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La Stampa Rassegna Stampa
05.09.2005 Disimpegno: la democrazia israeliana ha superato la prova
analisi di Abraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 05 settembre 2005
Pagina: 8
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Se degli ebrei chiamano nazisti altri ebrei»
LA STAMPA di domenica 4 settembre 2005 pubblica un articolo di Abraham B. Yehoshua sul ritiro da Gaza.
Il testo, una valutazione molto positiva della democrazia israeliana in un drammatico momento della sua storia e un richiamo dei palestinesi alle loro responsabilità nell'avanzamanto del processo di pace, è caratterizzato da obiettività ed equanimità di giudizio.

Tocca solo marginalmente il tema scelto dai redattori della STAMPA per confezionare un titolo ambiguo e scandalistico: "Se degli ebrei chiamano nazisti altri ebrei".
Yehoshua muove nel testo una fondata critica alla pratica, in uso presso l'estrema destra e l'estrema sinistra israeliane, di strumentalizzare ai fini della lotta politica la memoria della Shoah.
Senza questi riferimenti, il titolo risulta difficilmente comprensibile, mentre a restare impressi nella mente del lettore frettoloso sono proprio gli "ebrei nazisti", figure ben note anche alla peggiore retorica giornalistica e politica italiana, questa volta identificati come tali da "degli ebrei".

Ecco il testo dell'articolo:

I lettori de «La Stampa» sanno che non ho mai cercato di ignorare gli errori di Israele e non ho risparmiato critiche nei suoi confronti. Mi crederanno quindi se affermo che nei giorni difficili dello sgombero degli insediamenti della striscia di Gaza ho provato grande soddisfazione e mi sono sentito orgoglioso di essere israeliano. Noi tutti abbiamo temuto una guerra fratricida, scontri duri e deprecabili. Abbiamo paventato che venisse versato sangue e che evacuanti ed evacuati divenissero bersaglio di umiliazioni e offese. Ma tutto sommato lo sgombero si è concluso senza eccessiva violenza.
Occorre ricordare che l'evacuazione degli insediamenti di Gush Katif è un evento senza precedenti e non è avvenuto a seguito di un accordo comprensivo, o parziale, con i palestinesi. Costoro non hanno promesso nulla. Si sono limitati a parlare di un cessate il fuoco durante l'evacuazione, null'altro. Noi israeliani non abbiamo alcuna garanzia che da un giorno all’altro non riprenda il lancio di missili verso le nostre città.
Nonostante la Knesset abbia approvato la decisione del ritiro con una chiara maggioranza i sondaggi fra la popolazione hanno mostrato solo un consenso relativo, non certo assoluto. L'evacuazione di cittadini che vivono da anni nella striscia di Gaza non è avvenuta a seguito di una sconfitta bellica. Dal punto di vista militare lo stato ebraico avrebbe potuto mantenere ancora per molto tempo il controllo su quella zona. Certo, questo avrebbe comportato un prezzo in termini di vite umane, ma non comunque tale da non poter essere tollerato dalla società israeliana. Eppure la nostra giovane democrazia ha vinto alla grande. Nello scontro fra i rappresentanti della legge e gli oppositori allo sgombero nessuno ha oltrepassato i limiti e la base di solidarietà nazionale si è mantenuta solida. I cittadini favorevoli al ritiro non si sono intromessi nella disputa e non hanno cercato di rinfocolare gli spiriti dando man forte all'esercito o alla polizia. Nonostante gran parte dei coloni della Cisgiordania si opponesse allo sgombero (e molti di loro si fossero trasferiti negli ultimi mesi nella striscia di Gaza e nel Nord della Samaria per rinsaldare la resistenza dei coloni locali) e avesse un chiaro interesse a creare un trauma nazionale per evitare un analogo, futuro sgombero dei loro insediamenti, si sono tuttavia limitati a una resistenza per lo più passiva. Un'altra cosa importante è che malgrado gli appelli di rabbini estremisti a soldati e poliziotti osservanti di rifiutarsi di eseguire gli ordini, la stragrande maggioranza di costoro ha obbedito ai propri superiori.
L'atmosfera di intimità che si respira in Israele ha dato prova di sé. Il fatto che così tanti israeliani abbiano condiviso l'esperienza del servizio militare ha creato incontri interessanti e commoventi tra ufficiali a capo dell'operazione e loro ex sottoposti o tra ex commilitoni evacuati a forza dalle loro case.
Questa vicenda di certo verrà analizzata in chiave religiosa e politica, sociologica e culturale ma vorrei qui evidenziare cinque punti particolarmente interessanti per un osservatore esterno.
1) Innanzi tutto l'autocontrollo dimostrato dalle forze dell'ordine, autentico e non puramente strumentale. Lo slogan coniato per l'occasione «fermezza e sensibilità» è stato ben assimilato da soldati e poliziotti che hanno sopportato olimpicamente offese personali, la vista della bandiera israeliana lacerata da alcuni coloni e scene di sfruttamento emotivo di bambini, come quella in cui un padre ha teso la figlioletta di due anni a un poliziotto dicendo: «Prendila. Io non la voglio più». È da rimarcare in particolare l'imperturbabilità dei poliziotti, solitamente tenuti a reagire con fermezza a ogni affronto alla loro dignità. In questo caso hanno messo da parte il proprio onore in nome della causa.
Anche il fatto che ufficiali dello stato maggiore dell'esercito fossero sempre presenti sul luogo e alcuni di loro abbiano partecipato personalmente allo sgombero, ha contribuito a creare un'atmosfera più distesa, così come il fatto che le donne siano state evacuate da soldatesse e agenti di polizia di sesso femminile. Una decisione che ha alleviato il trauma a entrambe le parti.
2) La rabbia dei coloni si è rivolta verso una sola persona: Ariel Sharon. Quasi che il primo ministro avesse deciso da solo lo sgombero, senza il sostegno di chicchessia. Come se, in forza di un'assurda dittatura, fosse riuscito a ipnotizzare l'intera nazione e l'avesse costretta a seguire le sue direttive. I coloni non hanno fatto alcun tentativo di capire le ragioni militari ed economiche alla base di questa decisione. Di conseguenza, durante lo sgombero, non hanno nemmeno lanciato accuse contro la sinistra, come fanno di solito, o contro altri ministri favorevoli al ritiro. Ariel Sharon - definito in passato dagli estremisti di destra «Re d'Israele» - si è trasformato ai loro occhi in un demone solitario o, nel migliore dei casi, in un pazzo uscito completamente di senno; hanno teorizzato un baratro immaginario tra lui e il popolo, come se per anni numerosi esponenti politici non avessero ripetuto che un giorno saremmo stati costretti ad abbandonare la striscia di Gaza. Hanno considerato il premier non come uno statista che agisce in base a considerazioni concrete e a esigenze politiche ma come una sorta di re biblico, malvagio e folle.
3) I portavoce del governo non hanno dato prova di particolare efficienza. Poiché la maggior parte dei politici e degli alti ufficiali dell'esercito favorevoli allo sgombero si erano in passato dichiarati contrari a tale eventualità (Sharon non era il solo, fino a due anni fa, a dichiarare che non vi era alcuna differenza tra Gush Katif e Tel Aviv) ecco che la maggior parte di loro non ha osato pronunciare pubblicamente la frase: «Ci siamo sbagliati, scusate, abbiamo commesso un errore e ora vogliamo correggerlo». La parola «errore» non è mai stata pronunciata. Lo sgombero è stato giustificato tirando il ballo la questione demografica, il costo del mantenimento del controllo sulla striscia di Gaza. Non è stata proferita nemmeno una parola sul torto morale subito dai palestinesi per l'occupazione delle loro terre e la creazione di insediamenti. Il ritiro, quindi, non si è trasformato in una sorta di catarsi purificatrice per la società israeliana (eccetto che per i sostenitori della sinistra) ma in un calcolo pratico, in una scommessa che forse sarà vinta o forse no.
4) Un altro punto su cui vale la pena di soffermarsi è l'uso ripetuto e ossessivo di termini riferiti in maniera specifica all'Olocausto. «Nazisti» era un epiteto ricorrente per poliziotti e soldati. «Ci cacciano dalle nostre case come durante la Shoà», era una frase altrettanto popolare. Alcuni coloni si sono stampati un numero sul braccio e hanno appiccicato una stella gialla sul petto come i prigionieri dei campi di concentramento, e altro ancora.
Tutto ciò costringe noi tutti, ma soprattutto il ministero dell'Istruzione, a farci un esame di coscienza. L'uso di una simile terminologia non è forse eccessivo? Come mai nella coscienza nazionale non si è creata una netta distinzione tra gli eventi della seconda guerra mondiale - episodi di ineffabile crudeltà - e i «soprusi» del presente? In questo caso, però, anche la sinistra è colpevole. Chi ha inveito contro i soldati di Zahal definendoli «nazisti» nella loro lotta contro i palestinesi o chi ha paragonato un arabo costretto a suonare il violino a un posto di blocco accanto a Nablus a un ebreo obbligato a fare la stessa cosa dinanzi alle vittime delle camere a gas, non si stupisca poi di essere il bersaglio di simili epiteti nel momento in cui partecipa allo sgombero di ebrei dalle loro case, anche se li trasferisce a soli dieci chilometri di distanza e garantisce loro un adeguato indennizzo per la costruzione di una nuova abitazione. Il ministero dell'Istruzione e l'intero sistema politico hanno l'obbligo di moderare l'uso di termini propri all'Olocausto sia nel dibattito politico interno che nei rapporti tra ebrei e gentili. I palestinesi non sono nazisti e non tutti gli antisemiti sono Hitler o Goebbels. Occorre porre un limite chiaro tra gli avvenimenti della Shoà e gli episodi di attualità politica.
5) Un'ultima osservazione riguarda i rabbini. Malgrado molti di loro fossero a capo del movimento di resistenza allo sgombero, ci sono anche stati coloro che lo hanno appoggiato. Questo dimostra ancora una volta che la posizione politica dei religiosi non è unanime. Ognuno può intendere a piacere ciò che è scritto nella Bibbia e quindi faremmo meglio a moderare la veemenza e la fermezza con cui si vuole imporre una particolare interpretazione.
Torno ora all'inizio dell'articolo. In fin dei conti sono molto orgoglioso del modo in cui la democrazia israeliana ha affrontato questo ritiro, un evento estremamente complesso. E sono anche orgoglioso del comportamento mantenuto dalla maggior parte degli israeliani di ambo le parti politiche. Siamo usciti rafforzati da questa difficile prova e con la speranza di proseguire il processo di pace. Adesso sta ai palestinesi rivelare le loro intenzioni. Vogliono la pace e la fine del terrorismo oppure intendono proseguire le violenze nei territori lasciati liberi dall'esercito e dagli insediamenti civili israeliani?
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