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Il Foglio Rassegna Stampa
30.08.2005 Disimpegno e terrorismo: cruciali il ruolo dell'Egitto, e il defilarsi della Giordania
segnano la differenza tra Gaza e Cisgiordania

Testata: Il Foglio
Data: 30 agosto 2005
Pagina: 3
Autore: un giornalista
Titolo: «Abu Mazen tra terrore e protettorato - Perché il modello Gaza non può essere esportato in Cisgiordania»
IL FOGLIO di martedì 30 agosto 2005 pubblica a pagina 3 l'editoriale "Abu Mazen tra terrore e protettorato" che spiega come "La ripresa degli attentati" dia "maggior peso all'intervento egiziano".

Ecco il testo:

L’attentato suicida che ha provocato una cinquantina di feriti israeliani nella città di Beersheva mette in dubbio la capacità dell’Autorità palestinese di bloccare i terroristi, anche dopo che, con l’evacuazione della Striscia di Gaza, Israele ha dimostrato concretamente di voler dare una chance all’esecutivo di Abu Mazen. L’attentato non fermerà l’operazione di ritiro da Gaza ma ha accelerato la decisione di Gerusalemme di impegnare l’Egitto nel controllo della frontiera sud della Striscia. Apparentemente si tratta di un’operazione tecnica: la frontiera con l’Egitto, dalla quale i terroristi cercavano di far passare armi e militanti, finora presidiata dalle forze israeliane, sarà controllata dopo il loro ritiro da quelle egiziane. In realtà l’accordo prelude a uno scenario più complesso. Se l’Autorità palestinese non riuscirà a garantire l’ordine a Gaza, dove la presenza degli estremisti è assai rilevante, essa finirà col tornare a essere, com’è stata dal 1948 al 1967, un protettorato egiziano. Una prova del fuoco per i palestinesi che aspirano a costruire un proprio Stato indipendente.
Nel ’48, quando gli arabi rifiutarono il piano dell’Onu di spartizione della Palestina, con l’obiettivo di distruggere il neonato Stato ebraico, i territori palestinesi finirono sotto il controllo egiziano a ovest e giordano a est, per essere poi occupati da Israele dopo la guerra del Kippur, scatenata anch’essa dagli arabi. L’indipendenza della Palestina può esistere soltanto a condizione di un riconoscimento effettivo del diritto all’esistenza di Israele, esattamente il contrario di quello che sostengono estremisti e terroristi. Ora, nella Striscia di Gaza, questa indipendenza, vigilata ai confini da Israele e dall’Egitto, può fare i primi passi, se riuscirà a debellare i terroristi; o uscire dalla prospettiva politica, se non ci riuscirà.
Sempre a pagina 3 un articolo spiega "Perché il modello Gaza non può essere esportato in Cisgiordania"

Ecco il testo:

Gerusalemme. Nei giorni scorsi, il presidente dell’Anp Abu Mazen ha dichiarato
che, dopo il ritiro da Gaza, Israele deve lasciare la Cisgiordania. Il governo di Gerusalemme si è detto pronto a ulteriori concessioni: lo sgombero dei quattro insediamenti in aggiunta ai 21 nella Striscia – ha detto Mark Regev, portavoce del ministero degli Affari esteri – è una dichiarazione d’intenti.
"Il problema reale – dice al Foglio Yossi Klein Halevi, politologo israeliano dello Shalem center – è che Israele non sembra avere un vero piano per la Cisgiordania, a differenza dei gruppi armati palestinesi che hanno promesso una nuova ondata di attacchi". Il primo ministro palestinese, Abu Ala, ha condannato i piani d’Israele sulla confisca di terreni intorno all’insediamento di Maaleh Adumim, vicino a Gerusalemme, per innalzare la barriera di separazione. Secondo Halevi, un disimpegno dalla Cisgiordania non è però da escludere, ma sarà effettuato secondo tre criteri: la sicurezza, tenendo in
considerazione che la barriera di difesa protegge dagli attacchi suicidi ma non dai missili Qassam, la demografia, cercando di far rietrare meno popolazione palestinese possibile all’interno dei nuovi confini, e gli insediamenti – il quotidiano Haaretz riporta che i "settler" da circa 12 mila sono diventati 246 mila nonostante il recente disimpegno – mantenendone il maggior numero all’interno d’Israele. Il ruolo di mediazione della Giordania, che fino alla Guerra dei Sei giorni occupava la Cisgiordania, è però assente. A differenza dell’Egitto, che sorveglierà militarmente il corridoio Philadelphia dalla sua parte del confine e che cerca di avere un ruolo rilevante nel dopo ritiro, il regno hashemita in questi ultimi anni ha tentato di staccarsi da ogni impegno politico in Cisgiordania, se non quello del mero appoggio alla causa palestinese
e della presenza del re Abdullah a conferenze internazionali. "La Giordania ha
voluto dissociarsi dalla Cisgiordania – dice al Foglio Yigal Carmon presidente del Memri – per non destabilizzare lo status quo dei palestinesi nel proprio regno". Intanto, Omar Suleiman, a capo dell’intelligence egiziana, ha detto di voler continuare il dialogo con Hamas, danneggiando però ulteriormente – sostengono fonti dell’Anp – la posizione di Abu Mazen, che si incontrerà a breve
al Cairo con le autorità egiziane. Secondo Halevi, se il ritiro dalla Cisgiordania avrà luogo sarà nuovamente unilaterale, se il rais palestinese non prenderà iniziative concrete contro i gruppi armati. In una recente intervista alla radio israeliana, Abu Mazen, parlando del disarmo delle fazioni, ha detto che preferisce non fare promesse che non è in grado di mantenere."Il disimpegno dalla Cisgiordania, quando avverrà, non terrà però in considerazione i confini del ’67 – sostiene Halevi – Per ragioni di sicurezza, il premier Sharon sembra intenzionato a mantere in controllo del 20 o 30 per cento del territorio". Hamas, che si sta preparando per le elezioni legislative, non nasconde il suo appoggio all’attentato del Jihad islamico di domenica mattina a Beersheva, spingendo per la "liberazione della Cisgiordania e Gerusalemme".
Mohammed Deif, latitante del movimento, in un recente video ha sostenuto
che le "le armi della resistenza" devono essere mantenute "alzate". Abu Mazen ha
inoltre dichiarato che, dopo il ritiro dei "settler" e dell’esercito da Gaza, tra un mese, non ci sarà più bisogno di continuare la "resistenza", legittimando così – c’è chi sostiene soltanto per errore – gli attacchi contro
civili e i soldati israeliani.
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