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Il Manifesto Rassegna Stampa
01.09.2005 "Non piangete sui coloni"
manutenzione dell'odio sul quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 01 settembre 2005
Pagina: 18
Autore: Luisa Morgantini
Titolo: «I coloni lasciano, i morti restano»
I coloni sono tutti assassini e teppisti. A Luisa Morgantini che le telecamere di tutto il mondo abbiano mostrato le sofferenze, la normalità, il rifiuto della violenza della maggior parte dei coloni durante il disimpegno da Gaza proprio non va giù.
Così cerca di porre rimedio al danno in un articolo programmaticamente intitolato "I coloni lasciano, i morti restano".
I morti sono quelli della strage perpetrata da Asher Weissgan in Cisgiordania il 17 luglio scorso. Ma non importa, è come se gli avessero lasciati sul terreno gli israelaini sradicati da Gaza.
Ogni "colono" è responsabile di quel cha fa un altro "colono". Per questo il terrorismo che li colpisce senza pietà e senza discriminazione di età e di sesso non è un grande scandalo, e inaffti Luisa Morgantini nel suo articolo non vi accenna nemmeno.
Dopo l'esordio sul crimine di Weissgan l'articolo elenca una lunga serie di presunti sopprusi, spesso giustificati da esigenze di sicurezza, esattamente come gli espropri agli israeliani di Gaza, e di atti di violenza teppistica ad opera di coloni e di soldati israeliani, la cui veridicità sarebbe ovviamente da verificare .

Tali atti sono ancora una volta atrribuite indistintamente alla "violenza dei coloni".

Ecco il testo:

Senjel è un piccolo villaggio nei pressi di Ramallah, la città palestinese che il corrispondente Rai da Gerusalemme Pagliara chiama la capitale della Palestina, con totale incuranza della legalità internazionale. Così come dice di Gerusalemme, capitale di Israele. Il sindaco di Senjel con orgoglio ci racconta che il nome del villaggio proviene da Raymond de Saint Gilles, principe di Tolosa e crociato che aveva fondato un piccolo regno, villaggio diventato musulmano dopo l'arrivo di Saladino.

Con Lea Tsemel, una avvocatessa israeliana dal '67 dedicatasi a difendere migliaia e migliaia di palestinesi incarcerati e torturati, siamo venute nel villaggio per visitare la famiglia dei due fratelli, Usama e Bassam Tawasha, 28 e 26 anni, uccisi con altri due palestinesi da un colono israeliano, Asher Weissgan, lo scorso 17 agosto.

L'insediamento è proprio di fronte a Senjel, costruito sulle terre di proprietà del villaggio. Inizialmente l'area era stata considerata militare, poi come è quasi sempre successo sono arrivati i primi coloni difesi dall'esercito. I due fratelli insieme a palestinesi di altri villaggi lavoravano in una piccola fabbrica di alluminio, paghe da supersfruttamento, spesso malvisti anche dai propri paesani perché lavoravano con i coloni. Ma c'era la famiglia da mantenere.

Così, mentre il mondo assisteva all'evacuazione di Gaza dei circa ottomila coloni e alle loro lacrime mescolate a quelle di soldati e soldatesse, nella Cisgiordania la violenza dei coloni contro i civili palestinesi cresce, così come cresce ogni giorno la presenza dei coloni. Secondo Gilad Heiman, uno dei portavoce del ministero dell'interno israeliano, dal giugno 2004 vi sono 12.800 coloni in più, raggiungendo - senza contare gli oltre duecentomila di Gerusalemme est - il numero di 246.000.

Vedendo servizi televisivi e leggendo i giornali, i coloni di Gaza non sembrano essere quelli che - a partire dall'occupazione militare israeliana del '67 - hanno terrorizzato donne e bambini palestinesi, insediandosi sulle loro terre ricche di palmeti, arance, olivi, banani. Sembrano gente mite che voleva solo vivere serenamente e che in nome dell'unità del loro popolo accettava di andarsene dalle case e dalle spiagge che tanto amavano.

In realtà i coloni di Gaza sono per gran parte fanatici sostenitori del diritto divino degli ebrei a quella terra e della deportazione dei palestinesi - quante volte mi hanno detto «gli arabi con gli arabi, noi non abbiamo altro paese, loro hanno tutti i paesi arabi». Certo è doloroso andarsene, molti sono nati in quei luoghi, ma chi sceglie di occupare terre altrui ne porta le responsabilità, in modo specifico i governi israeliani che hanno voluto le colonie.

Nella casa della famiglia di Usama e Bassam, costruita - secondo la tradizione palestinese - da tutti i membri della famiglia, nonni, zii, donne e bambini, la loro mamma ci accoglie piangendo sommessamente (non tutte le donne palestinesi manifestano il loro dolore urlando al cielo). Ci mostra le foto scattate durante la costruzione della casa, ne prende una che raffigura una tavolata di uomini sorridenti, «questo è lui, Asher, quello che ha ucciso i miei figli». Guardiamo incredule, Asher è l'ultimo della foto, capelli grigi e sorride, come gli altri. Lo conoscevano da dieci anni, faceva l'autista, era scomparso nel 2000 e riapparso cinque mesi fa, aveva cambiato insediamento. Pare che vivesse in uno di quelli considerati illegali anche dal governo Sharon.

Quel giorno, il 17, avevano bevuto il mattino il caffè insieme e Asher conversando con Rawhi Kassab, sopravvissuto e ferito ad una guancia, aveva detto di non aver più voglia di vivere. Kassab ce lo racconta all'ospedale Hadassah di Gerusalemme. E' stato davvero fortunato Kassab, Asher gli ha sparato due volte, una prima volta nel camioncino, poi nel viottolo mentre gli gridava «che fai Asher, fermati!».

Nessuno crede alla follia di Asher, sostengono che sia stata un'azione concertata, come quella compiuta qualche giorno prima da un giovane ebreo che ha sparato all'impazzata contro palestinesi, cittadini israeliani.

Asher, dice Kassab, appena finito di sparare con un M16 è corso all'uscita della colonia e si è infilato nella jeep della sicurezza, come se lo stessero aspettando.

Usama aveva moglie e sei bambini, l'ultimo nato quattro mesi fa. Bassam era sposato da quattro anni e non aveva figli, la madre ci dice che la giovane moglie dovrà tornarsene al suo villaggio, pare sia le regola quando non ci sono figli, «ma la casa, che ne faremo della casa di Bassam, quanti sacrifici per farla e lui ne era così orgoglioso». Mohammed Mansour e Abdel Rauf Walwil, gli altri due palestinesi uccisi avevano figli; oltre ai sei orfani di Usama, vi sono altri dieci bambini senza padre.

Asher Weissgan ha dichiarato di non pentirsi e che lo rifarebbe, Sharon lo ha condannato chiamandolo terrorista, l'Unione europea è stata più blanda. Intanto in Israele si è formato un gruppo di avvocati e attivisti che hanno deciso di documentare le violenze commesse dai coloni: si chiama Yeshdin.

Ho incontrato alcuni di loro mentre stavano raccogliendo all'ospedale la testimonianza di Kassab; hanno anche un sito web dove si possono leggere testimonianze di soprusi e violenza commesse dai coloni negli ultimi mesi. Ne riprendo alcune nei loro tratti essenziali.

Samikh Mustafà Halil Shatiya, contadino, 70 anni, ha un uliveto con 150 alberi, li conosce e li ama ad uno ad uno, sono la sua vita e l'unica entrata economica. Malauguratamente la terra si trova vicino al check point di Beit Furik, a 400 metri dall'insediamento di Alon Moreh.

Il 12 maggio alle 9.30 del mattino, mentre si reca nell'uliveto, quattro ragazzi della colonia lo chiamano, poi uno di loro con un sasso lo colpisce alla schiena, subito imitato dagli altri. Samikh è a terra che urla per il dolore, un altro dei ragazzi gli calpesta la mano con le sue scarpe pesanti. Dice Samikh che hanno pensato che fosse morto. Lui li poteva intravedere mentre lo studiavano da ogni angolo, uno di loro gli strappa i pantaloni e li lancia lontano, poi scappano verso l'insediamento. Samikh cerca aiuto. La mano sinistra è rotta in tre parti, porta ancora il gesso e continua a soffrire di dolori alla schiena e vomita.

Munjed Hasan Tamini, contadino, 28 anni. La sua terra è nei pressi della sorgente di Ein el Kos, vicino a Ramallah, dove ci sono delle piscine d'acqua costruite dai suoi antenati. Le piscine sono vuote ma riempite di pietre e aste.

La fonte d'acqua è davanti all'entrata della base militare israeliana, che è la stessa entrata dell'insediamento di Halamish. I coloni, con la protezione dei soldati, volevano prendersi la fonte d'acqua e il terreno di Munjed, entrano sulla sua terra e cominciano a ripulire le piscine, per punizione tagliano l'acqua a tutto il villaggio. Alle sementi di pomodori piantati nel campo va peggio, sradicati.

Allora Munjed pianta fagioli, fino a quando i coloni decidono di invadere il suo campo. Munjed arriva con gli altri contadini e anche dei bambini del villaggio, i coloni sparano e picchiano, l'ufficiale di sicurezza della colonia intima di andare via e dice che quello è territorio dello stato israeliano e minaccia di distruggere tutti gli alberi di olivo, iniziando a rompere dei rami. Si avvicinano i soldati del campo militare e rassicurano Munjed, gli controllano la carta d'identità e promettono che terranno tutti lontani dal suo campo.

Il 18 marzo verso le 13 però i coloni tornano, ci sono anche una decina di palestinesi e i coloni cominciano a sparare. Arrivano i soldati che questa volta non rassicurano, ma stanno decisamente dalla parte dei coloni. Immobilizzano e picchiano i palestinesi, gli legano le mani dopo aver tolto loro le magliette usandole per bendare gli occhi, li mettono in piedi contro il muro. Gli puntano le armi addosso, poi li portano via su una jeep, li minacciano e li picchiano ancora. Munjed dice di aver sentito che il soldato non lo vedeva come un essere umano. Vengono rilasciati, anzi buttati fuori dalla jeep dopo le 21 di sera. La terra è in mano ai coloni.

Aziz Abdul Karim Salman Hneini, pastore, 70 anni, abita nel villaggio di Beit Dejan e porta il suo gregge a pascolare a cavallo di un asinello, lo fa anche il 24 maggio. La terra è ai piedi di una collina dove passa una strada che va negli insediamenti, precisamente a Eilon Moreh. Verso le 17 vede una jeep bianca che sale verso la strada sterrata e si ferma a distanza, ha timore che ci siano dei coloni e dunque si incammina verso casa. Ma dalla collina scendono un uomo e quattro ragazzi che con pietre in mano gli intimano di fermarsi. Mentre chiede che cosa vogliano da lui, questi gli strappano il bastone del pascolo e uno dei ragazzi comincia a colpirlo sulla testa e sul viso, gli altri lo prendono a calci. Alla fine gli tolgono il copricapo per umiliarlo. Il tutto dura quindici minuti e la jeep è ancora ferma, se ne va subito dopo.

L'uomo adulto che lo aveva aggredito è lo stesso che l'anno prima, insieme ad altri coloni, lo aveva picchiato e derubato di due somari. Il pastore racconta tutto alla polizia israeliana, ma non succede nulla. Accompagnato da un nipote, arriva al check point di Beit Fouriq sanguinante, dopo avere atteso quaranta minuti una ambulanza palestinese per andare all'Ospedale di Nablus.

Hani Muhammad Abdallah Amer, contadino nato nel 1957, ha sei bambini ed abita nel villaggio di Masha, la sua casa si trova ad ovest del Muro ed è la sola casa rimasta nella parte israeliana, naturalmente è territorio occupato nel '67. A venti metri dalla sua ci sono le case della colonia di Elkana, sono separati da una strada. Da quando è stato costruito il muro sono iniziati i problemi, ogni giorno angherie. Lanciano pietre e sassi e quando Hani torna dal lavoro incontra i coloni che lo stanno aspettando sul ponte e gli tirano ancora sassi, bottiglie, immondizia. I colpi hanno rotto il raccoglitore di acqua piovana. Hani denuncia alla polizia israeliana i fatti, ma le sue accuse non sono valse a nulla. Il 13 giugno all'una e cinque di notte, sette ragazzi dell'insediamento cominciano a tirare sassi sulla sua casa, la sassaiola dura 45 minuti, chiama la polizia ma quando arriva i ragazzi non ci sono più. Rimangono i segni delle pietre sui muri e i vetri rotti. Compila denunce su denunce, senza mai trovare risposte.

Di abusi e violenze dei coloni ne sanno qualcosa anche gli italiani dell'operazione Colomba che nei villaggi nei pressi di Hebron assistono e a volte subiscono le loro aggressioni. Lo hanno visto e provato anche le Donne in Nero italiane, quando il 21 agosto sono state a Hebron. A Shoada street, nel centro della città in mano ai coloni, inviperite e fanatiche colone le hanno aggredite, tirando schiaffi, patate, sassi ed ogni possibile oggetto con la benedizione dei soldati israeliani, fermi al check point della strada ormai vietata ai palestinesi.
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