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Il Foglio Rassegna Stampa
31.08.2005 Israele dopo il ritiro da Gaza
analisi, cronache e interviste

Testata: Il Foglio
Data: 31 agosto 2005
Pagina: 2
Autore: Anna Barducci Mahjar - Rolla Scolari - Lisa Palmieri-Billig
Titolo: «- - - Anp alla prova -- C'è chi chiede d'essere evacuato»
IL FOGLIO di mercoledì 31 agosto 2005 dedica l'intera pagina 2 dell'inserto alle prospettive politiche del dopo ritiro da Gaza.

Di seguito, riportiamo l'articolo di Anna Barducci Majar "Bibi Netanyahu, leader "normale", sfida la pietà del soldato Sharon":

Benjamin Netanyahu ieri pomeriggio ha
annunciato la sua candidatura per la
guida del Likud, sfidando il premier Ariel
Sharon alle prossime primarie. "Il partito
ha bisogno di un leader che possa unire le fila,
riportare in vita le rovine e dare la vittoria
al Likud", ha detto Bibi, com’è soprannominato
Netanyahy, sicuro di sé davanti alle
telecamere in una conferenza a Tel Aviv.
Ha comunicato di voler riportare il partito
alle posizioni tradizionali della destra – che
lo hanno caratterizzato per tutti gli anni Novanta
– dichiarando che il Likud deve ritrovare
la retta via abbandonata da Sharon. Ma
il premier israeliano non si fa spaventare: se
i sondaggi dentro al suo partito lo danno come
perdente alle primarie, l’elettorato lo sostiene
a larga maggioranza. Questo è il suo
verso asso nella manica.
Bibi qualche giorno fa aveva dichiarato
che Sharon non è adatto per essere rinominato
primo ministro (se vincesse sarebbe la
terza volta consecutiva): è corrotto, i suoi figli
sono coinvolti in scandali e si è ritirato da
Gaza. Sharon, con un tono pacato senza
scomporsi o perdere la calma, ha risposto
due giorni dopo, dicendo che Netanyahu soffre
di crisi di panico e non è capace di affrontare lo stress. Così Bibi si è surriscaldato
e ha detto: allora perché il premier mi ha
offerto il posto di ministro delle Finanze?
"Arik", com’è soprannominato Sharon, noto
per mantenere il controllo nelle situazioni
più ardue e per il suo umorismo spesso tagliente,
ha risposto che Bibi ha fatto un ottimo
lavoro prima di dimettersi dal suo incarico,
ma ha aggiunto che è facile farlo quando
il premier ti appoggia e ti aiuta.
Non potrebbero essere più diversi, Bibi e
Arik, la quotidianità del leader di partito e
la pietà del soldato a confronto. Netanyahu
ha studiato negli Stati Uniti al Mit e parla un
buon inglese senza accento – a differenza di
Sharon e la sua riconoscibile "erre" israeliana
– si veste con eleganza, non come il premier
che a queste cose non ci bada, ama la
bella vita, sigari di prima qualità, night club,
feste a New York con Donald Trump e le belle
donne (nonostante sia sposato), anche se
da ultimo per una scelta politica – dicono voci
di corridoio indiscrete – ha deciso di abbandonare
la compagnia del gentil sesso.
Sharon invece non ama niente di tutto ciò,
le sue vacanze le trascorre nel suo ranch nel
Negev e le sue uniche passioni – ha ammesso
lui stesso – sono i suoi figli e la terra. Il premier è un indiscusso eroe di guerra, un
militare che ha portato il suo paese alla vittoria
della guerra di Kippur, infrangendo gli
ordini dei superiori. Bibi, ex ufficiale, vive
invece nell’ombra della figura di suo fratello
Yonathan, detto Yoni. Era un comandante
dell’unità speciale dell’intelligence militare
ucciso nell’operazione "Entebbe" nel 1976,
dove vi partecipò anche il laburista Ehud
Barak. Yoni è tuttora ricordato in Israele come
un grande eroe di guerra, un uomo che
alle sue donne parlava dei sogni del sionismo.
E poi, il padre di Bibi è il professore
Ben Zion, illustre storico dell’Inquisizione,
che si è espresso contro il disimpegno da Gaza
ed è stato il segretario di Zev Jabotinsky,
fondatore e leader spirituale del sionismo
revisionista. Netanyahu si è quindi ritrovato
– dice chi lo conosce bene – a doversi sempre
misurare sia con lo spessore del fratello
sia con quello del padre. Chi lo critica commenta:
se nella retorica si situa nel mezzo
tra Yoni e Ben Zion, nei fatti non si avvicina
a nessuno dei due. Quando Bibi è stato primo
ministro aveva negoziato con l’ex rais
Yasser Arafat gli accordi di Wye Plantation
nel ’98, che prevedevano il ritiro dal 13 per
cento dei Territori ai quali aveva partecipato
anche Natan Sharansky, che si è dimesso
dal suo incarico di ministro per appoggiare
i settler di Gush Katif prima di Netanyahu.
L’accordo oggi, agli occhi dell’elettorato,
sembra in contraddizione con le recenti posizioni
di Bibi contro il disimpegno.
Sharon osserva le mosse del suo avversario.
Un giornalista gli ha chiesto se in caso
di vittoria di Bibi alle primarie rimarrà sotto
la sua guida. Arik ha risposto con un secco
"no". Nell’eventualità che i membri del
Likud scegliessero Netanyahu, rischiando di
perdere così alle elezioni generali, Sharon –
dicono i media israeliani – si dimetterebbe
e andrebbe alle elezioni anticipate per presentarsi
con una forza di centro con la vittoria
sicura. Questo non è quello che vuole Bibi,
che mettendo le mani avanti ha detto:
chiunque perda deve rimanere nel Likud.
Netanyahu spera così che Sharon resti nel
partito, di ricevere gli onori e di essere trattato
come futuro premier fino alle elezioni,
garantendosi in questo modo un secondo
mandato dopo quello del 1996. Ma sottostare
a ordini con i quali non concorda non fa parte
del carattere di Sharon, che non sembra
intenzionato ad assecondare il suo sfidante.
E' di Rolla Scolari l'articolo "Dopo la Striscia? Molti dicono Cisgiordania ma forse toccherà al Golan", che riportiamo
Ma’ale Gamla (Golan). Domenica mattina
un terrorista suicida si è fatto esplodere nella
cittadina israeliana di Be’ersheva, nel Negev,
ferendo una ventina di persone. Il Jihad
islamico ha rivendicato l’attacco. Si tratta
del primo di questo tipo dopo la fine del disimpegno
israeliano dalla Striscia di Gaza.
Nelle ore successive il ritiro, un colpo di
mortaio è stato sparato dal sud del Libano in
territorio israeliano e un missile Qassam è
caduto sulla cittadina di Sderot, nel sud. Ma
Ygal Kipnis, abitante di un insediamento
del Golan, a nord del paese, spiega al Foglio
che, dall’inizio della seconda Intifada, nel
2000, la regione è molto pacifica e che i problemi
in Israele sono concentrati altrove. Kipnis
abita con la moglie e le figlie a Ma’ale
Gamla, a nord del lago di Tiberiade, in un
insediamento con una splendida vista sui
luoghi evangelici. Coltiva manghi, in questi
giorni la famiglia ha raccolto diverse tonnellate
di frutti. Kipnis, con alcuni altri abitanti
della zona, nel 1996, subito dopo la
morte di Ytzhak Rabin, aveva fondato un’associazione:
"Settlers for peace".
Nel 1995, l’allora primo ministro aveva
iniziato una serie di negoziati con la Siria,
mai giunti a termine, sul Golan, occupato nel
1967 da Israele. Nel 1979, spiega Kipnis, dopo
il Trattato con l’Egitto, è diventato chiaro
che gli insediamenti israeliani non possono
impedire i negoziati di pace. Ricorda che
nel 1996, mentre Siria e Israele erano al tavolo
della negoziazione e nel paese si preparavano
le elezioni, un sondaggio creò molto
stupore: il 45 per cento degli abitanti del
Golan disse che, in caso di referendum,
avrebbe votato a favore delle trattative con
Damasco, acconsentendo quindi allo sgombero
degli insediamenti in cui viveva. Oggi, a disimpegno da Gaza terminato, Kipnis
prende d’esempio alcuni "moshav" nei pressi
della Striscia, come Ein Habesor, per spiegare
le sue posizioni.
Laggiù, racconta al Foglio, vivono famiglie
che, dopo gli accordi di pace del 1979 con
l’Egitto, furono evacuate dal Sinai. Oggi i loro
bei villaggi sono la prova che si può agire
in maniera diversa da come hanno fatto i
settler di Gaza. Molti, spiega, stanno facendo
propaganda non accettando le soluzioni abitative
offerte loro dallo Stato. "C’è un legame
tra il Golan e il disimpegno da Gaza, ma nessuno ne parla", dice Kipnis. Spiega che,
dalla fondazione del primo insediamento
nella regione, gli abitanti hanno vissuto con
un remoto dubbio, un’insicurezza sul futuro.
Le persone capiscono che qualcosa può
sempre succedere.
Kipnis ha portato avanti uno studio sulla
regione del Golan per l’università di Haifa.
Nell’area oggi ci sono 32 insediamenti israeliani,
otto o nove dei quali religiosi, e cinque
villaggi drusi, per un totale di 17 mila persone,
completamente isolate da un ambiente
arabo, a differenza dei settlement della Striscia
di Gaza. Prima del 1967 i villaggi siriani
erano più di 250 e gli abitanti 128 mila. Kipnis
e la moglie sono arrivati nel Golan da
Haifa, 27 anni fa. Lui è laureato in ingegneria,
lei in farmacia. Non volevano più vivere
in città, cercavano un ambiente tranquillo e
una vita sociale "più intima". Il governo aiutava
finanziariamente chi sceglieva di muoversi
nella regione. A Ma’ale Gamla non c’era
nulla. Oggi 70 famiglie vivono in belle ville
in mezzo al verde sulle pendici delle alture.
In Israele, quando si dice "Gamla", viene
in mente il miglior vino del paese.
Nessuno, spiega la coppia, pensava a un
futuro lontano: il dubbio e l’insicurezza sono
sempre rimasti remoti. Oggi, gli abitanti della
zona fanno il collegamento tra Gaza e Golan,
ma non osano esplicitare i loro fantasmi.
"Come cittadino d’Israele ritengo che il
ritiro dalla Striscia sia un buon passo per la
società israeliana. Gli insediamenti non possono
essere un impedimento ai trattati di
pace, anche se in questo caso non c’è un negoziato.
Capisco il punto di vista dei settler
della Striscia: c’è un contrasto tra l’interesse
personale e quello nazionale. Era diritto
degli abitanti fare il possibile per evitare il
ritiro prima dell’approvazione del piano da
parte del governo e del Parlamento. Dopo,
avrebbero dovuto accettare una decisione
democratica. Capisco anche alcuni miei
amici e vicini che, ai tempi dei negoziati con
la Siria, si erano opposti. Avevano seguito le
passioni e non la razionalità". Israele ha bisogno
di una pace con Damasco per la propria
stabilità, dice, "anche se ci andiamo di
mezzo noi, gli abitanti del Golan", che il governo
siriano reclama in cambio di un riconoscimento
d’Israele.
Sempre di Rolla Scolari "I piani della Farnesina israeliana per cogliere l'attimo con i paesi arabi"

Ecco il testo:


Gerusalemme. Entrare al ministero degli
Esteri israeliano, anche con un invito,
non è semplice. I controlli per la sicurezza
sono molti e molto attenti. "Vorrei che
fosse diverso", ha detto al Foglio Aharon
Leshno Yaar, vicedirettore generale a capo
della divisione per le organizzazioni internazionali
del ministero, la stessa mattina
in cui a Be’ersheva, nel Negev, un terrorista
si è fatto esplodere nel primo attacco
dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza
(non ci sono state vittime oltre all’attentatore).
Nonostante tutto, Yaar è ottimista
sul futuro della regione nel dopo disimpegno,
e sul destino dei rapporti con i palestinesi
e con i paesi vicini. "Ci aspettiamo
che gli arabi rispondano positivamente
– dice sorridente dal suo ufficio, Accanto
a lui, la piccola valigia con cui sta
per partire per la Giordania – E’ talmente
vicino, un’ora da porta a porta", aggiunge
incredulo, riferendosi alla situazione con
gli altri paesi confinanti. Una risposta positiva,
spiega, sarebbe il miglioramento
delle relazioni diplomatiche tra Israele e
i vicini. "Ora abbiamo rappresentanze in
quattro o cinque paesi arabi e spero che
questo numero aumenti presto".
Qualche indizio in questo senso c’è già
stato. Il presidente tunisino, Ben Ali, ha
invitato il primo ministro, Ariel Sharon, a una conferenza in Tunisia a novembre.
Pochi giorni fa, invece, il re del Marocco,
Mohammed VI, ha inviato un messaggio
positivo al governo israeliano, a disimpegno
finito, e il ritiro è stata un’opportunità
per migliorare la collaborazione già esistente
tra Giordania, Egitto e Israele. Sharon
e il ministro degli Esteri, Silvan Shalom,
saranno a New York per il World
Summit a metà settembre. Secondo Yaar
si tratta di un’ altra opportunità per gli
israeliani d’incontrare le controparti arabe.
"Sono ottimista. Certo, dobbiamo vedere
progressi sul campo: meno violenza
e una miglior atmosfera tra israeliani e
palestinesi. Ma, se le cose si sviluppassero
nella maniera in cui speriamo, tra noi e
i palestinesi, non vedo ragioni per cui non
si possano attendere concreti progressi
anche sul piano delle relazioni tra Israele
e gli arabi".
Il ritiro ha interessato molto i mass media
dei paesi vicini. Dice Yaar che troppo
spesso i governi arabi sono stati spettatori
passivi del conflitto. "Vorremmo vedere
un ruolo arabo più importante nel futuro
della Palestina, un maggior sostegno
economico per Gaza e per l’Autorità nazionale,
più appoggio morale e politico.
Spero che il successo del disimpegno li
spinga a un coinvolgimento maggiore". La stampa internazionale, invece, si è focalizzata
sul disimpegno come evento di politica
interna israeliana e non ha investigato
troppo i possibili effetti dell’evacuazione
sull’intera area mediorientale.
"Questa regione sta attraversando un periodo
di grandi cambiamenti: il disimpegno
è un piccolo elemento. Il contesto è
più ampio: c’è la presenza americana nella
regione, in Iraq e Afghanistan. Gli Stati
Uniti sono diventati un potere regionale
e sono ormai un attore nel mondo arabo;
poi la guerra contro il terrorismo è diventata
un aspetto preminente nel discorso
politico e sociale dell’area e ha forzato
gli arabi a guardarsi allo specchio e a
chiedersi se sono con o contro il terrorismo".
Yaar pensa che la maggior parte sia
contro. C’è questa nuova spinta alla democratizzazione
creata dalle pressioni di
Washington. "E’ un dilemma per i governi
arabi: si rendono conto che mette a rischio
la loro legittimità, ma non hanno altra
scelta se non accettare la sfida".
Yaar continua la sua lista. C’è il conflitto
arabo israeliano: "E’ soltanto un conflitto
israelo-palestinese, non più arabo
israeliano". Israele, spiega, è diventato un
partner per molti paesi arabi nella lotta al
terrorismo e su molti altri fronti. "Abbiamo
contatti con quasi tutti i paesi arabi, a eccezione di uno o due radicali. Persino
nei momenti più critici della seconda Intifada
abbiamo mantenuto i rapporti. Per
diverse ragioni: per le nostre relazioni
speciali con gli Stati Uniti, per la nostra
abilità nella lotta al terrorismo, perché se
parli di high-tech parli d’innovazioni
israeliane e oggi non puoi importare un
computer senza importare componenti
israeliane e quindi, indirettamente, ci sono
molti contatti tra israeliani e arabi,
contatti di business, altrimenti nella tua
stanza non avresti un computer". Infatti,
se compri Microsoft acquisti anche un
prodotto israeliano: Intel, azienda produttrice
di microprocessori, che lavora con la
compagnia di software, ha una sede a
Kiryat Gat, nel sud del paese.
"Oggi, con Internet e i satelliti non ci sono
più frontiere, la politica non è più un
attore – conclude Yaar – Il conflitto è obsoleto,
anacronistico. Abbiamo le soluzioni;
tutti sanno quali sono i parametri del
futuro accordo di pace, è solo questione di
tempo. Nel libro della storia nessuno ricorderà
il 2005. La regione sta cambiando:
con persone come il presidente palestinese
Abu Mazen, piano piano, ma insieme, ci
sarà un futuro migliore, nella soluzione
che tutti vogliamo: i due Stati. Il resto sono
dettagli".
Lisa Palmieri Billig intervista David Harris, direttore dell'American Jewish Comitee che "dà un consiglio a Sharon e una sferzata all'Europa".

Ecco il testo, "Anp alla prova":


Roma. Dopo il ritiro da Gaza, David Harris,
direttore esecutivo dell’American Jewish
Committee (Ajc), la più antica e importante
organizzazione ebraica americana, ha
cercato di capire il futuro dei palestinesi e
la direzione della comunità internazionale
nei confronti di Israele. Secondo Harris, nei
Territori si sta aprendo un’opportunità senza
precedenti per la costruzione di un futuro
Stato palestinese che conviva pacificamente
vicino allo Stato ebraico, soprattutto
alla luce delle recenti dichiarazioni del premier,
Ariel Sharon, su un ulteriore sgombero
in Cisgiordania. "Nemmeno sotto il dominio
egiziano (durato fino alla fine della
Guerra dei Sei giorni, ndr), la popolazione
di Gaza ha avuto la possibilità di autogovernarsi",
dice al Foglio il direttore dell’Ajc.
La domanda adesso è se l’Autorità palestinese
e le fazioni armate sapranno sfruttare
questa opportunità: creeranno una zona di
pace o lasceranno che Gaza diventi una calamita
per il terrorismo? "Se sceglieranno
la prima strada, Israele collaborerà per risolvere
altre questioni, come il disimpegno
dalla Cisgiordania" in modo bilaterale e
non più unilaterale.
Gli Stati Uniti e l’Unione europea devono
quindi intervenire senza rallentare il processo
di pace, aiutando i palestinesi a prendere
coscienza delle loro azioni. Non si deve
pertanto permettere – sostiene Harris –
che i gruppi terroristici "giochino a fare politica
locale", come nel caso di Hamas, che
si presenterà alle elezioni legislative il
prossimo gennaio, senza essere stati prima
disarmati. Nonostante i legami saldi fra l’Italia
e Israele, è dal 1996 che la Delegazione
palestinese riceve un contributo annuale
che ammonta a 309.875 euro. Il fondo, per
legge, "non è soggetto a rendiconto" e quindi
non è possibile sapere come sia speso il
finanziamento pubblico. "Potrebbe essere
utilizzato per pagare le spese e gli stipendi
degli impiegati – dice Harris – ma potrebbe
anche servire per fare propaganda di odio
contro Israele, arricchire le tasche private
dei dirigenti o ricompensare le famiglie di
qualche martire palestinese che si è fatto
esplodere nel cuore di Tel Aviv". L’ufficio
antifrode dell’Ue a Bruxelles in una recente
inchiesta – che ha causato scandalo in
Israele – ha dichiarato che l’Anp aveva trasferito
238 milioni di dollari su conti bancari
svizzeri dal 1997 al 2000 senza informare i
suoi donatori internazionali del loro utilizzo.
I finanziamenti per la costruzione di uno
Stato palestinese sono vitali e necessari, ma
"i donatori devono controllare che i fondi
arrivino a destinazione". In Europa inoltre,
prima del piano di ritiro, le critiche contro
il premier israeliano erano continue. Ma
Sharon, spiega Harris, è da sempre un falco
strategico, non ideologico. L’anno prossimo
ci saranno le elezioni generali in Israele e
saranno probabilmente anticipate a primavera.
Sharon gode adesso di grande popolarità
(con l’eccezione di buona parte dei
membri del suo partito, il Likud), da parte
degli israeliani. In questo scenario politico
nato con il ritiro da Gaza, Harris non esclude
un nuovo assetto teso a creare un movimento
centrista con a capo Sharon capace
di attirare l’elettorato anche di altri partiti.
Il peso palestinese sul voto a Gerusalemme
I palestinesi hanno sempre giocato un
ruolo importante nelle elezioni israeliane.
Secondo molti politologi, nel ’96 Shimon Peres,
leader laburista, è stato sconfitto alle
urne a causa degli attacchi terroristici delle
fazioni armate, che hanno spostato il voto
a destra verso il Likud, facendo vincere
Benjamin Netanyahu. Cinque anni dopo,
Ehud Barak, laburista, ha perso contro
Ariel Sharon perché non aveva ottenuto risultati
positivi durante i negoziati a Camp
David con Yasser Arafat, che ha preferito
perseguire la via della lotta armata. Così
Sharon ha potuto sconfiggere il suo avversario
politico e vincere le elezioni. "Se i palestinesi
nei prossimi mesi faranno attententati,
rafforzeranno la destra israeliana –
dice Harris – Se invece sceglieranno la coesistenza
pacifica e si impegneranno a costruire
un governo responsabile a Gaza, potrebbero
dare la vittoria a centro e sinistra".
Secondo Harris, un grande gesto dal
mondo arabo simile al passo compiuto dal
presidente egiziano, Anwar Sadat, quando
ha preso l’aereo per Tel Aviv per parlare alla
Knesset, o quello di re Hussein di Giordania
quando è andato a offrire le proprie
condoglianze alle famiglie delle vittime di
un attentato compiuto da un terrorista giordano,
aiuterebbero il popolo israeliano a fidarsi
dei suoi vicini. "Un gesto di riconoscimento
verso gli sforzi per la pace appena
compiuti da Sharon – dice Harris – sarebbe
il segnale di una potenziale trasformazione
dell’atteggiamento del mondo arabo verso
l’accettazione di una futura convivenza con
Israele: un segno finora mancante".
Ancora di Rolla Scolari l'articolo "Concerti, inni, popo star e un cd per resistere al disimpegno":
Gerusalemme. Il ritiro dalla Striscia di
Gaza è finito, ma il fronte arancione dell’antidisimpegno
– i giovani vicini alla destra
religiosa – non ha ancora smesso di cantare.
La prossima settimana, infatti, si riunirà
una giuria composta da alcuni artisti
israeliani, Ariel Zilber, Eti Levy, Rami Danoch
e da un compositore di liriche, David
Zigman, per scegliere l’inno del movimento
arancione. Le canzoni selezionate potrebbero
finire su un cd oppure essere cantate
durante uno speciale evento di protesta
"postumo". L’idea del concorso, che coinvolge
amatori, è venuta a un ragazzo di 17
anni, Amotz Aval, quando ancora Gush Katif
doveva essere evacuata.
Secondo il quotidiano Haaretz, il giovane
vive in un insediamento a sud della Cisgiordania
e il padre è uno dei capi dell’organizzazione
di settler Tekuma. Proprio per
questo, l’iniziativa ha avuto ampio spazio
sui media religiosi e della destra e decine
di canzoni e alcuni brani sono già stati inviati
agli organizzatori. Nonostante ciò, come
ha raccontato Amotz, non sono molti gli
artisti israeliani che hanno accettato di fare
parte della giuria e l’iniziativa è rimasta
nell’ombra, o perlomeno è nota soltanto a
poche persone. Le canzoni spedite finora al
progetto, che si chiama "Singing in Love",
vanno dal rock all’hip-hop, dal funky alle
melodie mediorientali, ma sono tutte accomunate
dalla protesta contro il governo e
soprattutto contro il premier Ariel Sharon.
Gush Katif, ormai, non soltanto è vuota, ma
le case degli insediamenti sono già state rase
al suolo dalle ruspe dell’esercito israeliano.
Atmoz, tuttavia, ha detto che la canzone
che sarà scelta dalla giuria per diventare
l’inno del movimento contro il disimpegno,
senza riuscire però a ritardarlo di un
solo minuto, dovrà "contenere la speranza".
Il fronte dell’antiritiro e i giovani vicini
alla destra dura che hanno partecipato alle
manifestazioni di protesta a Sderot e
Ofakim e nelle settimane prima del disimpegno
sono entrati illegalmente negli insediamenti
per impedire l’azione dell’esercito,
un inno, in realtà, lo hanno già da molte
settimane. E’ quello che hanno ripetuto e
urlato per giorni, che hanno strillato in faccia
ai soldati nelle ore dell’evacuazione di
Gush Katif, quello che hanno indossato sulle
T-shirt arancioni e hanno scritto a chiare
lettere sugli striscioni: "Yehudi lo megaresh
yehudi", un ebreo non caccia un ebreo.
Non è stato soltanto uno slogan ripetuto per
intere giornate, ma anche una canzone
ascoltata per tutta l’estate e cantata dallo
stesso Ariel Zilber che oggi si trova nella
giuria del piccolo progetto postumo. Zilber
è una delle più celebri figure della musica
israeliana, sulla scena da più di 30 anni. E’
considerato uno dei musicisti che hanno rivoluzionato
il rock nel paese. Il cantante
conosciuto da sempre anche per le sue posizioni
d’estrema destra, per aver difeso, anche
prima che si parlasse di ritiro, gli insediamenti
in Samaria, Galilea e Gaza.
E’ nato a Tel Aviv, ma vive in un kibbutz,
a nord del porto, uno dei più antichi del
paese: Gar Shmuel. Zilber ha cantato davanti
ai manifestanti alle proteste di Sderot
e Ofakim, all’inizio del mese d’agosto; si
inventato una performance alla porta dell’enorme
campo militare dell’esercito, vicino
alla Striscia di Gaza, per convincere i soldati
a non sgomberare le case di Gush Katif;
è andato a consolare, con la sua chitarra, gli
evacuati dall’insediamento di Elei Sinai
che rifiutano, per protesta, le soluzioni abitative
fornite loro dallo Stato e che campeggiano
in un’area di servizio sulla statale vicino
a Ashqelon.
A fronte degli irriducibili, ci informa un altro articolo, anche tra i coloni "C'è chi chiede di essere evacuato":

Ecco il testo:

I residenti dell’insediamento di Teneh
Omarim, in Cisgiordania, hanno chiesto di
essere evacuati nonostante il settlement non
rientri nel piano di disimpegno. Eliezer Weider,
abitante del villaggio, ha detto a Radio
Israele che l’80 per cento dei residenti ha firmato
una lettera per Ariel Sharon reclamando
una retribuzione monetaria pari a quella
per i settler di Gush Katif e dei quattro insediamenti
in Cigiordania già trasferiti per il
loro sgombero dall’area. La maggior parte
delle 85 famiglie di Teneh Omarim, a sud del
monte Hebron, crede di non aver alcun futuro,
scrive Haaretz. Il settlement, già colpito
da attacchi, rimarrà isolato dallo Stato ebraico
senza protezione: sarà situato dalla parte
palestinese della barriera difensiva. Weider
ha affermato che più di 25 case sono già vuote,
ma i proprietari non riescono a trovare
nessun acquirente per le loro abitazioni.
A Gaza, invece, circa 250 abitanti del villaggio
di Dahaniya, considerati dalla popolazione
palestinese collaboratori dello Stato
ebraico, sono stati evacuati come parte del
piano di ritiro israeliano. Gli abitanti riceveranno
un compenso monetario simile a quello
dei settler di Gush Katif. Durante lo sgombero,
un cordone di militari dell’Idf ha protetto
il loro trasloco in un’area non lontana
da Arad nel Negev. Il governo di Gerusalemme
voleva distruggere la città di Dahaniya e
inserire gli abitanti nelle città palestinesi,
ma i residenti si sono opposti con un appello
alla Corte suprema israeliana, chiedendo di
essere trasferiti all’interno dei confini dello
Stato ebraico. Gli abitanti di Dahaniya – scrive
Kuwait Times – hanno paura di essere uccisi
dai palestinesi. "Sono visti come dei nemici",
dice un portavoce dell’Idf. Quasi tutti
i collaboratori sono stati trasferiti in Israele
qualche anno fa, ma la reputazione di Dahaniya
nei Territori – utilizzata come punto di
transito degli informatori palestinesi – continua
a essere negativa.
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