Sulla cupola della sinagoga di Netzarim, contro la quale inutilmente si accanisce una ruspa palestinese, sventola il drappo verde di Hamas. Ma su quel che resta dei muri del tempio non ci sono scritte blasfeme. Solo nomi in rosso: Mohammad, Kahled, Safat. I ragazzi che per primi, nella notte, l´hanno assaltata e che hanno firmato quel gesto come fosse una vittoria. A Kfar Darom, Morag e Neve Dekalim gli edifici religiosi ebraici sono stati invece incendiati. Un atto barbarico, secondo la destra israeliana. Certo un gesto non di pace, ma visto che non ci avevano pensato loro ad abbatterli, era impensabile che li lasciassero in piedi proprio i palestinesi. Alle dieci del mattino del primo giorno di libertà della Striscia, la strada del mare di Gaza city è strangolata dal più gigantesco ingorgo di uomini e mezzi - auto, pullman, taxi collettivi, carretti - che mai si sia visto. Un delirio. Qualcosa di biblico che sembra fare da contrappunto a una giornata storica, vagheggiata, sognata per trentotto lunghissimi anni. E oggi che finalmente si può, non c´è palestinese di Gaza, giovane o vecchio, che non voglia andare a vedere coi propri occhi come e dove viveva il nemico. Toccare con mano, curiosare in ogni angolo di quei 21 insediamenti fino a ieri inaccessibili. Come la spiaggetta di Neve Dekalim, forse non più bella di tante altre, ma diventata mitica proprio perché proibita: ieri nelle sue acque sono annegati cinque ragazzini che chissà da quanto sognavano di sguazzarci. È la faccia tragica di ogni grande festa di popolo. Un incidente, certamente non l´unico di questo particolarissimo 12 settembre. Attraversare l´enorme, polverosa spianata che porta a Netzarim è al limite dell´impresa. Il sole picchia forte e bisogna tenersi in equilibrio in mezzo a un mare di detriti. Ma per centinaia di giovani è solo un´allegra passeggiata. Eccolo l´alto reticolato che corre tutto intorno al perimetro dell´ex insediamento dove vivevano una trentina di famiglie di coloni. Qualcuno lo sfiora con le dita per sincerarsi che davvero non ci passi più la corrente. Sul cancello ora spalancato svetta la bandiera nera della Jihad islamica, accanto a quella dell´Autorità nazionale palestinese. Le vittorie, si sa, hanno sempre molti padri. E questa sembra averne già troppi. Dentro, solo macerie e polvere a perdita d´occhio in cui centinaia di mani rovistano in cerca di qualcosa di prezioso o semplicemente di un souvenir per dire un domani: "quella volta io c´ero". Qualcuno è invece venuto con altri scopi. S´è portato il carretto o il camioncino sul quale ammucchia diligentemente ogni genere di tubi e ferraglia da rivendere al mercato. Qualcun altro ha fatto incetta di bossoli. A dire il vero non c´è molto da portare via. I bulldozer israeliani hanno fatto davvero un buon lavoro e buttato giù, come era d´altra parte nei patti, tutto quello che c´era da abbattere. Sono rimaste in piedi, coperte da immensi teloni, solo le serre in cui si coltivavano fiori e verdure biologiche da esportazione. Qualche telone è sfondato, alcune piante sono bruciate, ma il grosso è pressoché intatto. Le forze di sicurezza dell´Autorità palestinese provvedono a che il "saccheggio" non si estenda anche lì. Laddove c´erano le case dei coloni, il cumulo di macerie lasciato dall´esercito israeliano è ancora più imponente. Un quaderno, un album da disegno, il braccio di una bambola, un nastrino rosso venuti fuori da quelle pietre, ora sono nelle mani di altri bambini che li guardano quasi increduli che anche i figli del nemico possedessero o giocassero con cose esattamente uguali alle loro. Moussa ha tredici anni. Il padre e un fratello morti per la causa palestinese. È lì fin dalle prime ore del mattino. Sembra deluso, però. Chissà cosa s´aspettava di trovare in quel posto che fino a ieri dalla strada non riusciva nemmeno a vedere. La cosa che più lo sconvolge, dice, è che tutto sommato poche persone vivessero in uno spazio così grande, mentre lui e i suoi fratelli sono costretti a pigiarsi in due stanze. Yasser di anni invece ne ha diciassette. Lui come Moussa fa parte di una generazione che è nata quando gli insediamenti già c´erano. Yasser confessa che gli sembra strano di poter essere lì: «E come se mi aspettassi di poter essere cacciato via da un momento all´altro - dice -. So che non è possibile, ma continuo a provare questa strana senzazione». Amjad invece è felice del suo ultimo acquisto: «Notizie della vittoria di Gaza», l´album musicale di propaganda con il quale Hamas ha deciso di celebrare il ritiro israeliano dalla Striscia. Sulla copertina c´è un militante dal volto mascherato accanto a uno stivale israeliano in fiamme. Dieci canzoni dai titoli che non lasciano dubbi, tipo «Abbiamo liberato Gaza», oppure «È tornata col sangue». Musica ritmata tamburi e violini. È l´ultima fatica della Yassin band, il gruppo che porta il nome dello sceicco Yassin, il leader spirituale di Hamas ucciso dagli israeliani. Il disco è un grande successo fra i giovani della Striscia. Forse non è andata come Hamas vuole far credere, ma Amjad, e non è il solo, ne è più che convinto. Lorenzo Cremonesi nell'articolo "Nelle colonie per un bottino di rottami", a pagina 9 del CORRIERE DELLA SERA introduce un ardito paragone. Quella di Gaza sarebbe una scena "che ricorda le settimane dopo la caduta del regime di Saddam nell'aprile 2003". Israele come la tirannia baathista, e magari le sinagoghe come le statue di Saddam? Comunque, ci rassicura il nostro, tra allora e oggi c'è una differenza: "in Iraq si trattava di saccheggio. Oggi a Gaza è stato invece un lavoro da rigattieri senza un soldo, da robivecchi con le scarpe sfondate tra gli scarti abbandonati dai coloni e dall'esercito israeliano". Niente saccheggio, ma "lavoro da rigattieri senza un soldo": come una prosa fantasiosa rende la realtà più ricca, inventando classificazioni e sottoclassificazioni, fermo restando che tutto ciò che è avvenuto a Gaza, incendi compresi non è che "la cerimonia di una gigantesca riappropriazione collettiva".
Ecco il testo integrale: E' come la marea montante, inesorabile, inarrestabile. Carretti tirati da muli, gipponi, auto di ogni tipo, biciclette. Tantissimi semplicemente a piedi, portandosi sulle spalle giganteschi sacchi di iuta dove mettere il «bottino»: lamiere, spezzoni di fili elettrici, rimasugli di tubi per l'irrigazione, travi di legno, barre in alluminio, infissi, una ruota arrugginita di bicicletta, vasi da fiori bucati, scheletri di lavatrice, seggiole sfondate. Nessuno è andato a lavorare, le scuole sono rimaste chiuse. E sin dall'alba la gente di Gaza si è riversata in quelle che sino all'altra notte erano state zone tabù, irte di fili spinati e torrette di avvistamento: le colonie ebraiche appena distrutte e evacuate da Israele. Così ieri nella Striscia diGaza si è celebrata la cerimonia di una gigantesca riappropriazione collettiva. Una scena che ricorda le settimane dopo la caduta del regime di Saddam nell'aprile 2003. Con una differenza però: in Iraq si trattava di saccheggio. Oggi a Gaza è stato invece un lavoro da rigattieri senza un soldo, da robivecchi con le scarpe sfondate tra gli scarti abbandonati dai coloni e dall'esercito israeliani. Come quei 5 quindicenni provenienti dal campo profughi di Nusseirat, che verso mezzogiorno se ne uscivano con aria trionfante dall'ex colonia di Netzarim a bordo di due carretti di legno trascinati da asinelli e seduti su pigne traballanti di rottami. «Siamo qui dalle 4 della mattina. In otto ore abbiamo raccolto roba per un valore di 80 shekel», dicevano con lo sguardo vigile, attenti a che nessuno cercasse di rubare qualcosa. Avrebbero guadagnato non più di 3 euro a testa. A Netzarim ci arriviamo attraversando per mezz'ora a piedi un'ampia distesa sabbiosa. Le strade da Gaza City sono totalmente paralizzate dal traffico. La folla è fatta di formiche impazzite, che scavano, tagliano, accumulano e portano via. La sinagoga, uno dei pochi edifici ancora in piedi, è stata parzialmente bruciata. L'autorità palestinese ha inviato un piccolo bulldozer per abbatterla il più presto possibile. Ma con poco successo. Qualcuno vorrebbe trasformarla in moschea e prega. Ma per i più ciò che conta è solo il bottino, non importa se preso dalle macerie di una casa, o dalle finestre della sinagoga. In una zona tra le dune ecco le milizie armate del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Una quarantina di uomini, tutti in mimetica, i volti mascherati, i mitra a tracolla e le bandane rosse in testa, dicono di stare «sminando». In effetti recuperano vecchi proiettili inesplosi. Con loro hanno le foto dei «martiri» morti cercando di infiltrarsi nelle aree occupate da Israele. Questa è la loro santabarbara e allo stesso tempo un santuario. In modo assurdamente pericoloso, prendono gli ordigni e cercano di svuotarli per recuperare l'esplosivo che servirà per costruire i missili artigianali da lanciare contro Israele. Più in là, sulla strada che conduce verso il campo profughi di Deir Al Balah e l'ex colonia ebraica di Kfar Darom, sono attestate le milizie in tuta nera della Jihad islamica. La zona centrale di Gush Katif è invece presidiata dagli uomini delle Ezzedin Al Qassam, braccio armato di Hamas, in competizione con le Brigate al Aqsa, le cellule di fuoco del Fatah. «Un fallimento totale. Se ci fossimo coordinati con gli israeliani prima del ritiro, magari noi della polizia palestinese avremmo potuto impedire l'invasione delle milizie. Ma qualcosa non ha funzionato e ora è troppo tardi. Non possiamo che adeguarci», ammette Issa Zani, 21 anni, capitano delle forze di polizia mandate dal governo di Abbas. Basta poco per capire che a Gaza è nato ieri un panorama da Libano anni Ottanta, dove l'esercito regolare rischia di rimanere impotente, marginalizzato. Qualche successo lo riportano solo le unità della Forza 17, che una volta avevano il compito di difendere Arafat. Sono state dispiegate per impedire la distruzione delle serre comprate agli israeliani grazie agli aiuti internazionali per 14 milioni di dollari. E sino a ieri sera c'erano riuscite. Per ora la gente di Gaza festeggia. Come le decine di migliaia di abitanti di Khan Yunis. Vivono nelle catapecchie a meno di 3 chilometri dal mare. Eppure moltissimi tra loro non l'avevano mai visto a causa della presenza delle colonie di Gush Katif. Ieri si sono precipitati verso la spiaggia. Si realizza anche il sogno di Adjib Sheibar, 52 anni, residente nel quartiere di Sabra. E' proprietario di una ditta di trasporti con 13 camion. Racconta: «Sino a una decina di anni fa viaggiavo dovunque in Israele. Ma poi gli israeliani mi hanno costretto a restare all' interno di Gaza. Negli ultimi tempi a causa dei posti di blocco i miei camion percorrevano in 3 giorni i 48 chilometri da Jabalia a Rafah. Ora non ci impiegheranno più di mezz'ora». IL SOLE 24 ORE pubblica a pagina 8 un articolo intitolato "Gaza passa di mano. sinagoghe in fiamme". Inquietante l'esordio: "La stella di Davide non sventola più a Gaza", che si riferisce al ritiro dell'Esercito, ma richiama evidentemente anche la distruzione delle sinagoghe, assimilate a simboli di dominazione militare.
Sposa la tesi palestinese della "provocazione israeliana" anche la cronaca di Barbara Schiavulli "Palestinesi nelle colonie, sinagoghe in fiamme", pubblicata da AVVENIRE a pagina 5, che di seguito riportiamo:
Del resto l'articolo definisce così i templi bruciati: "simboli sacri dove i coloni più intransigenti si erano barricati per l'ultima strenua lotta contro il disimpegno". Di tale valore simbolico, per altro, " gli israeliani erano ben consci": insomma, se la sono cercata. Hanno anzi, come sostiene Mohammed Dahlan teso una trappola ai palestinesi, per sfruttare la distruzione delle sinagoghe per presentare i palestinesi come "un popolo incivile" e per "giustificare futuri atti di violenza contro luoghi di preghiera musulmani". Commento del giornalista a queste dichiarazioni, che non esprimono la minima condanna per l'atto di intolleranza, ne rigettano la responsabilità su Israele, aggiungendo accuse fantasiose (la volontà di giustificare futuri attacchi a luoghi sacri islamici): "La condanna del resto non è tardata ad arrivare: il presidente Moshe Katzav ha accusato i palestinesi..." La condanna di Israele per un gesto di barbarie utilizzata come "prova" che quel gesto sia stato deliberatamente "causato" per poterlo condannare: un circolo vizioso da un punto di vista logico e una chiara volontà di dare di Israele un' immagine di vera e propria perfidia. Seguono dettagliate informazioni sulle rimostranze palestinesi circa l'"occupazione" di Gaza che sarebbe ancora in corso, compreso il falso, non smentito dal quotidiano, per cui il valico di Erez non sarebbe situato lungo la linea verde. Falso preso apretesto dall'Anp per rifiutare ogni discussione concreta sulla gestione comune del valico e sulla circolazione di persone e merci. Hanno atteso che uscisse l'ultimo soldato israeliano, poco prima dell'alba e migliaia di palestinesi si sono riversati in quella che fino a poche settimane fa era la Gaza israeliana. «La missione è stata completata. Un'era si è conclusa», ha detto il generale Kochavi che guidava la fase finale del ritiro israeliano. È bastato un attimo e, nel buio della notte, il cielo di Gaza si è illuminato dei fuochi, degli spari, delle urla e dei canti. I palestinesi hanno festeggiato la fine di un'occupazione lunga 38 anni. Qualcosa che, almeno per un attimo, ha avuto il sapore della libertà. Si sono arrampicati sulle macerie delle case demolite dei coloni piantando bandiere di tutte le fazioni, e appiccicando poster con le facce dei leader scomparsi. Si sono aggirati tra i cortili dove crescevano fiorellini e spezie. Ma soprattutto si sono tuffati in quel mare che molti non avevano mai visto, pur sentendo l'infrangersi delle onde a pochi chilometri di distanza. La gioia della conquista si è però tramutata presto in una tragedia: quattro bambini sono affogati, uno è stato salvato. Tanti altri ragazzini si sono arrotolati i jeans fino alle ginocchia e poi si sono tuffati senza pensieri, in quell'acqua blu che hanno solo potuto immaginare per tanti anni. Mahmoud Barbakh e Mohammed Journan, quindicenni, hanno sempre vissuto a pochi minuti dalla spiaggia, eppure non ci erano mai stati. «È la cosa più bella del mondo stare nell'acqua», ha detto Mahmoud, che non ha mai imparato a nuotare. Alle sue spalle, in lontananza, un ragazzo faceva surf con lo sportello di un frigo. Dall'altra parte della spiaggia, dentro a quello che è rimasto degli insediamenti, c'erano i grandi, con i loro motivi per calpestare quella terra. Qualcuno era solo curioso, qualcuno voleva toccare quella sabbia che tanti anni fa gli apparteneva; qualcun altro è arrivato sparando e piantando con arroganza una bandiera di Hamas. Il capo dell'ala politica, Mahmoud Zahar, non ha perso tempo a lanciare il suo messaggio, andando a pregare dentro la sinagoga di Neve Dekalim a forma di stella di David. Tutto sotto gli occhi di 15mila poliziotti palestinesi, che non hanno avuto la forza e la possibilità di fermare nessuno. Gli israeliani non hanno abbattuto le loro sinagoghe e i palestinesi ne hanno messe a ferro e a fuoco almeno quattro, fino a che non sono arrivati i bulldozer. Irritati gli israeliani: «Non hanno rispetto dei luoghi sacri», ha detto il presidente israeliano Katzav, mentre il ministro della Difesa Mofaz prometteva «tolleranza zero» in caso di fuoco palestinese da Gaza, e moschee «blindate» sulla Spianata, a Gerusalemme. Si difendono i palestinesi: «La decisione di lasciare in piedi la sinagoghe è una trappola - ha detto Mohammed Dahlan, ministro dell'Anp per gli Affari civili -. Gli israeliani sfrutteranno la distruzione delle sinagoghe per presentarci come un popolo incivile e per giustificare futuri atti di violenza contro luoghi di preghiera musulmani». D'accordo anche gli americani: «La decisione di Israele di lasciare ai palestinesi la scelta sulla distruzione o meno delle sinagoghe mette l'Anp nelle condizioni di essere criticata qualsiasi cosa faccia», ha detto Sean McCormack, portavoce del Dipartimento di Stato. L'onda palestinese si è poi lanciata verso il confine egiziano. La città di Rafah, divisa in due 38 anni fa, si riunita come per magia la scorsa notte. E mentre si riabbracciavano parenti che per anni interi sono stati solo "voci" al telefono, uomini di Hamas sfondavano le linee in quella zona considerata il punto in cui passava il traffico di armi verso la Striscia. Un palestinese è morto, ucciso da un soldato egiziano, dicono i palestinesi, ucciso dagli spari in aria dei festeggiamenti, rispondono gli egiziani, ancora in fase di dispiegamento di 750 soldati che pattuglieranno il confine. «È una vittoria, un giorno di felicità come il popolo palestinese non ne vedeva da un secolo», ha commentato il presidente Abu Mazen. Che è rimas to però con i piedi per terra, preoccupato di come tenere sotto controllo la Striscia. «La Striscia resta una grande prigione - ha detto - e la partenza dell'esercito non cambia la situazione». Intervistando l'esponente palestinese Haidar Abdel Shafi, Camile Eid sembra quasi difendere il rifiuto di Hamas a consegnare le armi all'Anp, come emerge da questo scambio di battute:
"Hamas e Jihad islamica sono pronti a partecipare alle prossime elezioni, ma non intendono rinunciare alle armi. È logico questo ragionamento? Sicuramente, no. Non è nel nostro interesse. La questione del disarmo o meno delle fazioni va tuttavia affrontata con spirito democratico. Non ci deve essere spazio per le decisioni individuali. Sì, ma alla luce di che cosa? Della disponibilità di Israele, ad esempio, a ritirarsi dai territori della Cisgiordania? Rimangono in sospeso varie questioni. È nota la posizione di Israele nei confronti dei diritti palestinesi. A noi tocca tuttavia adottare la politica dialettica e negoziale. Ma ci vuole prima un minimo di organizzazione abbinato a uno sforzo mediatico".
Per il resto, l'intervista risulta del tutto acritica. Eid non ha nulla da obiettare alle posizioni di Shafi.
Ecco il testo completo, "No a decisioni unilaterali, serve più democrazia": «Adesso che le forze israeliane si sono ritirate dalla Striscia di Gaza, mi auguro che le diverse fazioni palestinesi si mettano a tavolino per esaminare insieme come affrontare le sfide in agguato. Solo questa logica può risparmiarci l'insidia del conflitto interno». Le parole del dottor Haidar Abdel-Shafi sono cadenzate con lucida convinzione. Classe 1919, ha guidato quattordici anni fa la delegazione palestinese alla Conferenza di Madrid, prima di ritirarsi per protesta contro le trattative parallele di Arafat a Oslo. Molto stimato tra i palestinesi, Abdul-Shafi ha raccolto a Gaza il maggior numero di voti alle ultime elezioni legislative. Gaza è piena di armi. Chi dovrà assumere l'onere della sicurezza dopo il ritiro israeliano? È un compito di tutti. Nessuna fazione ha il diritto di monopolizzare niente. Né al-Fatah, né il Fronte popolare né quello democratico. Se mancasse il coordinamento e le tendenze individuali e partitiche avessero la meglio ci troveremmo in una brutta situazione. Ci vuole un comando unificato di tutte le fazioni. Hamas e Jihad islamica sono pronti a partecipare alle prossime elezioni, ma non intendono rinunciare alle armi. È logico questo ragionamento? Sicuramente, no. Non è nel nostro interesse. La questione del disarmo o meno delle fazioni va tuttavia affrontata con spirito democratico. Non ci deve essere spazio per le decisioni individuali. Sì, ma alla luce di che cosa? Della disponibilità di Israele, ad esempio, a ritirarsi dai territori della Cisgiordania? Rimangono in sospeso varie questioni. È nota la posizione di Israele nei confronti dei diritti palestinesi. A noi tocca tuttavia adottare la politica dialettica e negoziale. Ma ci vuole prima un minimo di organizzazione abbinato a uno sforzo mediatico. Lei era molto critico nei confronti dell'Anp per il modo di fare di Arafat. Le cose sono migliorate con Abu Mazen? Il punto di debolezza dell'Anp è la sua noncuranza dell'organizzazione. Molti responsabili non si rendono conto della necessità di privilegiare gli interessi pubblici su quelli privati. Non vengono poi definite le priorità né i ruoli di ciascuno e tutto ciò porta a situazioni spiacevoli come il recente assassinio di Moussa Arafat. È importante tuttavia non cadere nel ciclo delle vendette. C'è chi teme che il ritiro israeliano nasconda qualche trappola... No, lo escludo. È importante, tuttavia, che siamo all'altezza e ci atteniamo a esigere per vie legali i nostri diritti. Abbiamo sofferto molto, ora basta. È tempo di svegliarsi e di agire secondo il diritto nonostante le grandi sfide. Il governo di Sharon considera questo ritiro come un ultimo sacrificio… Non accetteremo uno Stato più ridotto dei confini del '67. Questo l'abbiamo rivendicato a Madrid e continuiamo a rivendicarlo. Lo so, Israele intende imporre un fatto compiuto con la costruzione del Muro, ma è nostro compito convincere il mondo dei nostri diritti e opporvisi con tutti i mezzi. Hamas e Jihad considerano il ritiro una vittoria della loro politica di resistenza. Che ne pensa? Queste sono piccolezze. Nessuno deve attribuirsene da solo il merito perché tutti i palestinesi hanno contribuito a questo risultato. Unico articolo corretto pubblicato dal quotidiano cattolico sull'argomento, l'analisi di Graziano Motta che riportiamo di seguito.
Alla quale però è stato dato un titolo del tutto inapproriato "Gli atti sacrileghi a Gaza tragica conseguenza dello scaricabarile tra governi ". In realtà Motta nell'articolo non descrive nessuno scaricabarile, ma riferisce delle precise richieste di autorità rabbiniche, dell mancanza di tempo per procedere alla demolizione e delle norme internazionali che tutelano gli edifici sacri, cui Israele si è inutilmente appellata.
Ecco il testo dell'articolo: La vicenda delle sinagoghe è una pagina amara del ritiro di coloni e soldati dalla striscia di Gaza, con precedenti e risvolti segnati da controversie a tutti i livelli, dal politico e religioso a quello giudiziario, destinati ad accentuare contrasti su una materia delicatissima. Scontata la carica emotiva suscitata dai rabbini militanti nelle organizzazioni nazionaliste e tra i fedeli osservanti, tanto che nelle sinagoghe di parecchi insediamenti e villaggi il mese scorso si è manifestata la resistenza a oltranza dei coloni ai soldati e agli agenti di polizia incaricati di far rispettare l'ordine di evacuazione di case e fattorie. Unanime era stata la raccomandazione dei rabbini al governo di non far demolire alcun edificio sacro che in effetti è stato risparmiato dalle ruspe. Da tutti erano stati comunque recuperati e trasferiti altrove, con la dovuta solennità, i rotoli della Torah. E tuttavia il governo aveva difeso ad oltranza dinanzi all'Alta Corte di Giustizia il ministro della difesa Mofaz che voleva la completa demolizione di tutte le sinagoghe perché ne fosse evitata la prevedibile profanazione. Per la stessa ragione dai cimiteri degli insediamenti era stata autorizzata la riesumazione delle salme e il loro trasferimento in Israele. Domenica scorsa, a poche ore, dal ritiro dei soldati, l'irrisolta vicenda delle sinagoghe è tornata giocoforza all'attenzione del Consiglio dei ministri e a sorpresa quello della Difesa Mofaz ha chiesto che non venissero più demolite. Immediata la reazione dei membri laburisti che non riuscivano a comprendere il cambiamento. In effetti non c'era più il tempo di rimettere in azione le ruspe e poi è stato evocata la tutela di ogni edificio sacro sancita da norme e convenzioni internazionali. Che i palestinesi si adeguassero. Solo che l'Anp ha fatto subito sapere che non era in grado di tutelarne alcuno; e come i suoi 15 mila agenti non sono stati capaci di arginare la folla festante che si riversava sui terreni ove sorgevano i villaggi ebraici, così non sono stati in grado di impedire che le sinagoghe venissero date alle fiamme e devastate. Ora l'indignazione di rabbini e fedeli osservanti è alle stelle, («cosa avverrebbe, si chiedono fra l'altro, se in Israele o altrove nel mondo,venisse scalfita una sola moschea?»); nella città di Hebron la circolazione stradale è stata bloccata per protesta in alcuni quartieri palestinesi; il capo dello Stato Katzav ha detto che «nulla è stato fatto per impedire gli atti inumani di vandalismo»; il ministro degli Esteri Shalom, parlando di «azioni barbare» ha contestato la dichiarazione del presidente palestinese Abu Mazen secondo cui le sinagoghe di Gaza avevano perduto ogni valore simbolico. E sostiene una richiesta di condanna da parte dell'Onu. Il seguito è dunque, e purtroppo, assicurato. Indifferente ai roghi di sinagoghe anche EUROPA, quotidiano della Margherita, che titola a pagina 2 "Sinagoghe bruciate a Gaza liberata (liberata da che? dagli ebrei?, non certo dall'intolleranza e dalla violenza, ndr)Ira israeliana Anp: trappola politica". Nell'articolo, di Rudy Francesco Calvo si possono leggere passaggi del seguente tenore: «Atti barbarici», li ha definiti il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom. In realtà, la demolizione delle sinagoghe presenti sui territori liberati dai coloni era stata prevista dall’Anp". In "realtà" la demolizione delle sinagoghe era "prevista" dall'Anp (in spregio agli obblighi di tutela dei luoghi sacri previsti dal diritto internazionale) per cui "in realtà" gli incendi non sono "atti barbarici" La tesi dell'articolo è naturalmente quella dell'Anp: l'incendio delle sinagoghe come prodotto di una "provocazione" israeliana. Distinguono il testo di Calvo alcune perle:"Persino Hamas", ci informa, "ha deciso di festeggiare pacificamente quella che ritiene una propria vittoria, frutto della strategia violenta piuttosto che dei colloqui diplomatici. A salutare la liberazione dei Territori, è stato pubblicato infatti ieri un album musicale di propaganda, intitolato "Notizie della vittoria di Gaza", opera della Yassin band, il cui nome richiama lo sceicco leader spirituale di Hamas". Inoltre, sempre "pacificamente", sono state incendiate alcune sinagoghe, in linea del resto con gli insegnamenti "spirituali" dello sceicco. Tuttavia: "Il movimento armato palestinese annuncia comunque le proprie intenzioni di continuare la lotta armata finché l’intera regione(l'intera "regione"? Perché non scrivere a chiare lettere "finché Israele non sparirà?", ndr) non sarà abbandonata dagli israeliani"
Ecco il testo integrale: Adetta del presidente dell’Anp Abu Mazen, quella di ieri è stata «una giornata di gioia, un giorno come il popolo palestinese non ne vedeva da un secolo». Il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza è stato completato alle 5.50 ora italiana, quando il generale Avi Kochavi ha attraversato il passaggio di Kissufim, abbandonando, per ultimo, i territori occupati dallo stato ebraico per trentotto anni. La difficoltà maggiore, riconosce il leader palestinese, consiste adesso nell’imporre l’ordine all’interno dei territori della Striscia, senza per questo disarmare Hamas. Abu Mazen si è imposto un limite di tre mesi di tempo per raggiungere questo obiettivo, contando sull’aiuto che deve giungere sia dagli Stai Uniti che dallo stesso stato di Israele. Il compito non sarà comunque semplice, se è vero che già ieri, subito dopo il ritiro, le forze dell’ordine palestinesi non sono riuscite a fermare le manifestazioni organizzate da centinaia di palestinesi, tra i quali si sono inseriti anche alcuni gruppi armati. Così, tra lo sventolio festante di bandiere dell’Anp e di Hamas, ci sono satti episodi che sarebbe stato bello non vedere, come gli incendi di almeno quattro sinagoghe, nelle ex colonie di Kfar Darom, Morag, Natzarim e Neve Dekalim, provocando gravi danne alle strutture. «Atti barbarici», li ha definiti il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom. In realtà, la demolizione delle sinagoghe presenti sui territori liberati dai coloni era stata prevista dall’Anp, tanto che i bulldozer palestinesi hanno già ieri iniziato il loro lavoro. La questione era stata affrontata domenica scorsa anche all’interno del governo israeliano. A prevalere nettamente (con quattordici voti, tra cui quello del premier Sharon) è stata l’ipotesi di lasciare intatti gli edifici religiosi, mentre a favore della distruzione "preventiva", rivolta ad evitare prevedibili azioni dissacratorie da parte dei palestinesi, si sono espressi solo i ministri laburisti Pines-Paz e Ramon. La decisione del governo israeliano è stata criticata dal ministro per gli affari civili palestinese, Mohammad Dahlan, che l’ha definita «una trappola politica», tesa a fornire un pretesto agli estremisti ebraici che, in caso di profanazione delle sinagoghe, non esiterebbero a comportarsi allo stesso modo con le moschee. Il ministro ha spiegato comunque che i palestinesi non avrebbero fatto distinzioni tra edifici religiosi o laici, tutti destinati alla distruzione. L’unica struttura risparmiata sarà una base dell’esercito israeliano, che sarà utilizzata come quartier generale delle forze di sicurezza palestinesi nel sud della Striscia di Gaza. Peraltro anche il dipartimento di stato americano si era espresso contro la decisione di Israele, prevedendo – per bocca del portavoce Sean McCormack – che, stando così le cose, l’Anp si sarebbe trovata «nella situazione di essere criticata qualsiasi sia la scelta». Nonostante le premesse poco incoraggianti, comunque, nei Territori la calma è stata ristabilita già nella tarda mattinata di ieri. Soltanto a Rafah, al confi- ne tra Gaza e l’Egitto, gli scontri si sono acutizzati, provocando la morte di un manifestante palestinese, caduto probabilmente sotto i colpi delle guardie di frontiera egiziane, schierate a difesa del cosiddetto "corridoio Filadelfia", un territorio cuscinetto lungo quattordici chilometri ricavato dagli israeliani lungo il confine. Decine di palestinesi avevano violato quell’area, spinti dalla gioia di poter riabbracciare i parenti e di poter rivedere luoghi fino a poche ore prima inaccessibili. Persino Hamas ha deciso di festeggiare pacificamente quella che ritiene una propria vittoria, frutto della strategia violenta piuttosto che dei colloqui diplomatici. A salutare la liberazione dei Territori, è stato pubblicato infatti ieri un album musicale di propaganda, intitolato "Notizie della vittoria di Gaza", opera della Yassin band, il cui nome richiama lo sceicco leader spirituale di Hamas. Il movimento armato palestinese annuncia comunque le proprie intenzioni di continuare la lotta armata finché l’intera regione non sarà abbandonata dagli israeliani. «Il nostro popolo – afferma Hamas – non accetterà che Gaza diventi una prigione: ci devono concedere libertà di movimento ». Il riferimento è rivolto alla chiusura, ordinata dal governo israeliano, del valico di Rafah, impedendo così il passaggio verso l’Egitto. La tregua armata proseguirà fino alle elezioni di gennaio, cui Hamas vuole partecipare, ma, annuncia il numero due del movimento Ahmed al Jabari, «taglieremo qualunque mano cerchi di toglierci le armi. La jihad e la resistenza sono gli unici modi per liberare la patria». Israele lascia la "Striscia" titola IL MANIFESTO in prima pagina. Nel breve articolo che segue è subito chiaro che la colpa degli incendi delle sinagoghe è di Israele: "Devastate le sinagoghe che il governo Sharon, ribaltando una decisione dell'Alta corte, aveva deciso di non abbattere, come era avvenuto per gli ex insediamenti" sintetizza il quotidiano comunista. Ancora una volta, Israele se l'è cercata. Intanto "Hamas fa sapere che continuerà la resistenza in Cisgiordania" Se ammazzare gli ebrei senza distinzione di sesso e di età diventa "resistenza", perché stupirsi che le sinagoghe bruciate non destino indignazione?
Accanto a questo testo la vignetta di vauro rappresenta un bambino con una bandiera palestinese dentro un quadrato di filo spinato, che con aria triste dichiara: "Gaza mia, Gaza mia per piccina che tu sia". E' uno dei let motiv degli articoli dedicati dal quoitidiano comunista al completamento del ritiro da Gaza: ancora non basta , Gaza è solo una "prigione a cielo aperto"
In particolare l'editoriale di Tommaso Di Francesco "La Palestina è vicina" chiede una mobilitazione dei pacifisti contro Israele e di "far entrare la questione palestinese nelle primarie italiane". Auspicio condivisibile quest'ultimo: sarebbe bene sapere chi condivide le tesi di Di Francesco che, sull'incendio delle sinagoghe, arriva a scrivere dell'" ultima provocazione di Sharon: lasciare ai palestinesi l'onere di distruggere le sinagoghe". Di Francesco critica anche la distruzione delle "belle case dei coloni" per far posto a case popolari, forse ignorando che era stata richiesta dall'Anp ( o forse non ignorandolo affatto, che importa in fondo). L'accusa di antisemitismo è, naturalmente "improponibile". Ora è ufficiale: per IL MANIFESTO bruciare sinagoghe è una "legittima critica al governo di Israele".
Una giustificazione esplicita della distruzione degli edifici religiosi a Gaza si trova nell'articolo di Michele Giorgio, pubblicato a pagina 3, il cui titolo esultante, "Via i soldati, nell'alba Gaza è festa infinita" , ignora totalmente la questione. I palestinesi, ci informa il nostro, dovevano abbattere le sinagoghe perché erano "timorosi che lasciandole in piedi avrebbero rappresentato uno stimolo perenne "al ritorno" per gli estremisti israeliani che non hanno digerito il ritiro da Gaza".
Di seguito, gli articoli: "Israele lascia la "Striscia":
L'ultimo soldato israeliano ha lasciato la Striscia di Gaza ieri mattina, quando mancavano dieci minuti alle sette. Per i palestinesi si è trattato di un risveglio di festa, dopo 38 anni di occupazione militare che in uno spazio di terra angusto e sovrappopolato ha fatto centinaia di vittime civili. Migliaia di persone si sono riversate in strada per celebrare il ritiro dei militari. Devastate le sinagoghe che il governo Sharon, ribaltando una decisione dell'Alta corte, aveva deciso di non abbattere, come era avvenuto per gli ex insediamenti. Le guardie di frontiera egiziane uccidono un uomo che stava attraversando il confine assieme a centinaia di amici. Abu Mazen avverte: che la terra liberata non diventi una prigione. Hamas fa sapere che continuerà la resistenza in Cisgiordania. Finite le celebrazioni, resta un territorio senza truppe occupanti ma quasi completamente dipendente da chi - il governo di Tel Aviv - ne controlla le frontiere, lo spazio aereo e marittimo. "La palestina è vicina": Dopo 38 anni d'occupazione militare, è esplosa la gioia dei palestinesi. Ieri l'ultimo carro armato israeliano ha lasciato la Striscia di Gaza. Lasciando l'ultima provocazione di Sharon: scaricare sui palestinesi l'onere di distruggere le sinagoghe degli insediamenti ebraici che sapientemente i bulldozer israeliani avevano risparmiato dopo avere invece demolito le belle case dei coloni perché, hanno detto, «ai palestinesi servono case popolari». Dopo tante distruzioni di case palestinesi, Israele poteva lasciar «vivere» quelle abitazioni e l'Anp - che oggi dovrà difendersi dall'improponibile accusa di antisemitismo - avrebbe dovuto smarcarsi e decidere che le strutture delle ex sinagoghe potevano diventare «luoghi aperti» nei nuovi Territori liberati, per fermare nella «terra più amata» la storia millenaria del dio che divide. Ma certo è impossibile valutare il peso dell'autorità dell'Anp a Gaza in preda ad una euforia inusitata e a tanta rabbia dopo un'epoca di stragi. Ora il presidente palestinese Abu Mazen è costretto a far buon viso a cattivo gioco e a leggere nel ritiro unilaterale del governo israeliano la «dimostrazione» che è davvero possibile porre fine all'occupazione militare della Cisgiordania, mandando a dire che «adesso Gaza non deve essere più una prigione». Perché sul confine egiziano, per controllare la sicurezza d'Israele, saranno schierati l'esercito del Cairo e i doganieri dell'Ue, mentre lo spazio aereo e quello marittimo della Striscia restano sotto controllo israeliano e non c'è al momento alcuna via legale di collegamento tra Gaza e Cisgiordania. Anche da questo si può capire che non è nato nessuno stato palestinese.
Eppure il governo israeliano ha mandato in onda, per due mesi, il «doloroso ritiro da Gaza» esattamente per ipotecare gli accordi internazionali raggiunti con la Road Map e, prima ancora, a Wye Plantation, che impegnano Tel Aviv al ritiro vero e proprio - e concordato -, cioè quello dalla fertile e preziosa Cisgiordania. Non solo, il ritiro dalla Striscia è stato alla fine possibile perché Sharon ha ricompattato la destra al governo, il Likud nonostante Netanyahu, i coloni, l'esercito e la sua opinione pubblica sull'obiettivo della colonizzazione della Cisgiordania. Che, semplicemente, continuerà. Lì non si tratta di piccoli villaggi o accampamenti di estremisti, ma di città edificate, o in costruzione, con megainvestimenti governativi degli ultimi mesi: 127 insediamenti, ognuno difeso da avamposti militari. Come continuerà la costruzione del Muro che ruba terre e risorse ai palestinesi e l'occupazione di Gerusalemme est. Mentre dei profughi palestinesi in giro per il Medio Oriente non parla più nessuno - tranne l'ineffabile Piero Ostellino per il quale sarebbe «anacronistico» chiamare profughi i tre milioni di palestinesi delle nuove generazioni sparsi nei campi del mondo arabo non per necessità ma per «propaganda» (sic).
Qual è il punto? Sharon, nel disprezzo assoluto della comunità internazionale e soprattutto dei palestinesi, ha voluto e imposto un ritiro unilaterale
Cioè ha deciso il solo ritiro da Gaza. Già presentato da Dav Weisglass, il più autorevole dei consiglieri di Sharon, come «formalina per far dimenticare lo stato palestinese». Ma interpretato quasi da tutti come il ritiro tout-court. E giù apprezzamenti e vesti strappate anche a sinistra. Come se quello fosse il ritiro previsto negli accordi di pace con i palestinesi, accordi sempre violati e stracciati. Dall'uccisione di Rabin per mano degli estremisti ebrei alla rioccupazione militare dei Territori palestinesi, fino all'esautoramento di Arafat. Si fa un bel discutere su come è morto o sarebbe stato ucciso l'ex presidente palestinese. Dimenticando che averlo relegato in una stanza di Ramallah per quasi tre anni, sottoposto ad ogni oltraggio, è stato molto più che ucciderlo. Ora Gaza liberata rischia di diventare non solo il ghetto dentro cui tutto può accadere, dalla resa dei conti interna, come testimonia l'uccisione di Moussa Arafat, alla guerra dei ricatti per bisogno, com'è accaduto per il breve sequestro del giornalista italiano, alla giusta protesta contro la corruzione palestinese - quella con cui le istituzioni occidentali hanno «compensato» l'indipendenza continuamente e inesorabilmente rimandata. Diventa in modo più grave e più preoccupante l'antefatto del vuoto, la conferma dell'arroganza d'Israele.
Sharon non vuole lo stato di Palestina, dichiara di non essere pronto ancora. La sua idea di stato di Palestina, quando ci sarà e se ci sarà, è quella di una Striscia di Gaza separata dalla Cisgiordania, entrambe senza confini controllati dai palestinesi, senza una politica estera autonoma e tantomeno esercito effettivo. Ma invece con tanta polizia per i problemi di miseria e demografici, e altrettanti servizi segreti internazionali per prevenire ogni protesta politica. Insomma, le cose così come stanno. Lo scontro interno ai palestinesi sembra tragicamente prefigurato.
L'attuale leadership palestinese, guidata dal presidente Abu Mazen e dal primo ministro Abu Ala, è consapevole di tutto questo e sa bene che la sua autorità e legittimità residua dipenderà solo dalla capacità di ottenere, dopo quello teatrale di Gaza, il ritiro vero delle forze d'occupazione militare e delle colonie dalla Cisgiordania e da Gerusalemme. E' per questa difficoltà che sono state finora rimandate le elezioni politiche palestinesi. Se questo non dovesse accadere, nessuno s'illuda. La Palestina continuerà ad essere realmente e nell'immaginario politico delle masse arabe e islamiche, più che occupata: sarà la prova della menzogna occidentale. Senza dimenticare che, finora, come hanno dimostrato gli attentati di Taba di un anno fa in Egitto, anche Hamas e le frange palestinesi più radicali, hanno rifiutato ogni abbraccio mortale ripetutamente offerto dal terrorismo internazionale di matrice Al Qaeda e ogni immediato legame con il disastro della guerra americana in Iraq. Ma fino a quando. Se la situazione dovesse rimanere l'inferno che è, sarà l'inferno a prevalere.
Il movimento della pace è tornato a marciare in occasione dell'11 settembre. L'ultima volta che lo avevamo visto era stato in occasione del rapimento di Giuliana Sgrena. Ma, dopo la morte di Arafat, ad «occuparsi» della Palestina è stato solo Sharon. Se vogliamo che sia la parola e la verità a prevalere e non le armi, che sia un'Onu dei popoli a vincere, che Gaza sia davvero non il bicchiere ancora vuoto ma la goccia di speranza che fa intravedere in lontananza la possibilità reale dello stato palestinese - così si sforzano di vederla i palestinesi nella loro disperazione -, da subito facciamo entrare, con il rifiuto della guerra in Iraq, la questione palestinese nelle primarie italiane. La Palestina è sola e divisa. Facciamo che torni vicina. Sgombriamo le macerie del silenzio che, complice, ha aiutato e aiuta la «pace» unilaterale di Sharon. E "Via i soldati, nell'alba di Gaza è festa infinita": Alla fine l'incubo durato 38 anni è svanito e il risveglio dalla lunga notte è stato colorato di blu, quello del mare di fronte alle ex colonie ebraiche di Gush Qatif dove ieri migliaia di palestinesi, soprattutto bambini, hanno potuto fare il bagno e nuotare felici. Un blu sognato tante volte e che finalmente è diventato realtà ieri mattina quando il generale Avi Kochavi, ultimo militare israeliano ad uscire da Gaza, alle 5.50 ora italiana, si è lasciato alle spalle il valico di Kissufim, mentre i bulldozer dell'esercito ammassavano mucchi di terra ai cancelli per sigillare la via di transito. L'operazione israeliana «Ultimo sguardo» si è conclusa e all'interno di Gaza contemporaneamente è esplosa la gioia palestinese. Migliaia di persone, rimaste in attesa tutta la notte, sono entrate nelle aree occupate dagli insediamenti ebraici non appena hanno appreso che l'ultimo soldato era finalmente uscito. La festa è stata ampia e pacifica e si è svolta sotto gli occhi delle forze di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) che pure aveva esortato la popolazione a rimanere lontana dalle colonie per alcuni giorni, per motivi di sicurezza. Se da un lato Gaza non ha più al suo interno coloni e soldati israeliani, dall'altro si deve sottolineare che l'occupazione non è finita. Le due parti potranno trovare facilmente un accordo a nord, al valico di Erez, costruito all'interno del territorio palestinese, ma a sud , al valico di Rafah, tra Gaza e l'Egitto, un'intesa appare lontana.
Il governo Sharon, proseguendo la sua politica di atti unilaterali, ha deciso di chiudere la frontiera a Rafah per alcuni mesi e ha trasferito il transito a Kerem Shalom, alla congiunzione tra Israele, Gaza e l'Egitto, causando enormi disagi a migliaia di civili. Per il momento i palestinesi, non solo di Rafah, si godono un po' della libertà che inseguono da sempre. Le guardie di frontiera egiziane, dopo aver usato il pugno di ferro ieri pomeriggio sparando contro la folla (un uomo è stato ucciso) che aveva abbattuto le barriere per recarsi nella Rafah egiziana - separata dal territorio di Gaza dopo gli accordi di pace tra Israele ed Egitto - in serata hanno consentito alla popolazione su entrambi i versanti di potersi incontrare. I palestinesi poveri di Rafah hanno potuto riabbracciare i palestinesi ancora più poveri della parte della città in territorio egiziano. Ne hanno approfittato per comprare cibo e prodotti di ogni genere che in Egitto costano meno che a Gaza. «Sono diretto a El-Arish (sulla costa settentrionale del Sinai) a festeggiare il ritiro israeliano in un buon ristorante egiziano», ci diceva ieri sera un collega palestinese al termine di una giornata piena di novità che la popolazione palestinese non dimenticherà mai.
La flessibilità egiziana - durerà qualche giorno fino al dispiegamento definitivo delle 750 guardie di frontiera - è il risultato, con ogni probabilità, delle proteste dell'Anp per l'uccisione di Nafez Attiyeh, 34 anni, avvenuta nel pomeriggio, quando la folla si è riversata sul versante egiziano in una giornata in cui l'impossibile sembrava finalmente possibile. I palestinesi si sono recati alla frontiera con l'Egitto convinti di poterla superare senza problemi. Ad un certo punto sono partiti i colpi di arma da fuoco che hanno ucciso Nafez Attiyeh. A sparare secondo testimoni è stata una delle guardie di frontiera egiziane dispiegate al valico di Rafah. Dal Cairo però hanno smentito questa notizia.
Ieri alla vista del mare, dal quale sono rimasti lontani per anni, a causa della presenza degli insediamenti ebraici e delle postazioni militari israeliane, migliaia di palestinesi hanno affollato le spiagge, meta fino a qualche settimana fa solo dei coloni. È stata una giornata spensierata soprattutto per i bambini. «Sono venuto con i miei figli per farli divertire, come fanno tutti i bambini nel resto del mondo. Questo mare ci appartiene e finalmente possiamo ammirarlo», ha affermato Naila Abu Samadana, madre di sei figli. La gioia si è trasformata in qualche caso in tragedia. Gli ospedali palestinesi hanno comunicato che almeno tre persone sono morte per annegamento. Per tutto il giorno carovane di automobili e autobus hanno fatto la spola tra le «aree liberate» e le città palestinesi circostanti. Molti hanno scelto di andare a piedi fino alle colonie sventolando lungo il tragitto le bandiere palestinesi e dei vari partiti e movimenti politici. «Questa è la vittoria della nostra lotta, dei nostri martiri, continueremo fino alla liberazione di Al-Quds (Gerusalemme,)», ha promesso Jamil Harbuna, di Gaza city, che ha piantato una bandiera di Al-Fatah sulle macerie di una casa di Netzarim. Gruppi di donne con i costumi tradizionali hanno accompagnato con canti e danze gli slogan scanditi in onore del presidente Abu Mazen - che in mattinata ha visitato alcune ex colonie - per esortarlo a continuare la costruzione dello Stato di Palestina.
I più poveri, seduti su carretti trainati da asini sfiniti dal calore e dalla fatica, hanno frugato per ore tra le rovine delle case alla ricerca di lamiere di alluminio, cavi elettrici, tubi vari, piastrelle rimaste miracolosamente intatte e tutto ciò che sembrava riutilizzabile. In quella che fino a qualche settimana fa era Netzarim, un bulldozer palestinese ha abbattuto una delle sinagoghe che il governo israeliano ha deciso di non demolire su pressione di importanti rabbini. In precedenza almeno altre quattro luoghi di culto ebraici erano stati dati alle fiamme dalla folla, provocando forte sdegno in Israele. Il ministro degli esteri Silvan Shalom ha definito «un atto di barbarie» la demolizione delle sinagoghe che l'Anp ha deciso di radere al suolo. «Si tratta di un atto di barbarie perpetrato da persone che non hanno alcun rispetto per i luoghi sacri e che non hanno fatto alcuno sforzo reale per proteggerle», ha spiegato. Il presidente israeliano Moshe Katsav, ha parlato di «atto di vandalismo, inumano e incivile». La distruzione delle sinagoghe invece è stata giustificata dai palestinesi. «Perché gli israeliani le hanno lasciate qui? - ha chiesto Karim Yazji, impiegato in un ministero palestinese - se le volevano e amavano così tanto potevano spostarle in un altro posto, per loro non sarebbe stato difficile. Gli israeliani hanno la memoria corta, dimenticano che proprio loro hanno distrutto tante moschee dal 1948 a oggi e nessuno li ha mai rimproverati».
La questione delle sinagoghe, destinata ad aprire una nuova pagina di polemiche e recriminazioni tra le due parti, era stata affrontata ripetutamente dal governo palestinese che aveva sollecitato Israele a trovare una soluzione. Sharon invece ha deciso che sarebbe stato meglio lasciare questa incombenza ai palestinesi. Ha preferito non andare contro i rabbini sapendo che le sinagoghe sarebbero state distrutte dai palestinesi - contro cui tutti avrebbero puntato l'indice - timorosi che lasciandole in piedi avrebbero rappresentato uno stimolo perenne «al ritorno» per gli estremisti israeliani che non hanno digerito il ritiro da Gaza. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.