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La Stampa Rassegna Stampa
29.08.2005 Un terrorismo che indebolisce le speranze di pace e minaccia anche Abu Mazen
l'analisi di Fiamma Nirenstein sul'attentato di Beersheba

Testata: La Stampa
Data: 29 agosto 2005
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «L'attacco degli ultrà alla pace»
LA STAMPA di lunedì 29 agosto 2005 pubblica a pagina 6 un'analisi di Fiamma Nirenstein sull'attentato del 28 agosto a Beersheba.

Ecco il testo:

L’attacco di Beersheba porta con sè un senso di desolazione maggiore del solito. Sia la caccia dell'esercito, mercoledì scorso, a una cellula terrorista conclusasi con cinque morti palestinesi, sia i vari missili Kassam contro gli israeliani e gli attacchi omicidi a fuoco lungo le strade, oltre all'assassinio di un giovane nella città Vecchia a Gerusalemme, non avevano sradicato la speranza.
Anche i due attacchi dei terroristi ebrei erano apparsi episodi orribili e folli, ma non legati all'attuale processo politico. Dopo lo sgombero da Gaza e da parte della Samaria, tutto il mondo desiderava e sognava che si riaprisse uno spazio per la Road Map: il gesto di Israele arava un campo su cui Abu Mazen avrebbe dovuto, secondo un opinione appena ripetuta da George Bush, coltivare la lotta al terrorismo perché la pace ritrovasse un po’ di speranza. Nel frattempo veniva offerta dagli Usa una grossa donazione all'Autonomia Nazionale Palestinese, insieme all'impegno di tutto il mondo per consentire l'avvio di una nuova vita per la Striscia.
Ma un attacco come quello di ieri indebolisce di molto le speranze di pace: è un attentato di stampo classico, che potrebbe essere stato compiuto in qualsiasi momento di questi ultimi cinque anni e porta impressa l'intenzione di uccidere più innocenti possibili. Era diretto, come sembra, all'ospedale di Soroka; è identico, quanto a provenienza geografica del terrorista dal sud di Hebron; e la mano, così appare, è quella di Hamas. Insomma, è identico all'attentato che ebbe luogo il 31 agosto di un anno fa. Allora ci furono 16 morti e stavolta soltanto un caso fortunato ha fatto sì che non ci sia stato lo stesso alto numero di vittime.
Ci sono due motivi per cui questo attentato è stato compiuto, uno tattico e l'altro strategico. Quello tattico è interno: con lo sgombero di Gaza, tutte le organizzazioni palestinesi hanno ingaggiato una gara per rivendicare agli occhi della popolazione il merito della «fuga» di Israele. Il terrorismo è stato rivendicato come arma decisiva soprattutto da Hamas. Sul suo sito web l’organizzazione in questi giorni presenta tutta la sua ricchezza terroristica, dimostrando con orgoglio che le si debbono il 54 per cento degli attentati suicidi, 277 su 400, dice. Anche le sue credenziali in termini di sangue versato contano orgogliosamente 145 dei 215 «martiri».
Muhammed Deif, il mitico capo militare di Iz'a din al Kassam, ricercato dal 1991, ha fatto sabato una sua straordinaria apparizione video, coprendo Israele di minacce - «riconquisteremo col fuoco Acco, Giaffa, Safed, Beersheba, Ashkelon...» - e annunciando che «tutta la Palestina diventerà un inferno per gli ebrei».
Ieri poi il portavoce di Hamas, Khaled al Bach, ha definito l'attentato «una naturale espressione della Jihad». Bisogna sottolineare che Abu Mazen, dopo un'intervista in cui dichiarava la sua volontà di proseguire la tregua indefinitamente, ha condannato il gesto, e così i suoi uomini.
Ma il problema non sta nelle condanne o nell'esaltazione, non è nelle parole, ma nella scelta della strada per trovare la via del cuore dei palestinesi e vincere alle prossime elezioni che, per ora resta il martirio, la jihad, in definitiva il terrore. Abu Mazen alcuni giorni fa aveva di fatto esaltato l'uscita da Gaza come «la fine della piccola jihad che segna l'inizio della grande jihad» e aveva indicato, in quel contesto, la strada di Gerusalemme come prossima tappa; domenica scorsa Abu Ala, il Primo ministro dell'Autonomia, si era incontrato a Damasco con tutte le fazioni palestinesi e aveva promesso loro un salvacondotto per il post sgombero: questo è il vero problema.
Infatti, nella dimensione tattica di cui abbiamo parlato, Abu Mazen non rinuncia a cercare il consenso, suggerendo in maniera sottintesa che l'uscita da Gaza sia stata frutto della violenza. Invece Fatah potrebbe condannare il terrorismo nei fatti e proporre così una nuova strada. Anche ammettendo che l'Autorità Palestinese abbia difficoltà ad affrontare Hamas, la Jihad Islamica e le sue stesse Brigate di al Aqsa (e molti esperti sostengono che le forze militari di Abu Mazen siano robuste), pure qui si tratta almeno di dare un segnale, ad esempio di perseguire almeno l'incitamento più brutale, di arrestare qualcuno.
Ma ecco la dimensione strategica di cui parlavamo all'inizio, quella invecchiata del ramoscello d'ulivo in una mano e del mitra nell'altra di arafattiana memoria. Ma se Arafat è stato l'inventore delle due dimensioni, del discorso all'Onu subito dopo lo spettacolare attentato internazionale delle Olimpiadi di Monaco, per Abu Mazen la situazione è ben diversa. Oggi l'influenza dell'integralismo islamico e la conseguente forza acquistata da Hamas, può rovesciare insieme a ogni speranza di pace anche il rais stesso.
Abu Mazen lo sa: dà frequenti segni di voler cambiare la cultura e l'azione del suo popolo, ma non agisce. Sa che gli si presenta un'opportunità storica enorme, quella di diventare il primo Stato arabo ricco e democratico, ma non sa da dove afferrarla.
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