Gaza: come faranno i palestinesi senza gli israeliani a cui dare la colpa dei loro problemi? leggeranno Michele Giorgio, che spiegherà che la colpa è di Israele sempre e comunque
Testata: Il Manifesto Data: 02 settembre 2005 Pagina: 9 Autore: Michele Giorgio Titolo: «Rubinetti asciutti a Gaza»
"Liberata" Gaza dagli ebrei, i problemi dei palestinesi, dovuti alla sovrappopolazione, alla scarsità e al cattivo uso delle risorse, ai bassi redditi e non alla presenza di settemila israeliani, ovviamente restano. Tuttavia Giorgio non rinuncia a tentare di attribuirne la responsabilità agli israeliani. Così, mentre apprendiamo, per esempio, che il quaranta per cento delle famiglie palestinesi di Gaza non è collegato alla rete fogniaria" (c'entreranno qualcosa l'abusivismo edilizio, l'incuria dell'Anp durante glia anni di Oslo, il mancato utilizzo dei fondi internazionali?), che i necessari impianti di dissalazione dell'acqua di mare renderebbero l'acqua inaccessibile , per i suoi costi, alla maggior parte dei palestinesi, si allunga la lista delle rimostranze a Israele. L'acqua che manca ai palestinesi (di Gaza !) non sarebbe più sottratta alla striscia, ma alla Cisgiordania. Inoltre, Israele sarebbe colpevole di non aver accettato la proposta di far passare dentro l'insediamento di Dugit uno scarico fognario diretto la mare (l'avesse fatto, si sarebbe scritto di avvelenamento delle acque costiere, tale da rendere impossibile la pesca?), di non vendere all'Anp (che non la compra, ma si deve capire la cosa, all'epoca di Arafat ha speso troppi soldi per sostenere i "combattenti") la quantità d'acqua prevista dagli accordi di Oslo, ma solo la metà.
Scopriamo poi che una delle ipotesi avanzate dai palestinesi per la soluzione del problema di Gaza è... il trasferimento di parte della sua popolazione. Ipotesi che ovviamnte, nessuno avrebbe preso in considerazione prima del ritiro, quando la sovrappolazione della Striscia serviva ad assediare gli israeliani. Concludono l'articolo le rituali esecrazioni della barriera difensiva in Cisgiordania, che, naturalmente, sottrae acqua ai palestinesi. Se un giorno la barriera difensiva non sarà più necessaria a salvare vite umane in Israele, e potrà essere smantellata, forse Giorgio scriverà un articolo sul problema idrico nei territori palestinesi dopo la "caduta del muro"...
Ecco l'articolo: Benedetta Oddo, una simpatica e intraprendente cooperante italiana, qualche anno fa seppe conquistare la fiducia dei palestinesi di Gaza. Responsabile per un progetto di potabilizzazione dell'acqua a Khan Yunis, Benedetta aveva rapporti quotidiani con importanti e esponenti dell'Anp e divenne amica dell'allora first lady Suha Arafat. «Un pomeriggio di una estate afosa la signora Arafat mi invitò a casa sua - mi ha raccontato prima di partire per un nuovo incarico in Tunisia - al mio arrivo la trovai intenta a lavarsi i capelli. Ad un certo punto mi disse: Benedetta, l'acqua di Gaza è un disastro, mi rovina i capelli. Con garbo le feci notare che il novanta per centodegli abitanti quell'acqua la beveva regolarmente».
Da quel pomeriggio d'estate sono passati alcuni anni, la signora (ora vedova) Arafat si gode un generoso vitalizio tra Parigi e Tunisi, l'Anp ha un nuovo presidente, i coloni israeliani hanno lasciato Gaza, ma i palestinesi hanno sempre un problema da risolvere: la scarsità e la pericolosità dell'acqua (più o meno) potabile.
La partenza dei circa settemila coloni israeliani perciò è destinata a dare poco sollievo alla popolazione della Striscia (1,4 milioni) che nei prossimi anni, per dissetarsi, sarà costretta a far ricorso all'acqua minerale in bottiglia.
A Gaza però possono (e potranno) permettersela solo gli stranieri e una minoranza di palestinesi ricchi. Tutto ciò mentre circolano indiscrezioni su progetti di sviluppo turistico che richiedono una notevole disponibilità di acqua.
«I dati parlano chiaro - ci spiega Adel Rahman Tamimi, del Gruppo idrologico palestinese - Gaza può contare solo sulle scarse precipitazioni invernali. La domanda annua di acqua si aggira intorno ai 110-130 milioni di metri cubi, il doppio delle risorse idriche disponibili. La sovraestrazione delle falde acquifere ha perciò portato ad un aumento delle infiltrazioni corrosive di acqua marina». La quantità d'acqua disponibile pro capite, aggiunge Tamimi, è di soli 88 litri giornalieri (i coloni di Gaza, come gli altri israeliani, avevano a disposizione in media 220 litri di acqua al giorno, circa 8 milioni di litri all'anno).
Ma è il dato qualitativo quello più preoccupante, con un grado di salinità dell'acqua molto alto. Il novanta per cento dell'acqua che dalla falda acquifera costiera - in alcuni punti è situata a quasi dieci metri sotto il livello del mare ed è soggetta ad infiltrazioni - giunge ai rubinetti ha perciò un gusto salmastro e disgustoso, ma piu' di tutto è pericolosa per la salute. Ad aggravare la situazione è il mancato trattamento delle acque sporche. Il quaranta per cento delle famiglie palestinesi di Gaza non è collegato alle rete fognaria e le acque nere si accumulano all'aperto, in quelle che oggi appaiono vere e proprie paludi, in particolare nel nord della Striscia, dove è situato il più grande dei campi profughi palestinesi, Jabalya.
«Le infiltrazioni impure nella falda di acqua potabile sono inevitabili in questa situazione - ci dice Nidal Mosallami, del comitato popolare di Beit Lahiya, mostrandoci una delle "paludi" a non più di due chilometri dal centro abitato - per anni abbiamo chiesto alle autorità militari israeliane di far passare attraverso la colonia di Dugit i tubi per portare le acque sporche verso il mare, dove sarebbero state scaricate dopo un adeguato trattamento. E' stato inutile, oggi ci ritroviamo alle porte di casa laghi di acque nere e pericolose. Non possiamo che augurarci che il presidente Abu Mazen ponga l'acqua e l'ambiente ai primi posti della sua agenda e pensi solo in un secondo momento ai villaggi turistici».
Cosa fare in questa situazione di emergenza permanente? Le soluzioni non sono molte, soprattutto non sono sempre praticabili. «Dobbiamo tenere conto di due dati», ha detto qualche giorno fa al giornale israeliano Haaretz l'idrologo Ahmed Al-Yaqubi, «non esiste la possibilità di ridurre la popolazione di Gaza e non c'è modo di espandere la capacità della falda». Una strada, ha aggiunto, è quella di «trasferire la metà degli abitanti di Gaza in un posto dove vi sia possibilità di ricevere acqua», in Cisgiordania per esempio. Ma la soluzione più concreta è quella di ricevere acqua da altre fonti.
Israele sino ad oggi ha rifiutato le richieste palestinesi di poter trasportare acqua dalla Cisgiordania, anche perché sfrutta a suo vantaggio gran parte delle riserve idriche di quel territorio palestinese. Israele, secondo quanto stabilito dagli accordi di Oslo, deve vendere ai palestinesi di Gaza 10 milioni di metri cubi di acqua l'anno ma dal 1994 al 2000 ne ha forniti solo 5. Gli altri 5 milioni promessi non sono mai stati comprati, perché le infrastrutture non l'hanno consentito e anche perché l'Anp non era in grado di pagare 3 shekel (circa 60 centesimi di euro) per ogni metro cubo di acqua. Un'altra possibilità sono gli impianti per la dissalazione dell'acqua di mare ma richiederebbero un salto in alto senza precedenti del reddito delle famiglie.
Basta fare un giro per le strade di Gaza per rendersi conti che cio' è impensabile nel breve periodo. I costi di gestione di queste strutture sono enormi e ben pochi i palestinesi sono in grado di pagare 10 shekel (circa 2 euro) per metro cubo.
In attesa di conoscere il programma di lavori pubblici dell'Anp, a Gaza l'acqua si vende porta a porta e sempre più persone, ospedali, associazioni comprano acqua da privati che hanno costruito impianti ad osmosi inversa o di filtraggio per rendere potabile quel liquido oleoso che esce dai rubinetti delle case.
Le organizzazioni caritatevoli, che posseggono loro impianti di depurazione, distribuiscono l'acqua ai più bisognosi ma è evidente che si tratta di soluzioni limitate che non rispondono alle esigenze più ampie dell'intera popolazione.
Abdel Rahman Tamini nel frattempo lancia l'allarme anche in Csigiordania. Il muro e le recinzioni che sta costruendo Israele, hanno già sottratto ai palestinesi 36 pozzi di acqua sorgente, con una perdita totale annua di 6,7 milioni di metri cubi. Una rete di irrigazione a goccia lunga 3,5 chilometri ora è sotto controllo israeliano. Un singolo villaggio Jayyus, ad est di Qalqilya, a causa del muro ha perduto il 72 per cento dei terreni irrigati e sette pozzi d'acqua. Trecento famiglie non hanno più' reddito. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.