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La Stampa Rassegna Stampa
07.08.2005 La guerra in Iraq ha prodotto il passo dell'Egitto verso la democrazia
l'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 07 agosto 2005
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Scelta inevitabile dopo l'Iraq»
LA STAMPA di mercoledì 7 settembre 2005 pubblica un articolo di Fiamma Nirenstein sulle imminenti elezioni egiziane.

Ecco il testo:

Quando dalle elezioni egiziane odierne il presidente Hosni Mubarak uscirà di nuovo eletto dopo 24 anni al potere, nessuno certo si stupirà: le leggi, il denaro, i giornali, la paura e l’abitudine concorrono tutti quanti al suo successo ancora oggi, per la quinta volta, e a 77 anni.
Ma stavolta la vittoria di Mubarak, anche se scontata, non avviene nella solita morta gora delle elezioni cui gli egiziani sono abituati, in cui vota sì o no su una scheda che porta il nome del solo raìs. Stavolta all’ancora incredulo elettore egiziano si offrono dieci contendenti. Non solo, stavolta la campagna elettorale di Mubarak ha ricordato molto più di qualsiasi altra campagna del passato una vera richiesta democratica ai votanti di consenso per la sua persona e per il suo programma.
La scelta molto più che determinata da cause interne è legata all’enorme variazione del contesto mediorientale introdotta dalla guerra in Iraq e alla conseguente rincorsa a occupare un posto centrale nel cuore della politica americana per la democratizzazione del Medio Oriente. L’Egitto si sta meritando i galloni di Paese più moderato dell’area, degno di vedersi affidare nei prossimi giorni il confine con Gaza finora controllato dagli israeliani, quello il cui raìs progetta (si dice) una visita a Sharon nel suo ranch già a novembre, quello più attivo nella caccia ai terroristi.
Nel suo discorso di apertura della campagna elettorale al Parco al Azhar del Cairo Mubarak ha persino presentato, accolto da una speranzosa, commovente ovazione, una piattaforma di politica interna che promette quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Al pubblico estatico ha detto: «Lavorerò duro per guadagnarmi la fiducia di ciascuno di voi». Una dichiarazione inusitata da parte di un personaggio che ha gestito il potere così a lungo e senza riguardi; un presidente che porta senz’altro, dopo tanti anni di potere, grandi responsabilità per la situazione di miseria dei suoi compatrioti, della corruzione imperante, della gestione autoritaria del potere giudiziario, della persecuzione delle minoranze.
Adesso però Mubarak fa di tutto per apparire cambiato: in pubblico, alla tv, sui giornali ha cercato di fornire un’immagine non marziale e quanto più possibile giovanile, indossando, come al Parco, giacchetta scura aperta, camicia bianca e niente cravatta. I suoi due antagonisti più importanti sono Numan Gumaa del partito Wadf e Ayman Nur, fondatore di al Ghad (Domani), un quarantaduenne impavido che dopo essere andato avanti e indietro dal carcere per anni adesso propone un futuro liberaldemocratico al Paese. Lo Wadf invece è un partito nazionalista liberale, il maggiore dell’opposizione, quello che, significativamente, ha avuto fin’ora sette seggi su 454 del Parlamento egiziano. L’Egitto sente oggi il vento di rinnovamento mediorientale che spira sulle folle dei diseredati del Cairo, sui poveri costretti a lavorare lontano da casa, la stampa è eccitata come non mai, e difficilmente tornerà nell’armadio.
La campagna elettorale è durata soltanto 18 giorni, svariati gruppi non hanno avuto la possibilità di presentarsi a causa di norme restrittive, e certo il dibattito non è stato approfondito, ma ha dato la sensazione di innalzare il Paese sull’onda di un grande cambiamento. Si può prevedere che la gente del popolo voterà Mubarak non per costrizione, ma semplicemente per paura o per pigrizia, ma se il Medio Oriente (in Libano, in Siria, in Israele e Palestina, in Libia, nel Golfo, in tutte le aree dove è in corso un cambiamento di varia natura) non si fermerà difficilmente i prossimi sei anni di Mubarak saranno come quelli precedenti. La gente osa dimostrare per le strade, lamentarsi della propria infima condizione economica, rimproverare i potenti per i suoi indicibili guai: disoccupazione, corruzione, servizi pubblici inesistenti sono tutti argomenti di cui Mubarak ha dovuto parlare invece di sventolare la solita gloria imperitura dell’Egitto come stato leader del mondo arabo e a usare la retorica antisraeliana o antiamericana come unico collante politico.
Le elezioni hanno svegliato, nella sacrificata società egiziana la voglia di partecipare e di contare. Molti intellettuali per la prima volta si sono avventurati con duri commenti antigovernativi sulle pagine dei quotidiani e dei periodici. Il movimento Kifaya ovvero «Basta» ha preso la piazza parecchie volte nelle ultime settimane. È chiaro che in questa temperie i Fratelli musulmani che non si presentano alle elezioni, col loro vasto consenso, rischiano di diventare un focolaio inesauribile di aperto aggressivo integralismo islamico, mentre in Egitto con gli ultimi attentati si è affacciata al Qaeda. Questa sarà solo una delle contraddizioni che l’Egitto dovrà affrontare nei prossimi sei anni, mentre Mubarak forse cercherà tuttavia di assicurare la successione a suo figlio Gamal: ma una rivoluzione arancione, sempre che il contesto internazionale regga, potrebbe distoglierlo da questa intenzione e spingerlo a traghettare il Paese verso la modernità.
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