Israele dopo il ritiro da Gaza analisi, cronache e interviste
Testata: Il Foglio Data: 31 agosto 2005 Pagina: 2 Autore: Anna Barducci Mahjar - Rolla Scolari - Lisa Palmieri-Billig Titolo: «- - - Anp alla prova -- C'è chi chiede d'essere evacuato»
IL FOGLIO di mercoledì 31 agosto 2005 dedica l'intera pagina 2 dell'inserto alle prospettive politiche del dopo ritiro da Gaza.
Di seguito, riportiamo l'articolo di Anna Barducci Majar "Bibi Netanyahu, leader "normale", sfida la pietà del soldato Sharon": Benjamin Netanyahu ieri pomeriggio ha annunciato la sua candidatura per la guida del Likud, sfidando il premier Ariel Sharon alle prossime primarie. "Il partito ha bisogno di un leader che possa unire le fila, riportare in vita le rovine e dare la vittoria al Likud", ha detto Bibi, com’è soprannominato Netanyahy, sicuro di sé davanti alle telecamere in una conferenza a Tel Aviv. Ha comunicato di voler riportare il partito alle posizioni tradizionali della destra – che lo hanno caratterizzato per tutti gli anni Novanta – dichiarando che il Likud deve ritrovare la retta via abbandonata da Sharon. Ma il premier israeliano non si fa spaventare: se i sondaggi dentro al suo partito lo danno come perdente alle primarie, l’elettorato lo sostiene a larga maggioranza. Questo è il suo verso asso nella manica. Bibi qualche giorno fa aveva dichiarato che Sharon non è adatto per essere rinominato primo ministro (se vincesse sarebbe la terza volta consecutiva): è corrotto, i suoi figli sono coinvolti in scandali e si è ritirato da Gaza. Sharon, con un tono pacato senza scomporsi o perdere la calma, ha risposto due giorni dopo, dicendo che Netanyahu soffre di crisi di panico e non è capace di affrontare lo stress. Così Bibi si è surriscaldato e ha detto: allora perché il premier mi ha offerto il posto di ministro delle Finanze? "Arik", com’è soprannominato Sharon, noto per mantenere il controllo nelle situazioni più ardue e per il suo umorismo spesso tagliente, ha risposto che Bibi ha fatto un ottimo lavoro prima di dimettersi dal suo incarico, ma ha aggiunto che è facile farlo quando il premier ti appoggia e ti aiuta. Non potrebbero essere più diversi, Bibi e Arik, la quotidianità del leader di partito e la pietà del soldato a confronto. Netanyahu ha studiato negli Stati Uniti al Mit e parla un buon inglese senza accento – a differenza di Sharon e la sua riconoscibile "erre" israeliana – si veste con eleganza, non come il premier che a queste cose non ci bada, ama la bella vita, sigari di prima qualità, night club, feste a New York con Donald Trump e le belle donne (nonostante sia sposato), anche se da ultimo per una scelta politica – dicono voci di corridoio indiscrete – ha deciso di abbandonare la compagnia del gentil sesso. Sharon invece non ama niente di tutto ciò, le sue vacanze le trascorre nel suo ranch nel Negev e le sue uniche passioni – ha ammesso lui stesso – sono i suoi figli e la terra. Il premier è un indiscusso eroe di guerra, un militare che ha portato il suo paese alla vittoria della guerra di Kippur, infrangendo gli ordini dei superiori. Bibi, ex ufficiale, vive invece nell’ombra della figura di suo fratello Yonathan, detto Yoni. Era un comandante dell’unità speciale dell’intelligence militare ucciso nell’operazione "Entebbe" nel 1976, dove vi partecipò anche il laburista Ehud Barak. Yoni è tuttora ricordato in Israele come un grande eroe di guerra, un uomo che alle sue donne parlava dei sogni del sionismo. E poi, il padre di Bibi è il professore Ben Zion, illustre storico dell’Inquisizione, che si è espresso contro il disimpegno da Gaza ed è stato il segretario di Zev Jabotinsky, fondatore e leader spirituale del sionismo revisionista. Netanyahu si è quindi ritrovato – dice chi lo conosce bene – a doversi sempre misurare sia con lo spessore del fratello sia con quello del padre. Chi lo critica commenta: se nella retorica si situa nel mezzo tra Yoni e Ben Zion, nei fatti non si avvicina a nessuno dei due. Quando Bibi è stato primo ministro aveva negoziato con l’ex rais Yasser Arafat gli accordi di Wye Plantation nel ’98, che prevedevano il ritiro dal 13 per cento dei Territori ai quali aveva partecipato anche Natan Sharansky, che si è dimesso dal suo incarico di ministro per appoggiare i settler di Gush Katif prima di Netanyahu. L’accordo oggi, agli occhi dell’elettorato, sembra in contraddizione con le recenti posizioni di Bibi contro il disimpegno. Sharon osserva le mosse del suo avversario. Un giornalista gli ha chiesto se in caso di vittoria di Bibi alle primarie rimarrà sotto la sua guida. Arik ha risposto con un secco "no". Nell’eventualità che i membri del Likud scegliessero Netanyahu, rischiando di perdere così alle elezioni generali, Sharon – dicono i media israeliani – si dimetterebbe e andrebbe alle elezioni anticipate per presentarsi con una forza di centro con la vittoria sicura. Questo non è quello che vuole Bibi, che mettendo le mani avanti ha detto: chiunque perda deve rimanere nel Likud. Netanyahu spera così che Sharon resti nel partito, di ricevere gli onori e di essere trattato come futuro premier fino alle elezioni, garantendosi in questo modo un secondo mandato dopo quello del 1996. Ma sottostare a ordini con i quali non concorda non fa parte del carattere di Sharon, che non sembra intenzionato ad assecondare il suo sfidante. E' di Rolla Scolari l'articolo "Dopo la Striscia? Molti dicono Cisgiordania ma forse toccherà al Golan", che riportiamo Ma’ale Gamla (Golan). Domenica mattina un terrorista suicida si è fatto esplodere nella cittadina israeliana di Be’ersheva, nel Negev, ferendo una ventina di persone. Il Jihad islamico ha rivendicato l’attacco. Si tratta del primo di questo tipo dopo la fine del disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza. Nelle ore successive il ritiro, un colpo di mortaio è stato sparato dal sud del Libano in territorio israeliano e un missile Qassam è caduto sulla cittadina di Sderot, nel sud. Ma Ygal Kipnis, abitante di un insediamento del Golan, a nord del paese, spiega al Foglio che, dall’inizio della seconda Intifada, nel 2000, la regione è molto pacifica e che i problemi in Israele sono concentrati altrove. Kipnis abita con la moglie e le figlie a Ma’ale Gamla, a nord del lago di Tiberiade, in un insediamento con una splendida vista sui luoghi evangelici. Coltiva manghi, in questi giorni la famiglia ha raccolto diverse tonnellate di frutti. Kipnis, con alcuni altri abitanti della zona, nel 1996, subito dopo la morte di Ytzhak Rabin, aveva fondato un’associazione: "Settlers for peace". Nel 1995, l’allora primo ministro aveva iniziato una serie di negoziati con la Siria, mai giunti a termine, sul Golan, occupato nel 1967 da Israele. Nel 1979, spiega Kipnis, dopo il Trattato con l’Egitto, è diventato chiaro che gli insediamenti israeliani non possono impedire i negoziati di pace. Ricorda che nel 1996, mentre Siria e Israele erano al tavolo della negoziazione e nel paese si preparavano le elezioni, un sondaggio creò molto stupore: il 45 per cento degli abitanti del Golan disse che, in caso di referendum, avrebbe votato a favore delle trattative con Damasco, acconsentendo quindi allo sgombero degli insediamenti in cui viveva. Oggi, a disimpegno da Gaza terminato, Kipnis prende d’esempio alcuni "moshav" nei pressi della Striscia, come Ein Habesor, per spiegare le sue posizioni. Laggiù, racconta al Foglio, vivono famiglie che, dopo gli accordi di pace del 1979 con l’Egitto, furono evacuate dal Sinai. Oggi i loro bei villaggi sono la prova che si può agire in maniera diversa da come hanno fatto i settler di Gaza. Molti, spiega, stanno facendo propaganda non accettando le soluzioni abitative offerte loro dallo Stato. "C’è un legame tra il Golan e il disimpegno da Gaza, ma nessuno ne parla", dice Kipnis. Spiega che, dalla fondazione del primo insediamento nella regione, gli abitanti hanno vissuto con un remoto dubbio, un’insicurezza sul futuro. Le persone capiscono che qualcosa può sempre succedere. Kipnis ha portato avanti uno studio sulla regione del Golan per l’università di Haifa. Nell’area oggi ci sono 32 insediamenti israeliani, otto o nove dei quali religiosi, e cinque villaggi drusi, per un totale di 17 mila persone, completamente isolate da un ambiente arabo, a differenza dei settlement della Striscia di Gaza. Prima del 1967 i villaggi siriani erano più di 250 e gli abitanti 128 mila. Kipnis e la moglie sono arrivati nel Golan da Haifa, 27 anni fa. Lui è laureato in ingegneria, lei in farmacia. Non volevano più vivere in città, cercavano un ambiente tranquillo e una vita sociale "più intima". Il governo aiutava finanziariamente chi sceglieva di muoversi nella regione. A Ma’ale Gamla non c’era nulla. Oggi 70 famiglie vivono in belle ville in mezzo al verde sulle pendici delle alture. In Israele, quando si dice "Gamla", viene in mente il miglior vino del paese. Nessuno, spiega la coppia, pensava a un futuro lontano: il dubbio e l’insicurezza sono sempre rimasti remoti. Oggi, gli abitanti della zona fanno il collegamento tra Gaza e Golan, ma non osano esplicitare i loro fantasmi. "Come cittadino d’Israele ritengo che il ritiro dalla Striscia sia un buon passo per la società israeliana. Gli insediamenti non possono essere un impedimento ai trattati di pace, anche se in questo caso non c’è un negoziato. Capisco il punto di vista dei settler della Striscia: c’è un contrasto tra l’interesse personale e quello nazionale. Era diritto degli abitanti fare il possibile per evitare il ritiro prima dell’approvazione del piano da parte del governo e del Parlamento. Dopo, avrebbero dovuto accettare una decisione democratica. Capisco anche alcuni miei amici e vicini che, ai tempi dei negoziati con la Siria, si erano opposti. Avevano seguito le passioni e non la razionalità". Israele ha bisogno di una pace con Damasco per la propria stabilità, dice, "anche se ci andiamo di mezzo noi, gli abitanti del Golan", che il governo siriano reclama in cambio di un riconoscimento d’Israele. Sempre di Rolla Scolari "I piani della Farnesina israeliana per cogliere l'attimo con i paesi arabi"
Ecco il testo:
Gerusalemme. Entrare al ministero degli Esteri israeliano, anche con un invito, non è semplice. I controlli per la sicurezza sono molti e molto attenti. "Vorrei che fosse diverso", ha detto al Foglio Aharon Leshno Yaar, vicedirettore generale a capo della divisione per le organizzazioni internazionali del ministero, la stessa mattina in cui a Be’ersheva, nel Negev, un terrorista si è fatto esplodere nel primo attacco dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza (non ci sono state vittime oltre all’attentatore). Nonostante tutto, Yaar è ottimista sul futuro della regione nel dopo disimpegno, e sul destino dei rapporti con i palestinesi e con i paesi vicini. "Ci aspettiamo che gli arabi rispondano positivamente – dice sorridente dal suo ufficio, Accanto a lui, la piccola valigia con cui sta per partire per la Giordania – E’ talmente vicino, un’ora da porta a porta", aggiunge incredulo, riferendosi alla situazione con gli altri paesi confinanti. Una risposta positiva, spiega, sarebbe il miglioramento delle relazioni diplomatiche tra Israele e i vicini. "Ora abbiamo rappresentanze in quattro o cinque paesi arabi e spero che questo numero aumenti presto". Qualche indizio in questo senso c’è già stato. Il presidente tunisino, Ben Ali, ha invitato il primo ministro, Ariel Sharon, a una conferenza in Tunisia a novembre. Pochi giorni fa, invece, il re del Marocco, Mohammed VI, ha inviato un messaggio positivo al governo israeliano, a disimpegno finito, e il ritiro è stata un’opportunità per migliorare la collaborazione già esistente tra Giordania, Egitto e Israele. Sharon e il ministro degli Esteri, Silvan Shalom, saranno a New York per il World Summit a metà settembre. Secondo Yaar si tratta di un’ altra opportunità per gli israeliani d’incontrare le controparti arabe. "Sono ottimista. Certo, dobbiamo vedere progressi sul campo: meno violenza e una miglior atmosfera tra israeliani e palestinesi. Ma, se le cose si sviluppassero nella maniera in cui speriamo, tra noi e i palestinesi, non vedo ragioni per cui non si possano attendere concreti progressi anche sul piano delle relazioni tra Israele e gli arabi". Il ritiro ha interessato molto i mass media dei paesi vicini. Dice Yaar che troppo spesso i governi arabi sono stati spettatori passivi del conflitto. "Vorremmo vedere un ruolo arabo più importante nel futuro della Palestina, un maggior sostegno economico per Gaza e per l’Autorità nazionale, più appoggio morale e politico. Spero che il successo del disimpegno li spinga a un coinvolgimento maggiore". La stampa internazionale, invece, si è focalizzata sul disimpegno come evento di politica interna israeliana e non ha investigato troppo i possibili effetti dell’evacuazione sull’intera area mediorientale. "Questa regione sta attraversando un periodo di grandi cambiamenti: il disimpegno è un piccolo elemento. Il contesto è più ampio: c’è la presenza americana nella regione, in Iraq e Afghanistan. Gli Stati Uniti sono diventati un potere regionale e sono ormai un attore nel mondo arabo; poi la guerra contro il terrorismo è diventata un aspetto preminente nel discorso politico e sociale dell’area e ha forzato gli arabi a guardarsi allo specchio e a chiedersi se sono con o contro il terrorismo". Yaar pensa che la maggior parte sia contro. C’è questa nuova spinta alla democratizzazione creata dalle pressioni di Washington. "E’ un dilemma per i governi arabi: si rendono conto che mette a rischio la loro legittimità, ma non hanno altra scelta se non accettare la sfida". Yaar continua la sua lista. C’è il conflitto arabo israeliano: "E’ soltanto un conflitto israelo-palestinese, non più arabo israeliano". Israele, spiega, è diventato un partner per molti paesi arabi nella lotta al terrorismo e su molti altri fronti. "Abbiamo contatti con quasi tutti i paesi arabi, a eccezione di uno o due radicali. Persino nei momenti più critici della seconda Intifada abbiamo mantenuto i rapporti. Per diverse ragioni: per le nostre relazioni speciali con gli Stati Uniti, per la nostra abilità nella lotta al terrorismo, perché se parli di high-tech parli d’innovazioni israeliane e oggi non puoi importare un computer senza importare componenti israeliane e quindi, indirettamente, ci sono molti contatti tra israeliani e arabi, contatti di business, altrimenti nella tua stanza non avresti un computer". Infatti, se compri Microsoft acquisti anche un prodotto israeliano: Intel, azienda produttrice di microprocessori, che lavora con la compagnia di software, ha una sede a Kiryat Gat, nel sud del paese. "Oggi, con Internet e i satelliti non ci sono più frontiere, la politica non è più un attore – conclude Yaar – Il conflitto è obsoleto, anacronistico. Abbiamo le soluzioni; tutti sanno quali sono i parametri del futuro accordo di pace, è solo questione di tempo. Nel libro della storia nessuno ricorderà il 2005. La regione sta cambiando: con persone come il presidente palestinese Abu Mazen, piano piano, ma insieme, ci sarà un futuro migliore, nella soluzione che tutti vogliamo: i due Stati. Il resto sono dettagli". Lisa Palmieri Billig intervista David Harris, direttore dell'American Jewish Comitee che "dà un consiglio a Sharon e una sferzata all'Europa".
Ecco il testo, "Anp alla prova":
Roma. Dopo il ritiro da Gaza, David Harris, direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (Ajc), la più antica e importante organizzazione ebraica americana, ha cercato di capire il futuro dei palestinesi e la direzione della comunità internazionale nei confronti di Israele. Secondo Harris, nei Territori si sta aprendo un’opportunità senza precedenti per la costruzione di un futuro Stato palestinese che conviva pacificamente vicino allo Stato ebraico, soprattutto alla luce delle recenti dichiarazioni del premier, Ariel Sharon, su un ulteriore sgombero in Cisgiordania. "Nemmeno sotto il dominio egiziano (durato fino alla fine della Guerra dei Sei giorni, ndr), la popolazione di Gaza ha avuto la possibilità di autogovernarsi", dice al Foglio il direttore dell’Ajc. La domanda adesso è se l’Autorità palestinese e le fazioni armate sapranno sfruttare questa opportunità: creeranno una zona di pace o lasceranno che Gaza diventi una calamita per il terrorismo? "Se sceglieranno la prima strada, Israele collaborerà per risolvere altre questioni, come il disimpegno dalla Cisgiordania" in modo bilaterale e non più unilaterale. Gli Stati Uniti e l’Unione europea devono quindi intervenire senza rallentare il processo di pace, aiutando i palestinesi a prendere coscienza delle loro azioni. Non si deve pertanto permettere – sostiene Harris – che i gruppi terroristici "giochino a fare politica locale", come nel caso di Hamas, che si presenterà alle elezioni legislative il prossimo gennaio, senza essere stati prima disarmati. Nonostante i legami saldi fra l’Italia e Israele, è dal 1996 che la Delegazione palestinese riceve un contributo annuale che ammonta a 309.875 euro. Il fondo, per legge, "non è soggetto a rendiconto" e quindi non è possibile sapere come sia speso il finanziamento pubblico. "Potrebbe essere utilizzato per pagare le spese e gli stipendi degli impiegati – dice Harris – ma potrebbe anche servire per fare propaganda di odio contro Israele, arricchire le tasche private dei dirigenti o ricompensare le famiglie di qualche martire palestinese che si è fatto esplodere nel cuore di Tel Aviv". L’ufficio antifrode dell’Ue a Bruxelles in una recente inchiesta – che ha causato scandalo in Israele – ha dichiarato che l’Anp aveva trasferito 238 milioni di dollari su conti bancari svizzeri dal 1997 al 2000 senza informare i suoi donatori internazionali del loro utilizzo. I finanziamenti per la costruzione di uno Stato palestinese sono vitali e necessari, ma "i donatori devono controllare che i fondi arrivino a destinazione". In Europa inoltre, prima del piano di ritiro, le critiche contro il premier israeliano erano continue. Ma Sharon, spiega Harris, è da sempre un falco strategico, non ideologico. L’anno prossimo ci saranno le elezioni generali in Israele e saranno probabilmente anticipate a primavera. Sharon gode adesso di grande popolarità (con l’eccezione di buona parte dei membri del suo partito, il Likud), da parte degli israeliani. In questo scenario politico nato con il ritiro da Gaza, Harris non esclude un nuovo assetto teso a creare un movimento centrista con a capo Sharon capace di attirare l’elettorato anche di altri partiti. Il peso palestinese sul voto a Gerusalemme I palestinesi hanno sempre giocato un ruolo importante nelle elezioni israeliane. Secondo molti politologi, nel ’96 Shimon Peres, leader laburista, è stato sconfitto alle urne a causa degli attacchi terroristici delle fazioni armate, che hanno spostato il voto a destra verso il Likud, facendo vincere Benjamin Netanyahu. Cinque anni dopo, Ehud Barak, laburista, ha perso contro Ariel Sharon perché non aveva ottenuto risultati positivi durante i negoziati a Camp David con Yasser Arafat, che ha preferito perseguire la via della lotta armata. Così Sharon ha potuto sconfiggere il suo avversario politico e vincere le elezioni. "Se i palestinesi nei prossimi mesi faranno attententati, rafforzeranno la destra israeliana – dice Harris – Se invece sceglieranno la coesistenza pacifica e si impegneranno a costruire un governo responsabile a Gaza, potrebbero dare la vittoria a centro e sinistra". Secondo Harris, un grande gesto dal mondo arabo simile al passo compiuto dal presidente egiziano, Anwar Sadat, quando ha preso l’aereo per Tel Aviv per parlare alla Knesset, o quello di re Hussein di Giordania quando è andato a offrire le proprie condoglianze alle famiglie delle vittime di un attentato compiuto da un terrorista giordano, aiuterebbero il popolo israeliano a fidarsi dei suoi vicini. "Un gesto di riconoscimento verso gli sforzi per la pace appena compiuti da Sharon – dice Harris – sarebbe il segnale di una potenziale trasformazione dell’atteggiamento del mondo arabo verso l’accettazione di una futura convivenza con Israele: un segno finora mancante". Ancora di Rolla Scolari l'articolo "Concerti, inni, popo star e un cd per resistere al disimpegno": Gerusalemme. Il ritiro dalla Striscia di Gaza è finito, ma il fronte arancione dell’antidisimpegno – i giovani vicini alla destra religiosa – non ha ancora smesso di cantare. La prossima settimana, infatti, si riunirà una giuria composta da alcuni artisti israeliani, Ariel Zilber, Eti Levy, Rami Danoch e da un compositore di liriche, David Zigman, per scegliere l’inno del movimento arancione. Le canzoni selezionate potrebbero finire su un cd oppure essere cantate durante uno speciale evento di protesta "postumo". L’idea del concorso, che coinvolge amatori, è venuta a un ragazzo di 17 anni, Amotz Aval, quando ancora Gush Katif doveva essere evacuata. Secondo il quotidiano Haaretz, il giovane vive in un insediamento a sud della Cisgiordania e il padre è uno dei capi dell’organizzazione di settler Tekuma. Proprio per questo, l’iniziativa ha avuto ampio spazio sui media religiosi e della destra e decine di canzoni e alcuni brani sono già stati inviati agli organizzatori. Nonostante ciò, come ha raccontato Amotz, non sono molti gli artisti israeliani che hanno accettato di fare parte della giuria e l’iniziativa è rimasta nell’ombra, o perlomeno è nota soltanto a poche persone. Le canzoni spedite finora al progetto, che si chiama "Singing in Love", vanno dal rock all’hip-hop, dal funky alle melodie mediorientali, ma sono tutte accomunate dalla protesta contro il governo e soprattutto contro il premier Ariel Sharon. Gush Katif, ormai, non soltanto è vuota, ma le case degli insediamenti sono già state rase al suolo dalle ruspe dell’esercito israeliano. Atmoz, tuttavia, ha detto che la canzone che sarà scelta dalla giuria per diventare l’inno del movimento contro il disimpegno, senza riuscire però a ritardarlo di un solo minuto, dovrà "contenere la speranza". Il fronte dell’antiritiro e i giovani vicini alla destra dura che hanno partecipato alle manifestazioni di protesta a Sderot e Ofakim e nelle settimane prima del disimpegno sono entrati illegalmente negli insediamenti per impedire l’azione dell’esercito, un inno, in realtà, lo hanno già da molte settimane. E’ quello che hanno ripetuto e urlato per giorni, che hanno strillato in faccia ai soldati nelle ore dell’evacuazione di Gush Katif, quello che hanno indossato sulle T-shirt arancioni e hanno scritto a chiare lettere sugli striscioni: "Yehudi lo megaresh yehudi", un ebreo non caccia un ebreo. Non è stato soltanto uno slogan ripetuto per intere giornate, ma anche una canzone ascoltata per tutta l’estate e cantata dallo stesso Ariel Zilber che oggi si trova nella giuria del piccolo progetto postumo. Zilber è una delle più celebri figure della musica israeliana, sulla scena da più di 30 anni. E’ considerato uno dei musicisti che hanno rivoluzionato il rock nel paese. Il cantante conosciuto da sempre anche per le sue posizioni d’estrema destra, per aver difeso, anche prima che si parlasse di ritiro, gli insediamenti in Samaria, Galilea e Gaza. E’ nato a Tel Aviv, ma vive in un kibbutz, a nord del porto, uno dei più antichi del paese: Gar Shmuel. Zilber ha cantato davanti ai manifestanti alle proteste di Sderot e Ofakim, all’inizio del mese d’agosto; si inventato una performance alla porta dell’enorme campo militare dell’esercito, vicino alla Striscia di Gaza, per convincere i soldati a non sgomberare le case di Gush Katif; è andato a consolare, con la sua chitarra, gli evacuati dall’insediamento di Elei Sinai che rifiutano, per protesta, le soluzioni abitative fornite loro dallo Stato e che campeggiano in un’area di servizio sulla statale vicino a Ashqelon. A fronte degli irriducibili, ci informa un altro articolo, anche tra i coloni "C'è chi chiede di essere evacuato":
Ecco il testo: I residenti dell’insediamento di Teneh Omarim, in Cisgiordania, hanno chiesto di essere evacuati nonostante il settlement non rientri nel piano di disimpegno. Eliezer Weider, abitante del villaggio, ha detto a Radio Israele che l’80 per cento dei residenti ha firmato una lettera per Ariel Sharon reclamando una retribuzione monetaria pari a quella per i settler di Gush Katif e dei quattro insediamenti in Cigiordania già trasferiti per il loro sgombero dall’area. La maggior parte delle 85 famiglie di Teneh Omarim, a sud del monte Hebron, crede di non aver alcun futuro, scrive Haaretz. Il settlement, già colpito da attacchi, rimarrà isolato dallo Stato ebraico senza protezione: sarà situato dalla parte palestinese della barriera difensiva. Weider ha affermato che più di 25 case sono già vuote, ma i proprietari non riescono a trovare nessun acquirente per le loro abitazioni. A Gaza, invece, circa 250 abitanti del villaggio di Dahaniya, considerati dalla popolazione palestinese collaboratori dello Stato ebraico, sono stati evacuati come parte del piano di ritiro israeliano. Gli abitanti riceveranno un compenso monetario simile a quello dei settler di Gush Katif. Durante lo sgombero, un cordone di militari dell’Idf ha protetto il loro trasloco in un’area non lontana da Arad nel Negev. Il governo di Gerusalemme voleva distruggere la città di Dahaniya e inserire gli abitanti nelle città palestinesi, ma i residenti si sono opposti con un appello alla Corte suprema israeliana, chiedendo di essere trasferiti all’interno dei confini dello Stato ebraico. Gli abitanti di Dahaniya – scrive Kuwait Times – hanno paura di essere uccisi dai palestinesi. "Sono visti come dei nemici", dice un portavoce dell’Idf. Quasi tutti i collaboratori sono stati trasferiti in Israele qualche anno fa, ma la reputazione di Dahaniya nei Territori – utilizzata come punto di transito degli informatori palestinesi – continua a essere negativa. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.