Alla scoperta di Israele i mille volti dell'unico paese multiculturale del Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 27 agosto 2005 Pagina: 3 Autore: Rolla Scolari Titolo: «Le mille e una faccia di Israele»
IL FOGLIO di sabato 26 agosto 2005 pubblica apagina 3 dell'inserto un reportage da Israele di Rolla Scolari.
Ecco il testo: Nel cuore di Gerusalemme vecchia, mercoledì sera, un palestinese ha pugnalato a morte uno studente di una yeshiva, scuola talmudica, ebreo d’origine britannica. La polizia cerca ora il colpevole. Le telecamere hanno ripreso la scena. L’assassinio arriva a poche ore dal termine della prima parte del disimpegno dalla Striscia di Gaza, conclusosi con successo. La quiete che le due controparti si erano imposte durante le ultime settimane sembra essere già finita: un colpo di mortaio è stato sparato dal sud del Libano in un moshav israeliano, senza provocare vittime e a Tulkarem, in Cisgiordania, mercoledì notte, i soldati dell’esercito israeliano hanno ucciso sei palestinesi. Alcuni tesimoni nell’area – riporta il quotidiano Haaretz – hanno detto che due dei ragazzi uccisi erano militanti dei Martiri delle brigate di al Aqsa, braccio armato di al Fatah, e uno era membro dell’organizzazione terroristica Jihad islamico, che già ha minacciato la vendetta. Intanto, Israele ha cominciato a inviare gli ordini di espropriazione per le terre vicino all’insediamento di Maaleh Adunim intorno al quale sarà costruito un tratto della barriera di sicurezza fra Israele e i Territori. Tra le mura della città vecchia, dove il giovane ebreo è stato accoltellato, convivono in pochi metri quadrati diverse realtà linguistiche e religiose: ci sono i luoghi santi delle tre grandi religioni monoteiste, c’è il colorato e chiassoso souk arabo, il quartiere armeno, quello cristiano e le scuole ebraiche dove si insegna la Torah. Anche fuori le mura dell’antica Gerusalemme, la popolazione è molto eterogenea. Secondo il quotidiano Haaretz, però, la discussione sul ritiro dalla Striscia di Gaza non ha interessato tutti gli strati della variegata società israeliana. "Ampi stralci di pubblico, inclusi più di un milione di cittadini arabi d’Israele e più di un milione d’immigrati dell’ex Unione sovietica, restano fuori dal dibattito", ha scritto il giornale, che spiega come la stampa in lingua russa nel paese abbia offerto una descrizione terribile del ritiro, "un pogrom contro gli ebrei", al contrario dell’attitudine generale della maggioranza dei russofoni, che ha sostenuto il disimpegno. Maliziosamente, a Gerusalemme si racconta che molti russi abbiano falsificato le carte, spacciandosi per ebrei, per ottenere la nazionalità israeliana e tutte le facilitazioni economiche che lo Stato accorda agli ebrei che vogliono stabilirsi nel paese. Su un taxi di Tel Aviv, il magro autista, originario di Kiev, Ucraina, parla a stento l’inglese e male l’ebraico, nonostante sia qui da dieci anni. A gesti cerca di spiegare al Foglio perché non è d’accordo con il piano di disimpegno: toglie agli ebrei la loro terra. Non soddisfatto, si mette in contatto via radio con un collega d’origine argentina, per essere sicuro che il messaggio passi, in spagnolo. "Sharon no es bueno", dice la voce dalla radio. Il russo apre il cruscotto e tira fuori un fascio di nastri arancione, il colore dell’antidisimpegno, porgendone uno. Poi indica alcune automobili che corrono sull’autostrada: hanno lo stesso nastro attaccato all’antenna. * * * Arad si trova nel mezzo del deserto del Negev, 25 chilometri a ovest del mar Morto, a meno di un centinaio di chilometri dalla Striscia di Gaza. E’ una città nata nel 1962, concepita per assorbire i diversi flussi d’immigrazione ebraica nel paese, come Dimona e altri centri dell’area. Oggi, Arad ha circa 30 mila abitanti. Al mattino, c’è una discreta vita davanti all’unico centro commerciale della città. Ma, dopo mezzogiorno, quando la temperatura si alza, le strade si svuotano. Come in altri centri abitati del Negev, anche ad Arad le insegne dei negozi sono scritte in diverse lingue: ebraico, arabo, russo e in trascrizione latina. I bancomat ti chiedono se vuoi prelevare shekel o dollari in russo. Per le strade ci sono donne ebree con lunghe gonne e il capo coperto, ragazze arabe velate, giovani russe alte e bionde, in jeans attillati e la pancia di fuori, che si fanno corteggiare da pallidi ragazzoni. La città non è molto bella: alle villette a schiera bianche si alternano lunghi palazzoni che ricordano i sobborghi di una città sovietica. In un bar del centro, gestito da una signora russa, tre beduini seduti a un tavolo sorseggiano un té alla menta, accanto a loro una ragazza bionda dell’Europa dell’est mangia una pizza in compagnia di un soldato. "Disimpegno? Ah, itnatkut (in ebraico) – dice al Foglio, sorridendo, il figlio della padrona, mentre scalda un panino al formaggio – E’ una grande cosa per noi, siamo contenti". * * * In un supermercato di Pisgat Zeev, moderno quartiere periferico di Gerusalemme, sulla strada che porta a Ramallah, si vendono giornali in russo. Le cassiere provengono in gran parte dai paesi dell’ex blocco sovietico. Una guardia perquisisce chi entra, per accertarsi che non trasporti armi o esplosivo: è un giovane etiope. Tra gli scaffali, due grosse signore spingono piano i loro carrelli carichi. "Oh, certo che il kosher costa sempre più caro, ma cosa vuoi farci, compri kosher e basta", dice in francese con un forte accento del sud una delle due donne, mentre l’altra annuisce. Sedute al tavolo di un ristorante nel parco della villa Ticho, a Gerusalemme ovest, tre anziane, pesantemente ingioiellate, parlano del "buon giornalismo" d’oltralpe, in francese. Nelle grandi città del paese è sempre più facile incontrare ebrei provenienti dalla Francia. Negli ultimi anni l’immigrazione dal paese europeo è fortemente incrementata. Secondo i dati forniti dalla Jewish Agency, organizzazione semigovernativa che si occupa dell’immigrazione ebraica dall’estero, gli ebrei francesi arrivati in Israele nel 2004 sarebbero 2.400. La causa principale è, a detta dei diretti interessati, la crescita dell’antisemitismo nel paese d’origine. Allo scopo di facilitare questa immigrazione è stata creata un’organizzazione privata. Ami, che in francese significa "amico" e in ebraico "popolo mio", garantisce, a chi vuole trasferirsi in Israele, somme fino a 10 mila dollari per famiglia. In Francia ci sono 600 mila ebrei. E’ la terza comunità ebraica per importanza dopo Stati Uniti e Israele. Quest’estate, a Gerusalemme, i francesi sono in netta maggioranza: un hotel low budget della zona ovest, durante il mese d’agosto, è stato preso d’assalto da comitive provenienti dalla Francia: gruppi di anziani, scolaresche e coppie sposate in vacanza. * * * Davanti a una grande villa di Neve Dekalim, il più grande dei 21 insediamenti della Striscia di Gaza da poco evacuati, un gruppo di soldati siede per terra, aspettando che gli abitanti lascino la loro proprietà e che i giovani arancioni del movimento dell’antiritiro finiscano di sfogarsi e di gridare la propria rabbia in forma d’insulto sulle loro facce. Accovacciato sugli scalini, in disparte, c’è un poliziotto etiope. Fa un grugno quando sente che ci sono italiani. Non è contento di essere lì, a mandare fuori casa quelle persone. Ma, dice al Foglio, è necessario anche per il bene di questa gente. La stampa israeliana ha raccontato che alcuni abitanti degli insediamenti, mentre erano portati via di peso dalle loro case, si sono rivolti con rabbia verso militari e agenti ebrei etiopi. "E tu, che cosa ci fai qui a cacciare un ebreo dalla sua casa. Sei etiope, no?", avrebbe detto un uomo a uno dei soldati che lo trasportava via, come se considerasse il ragazzo un abusivo. Nelle strade di città del Negev, come Netivot, Arad e Beersheva, sacche d’immigrazione recente, le donne vestite nei tradizionali abiti africani sono molte. Gli ebrei etiopi in Israele sono oggi 36 mila. Hanno cominciato ad arrivare nel paese a partire dal 1985. Esiste persino un’agenzia per gli ebrei etiopi, nata per occuparsi dei problemi che la sempre più vasta comunità incontra nel cercare casa, lavoro e una scuola per i propri figli. * * * Assieme agli abitanti degli insediamenti, nei giorni scorsi, hanno lasciato Gush Katif anche centinaia di lavoratori asiatici: filippini, thailandesi e nepalesi. Gli agricoltori israeliani di Gaza (e di tutta la zona limitrofa) pagavano infatti gli stranieri per lavorare nei campi e nelle serre. Nei giorni precedenti l’evacuazione, anche loro hanno impacchettato i loro averi e hanno lasciato la zona. Dror, un agricoltore di un moshav fuori dalla Striscia, spiega al Foglio che, sia nei Territori sia in Israele, dopo lo scoppio della seconda Intifada, i padroni delle serre hanno iniziato ad assumere lavoratori asiatici. Prima, al loro posto, c’erano i palestinesi e prima ancora, i volontari europei, americani e australiani. Al tramonto, è facile vedere trattori e pickup carichi di donne e uomini thailandesi lasciare le serre e i campi per fermarsi davanti ai piccoli spacci a comprare la cena o a rinfrescarsi con una bibita ghiacciata. "Sono pagati circa 90 shekel al giorno, 20 dollari, hanno vitto e alloggio assicurato, coltivano verdure e allevano pollame nei pressi delle loro abitazioni – dice al Foglio Dror – Con quello che mettono da parte qui, fanno vivere la famiglia che è rimasta nei paesi d’origine per molti mesi". Oggi, non soltanto molti abitanti degli insediamenti, ma anche thailandesi, nepalesi e filippini devono cercarsi un nuovo lavoro, nuove serre e una nuova casa. L’operazione non sembra complicata per gli asiatici, perché c’è bisogno di manodopera nella regione, al di fuori della Striscia, spiega ancora Dror. Ma, tanti lavoratori stavano bene negli insediamenti anche se, ha ammesso qualcuno, i missili Qassam facevano paura anche a loro. * * * Ogni mattina, il gestore di un caffè vicino alla città vecchia, presso la porta di Damasco, a Gerusalemme est, dopo aver fatto colazione al fresco, si siede a leggere il giornale in arabo. L’uomo, un arabo israeliano, ha una sessantina d’anni e si diverte molto a usare le poche parole d’italiano che conosce. Ieri mattina, al contrario del solito, alle nove e mezza, le sue letture non erano certo politiche: stava facendo le parole crociate, lamentandosi delle indicazioni sbagliate. "Che volete che ci sia qui dentro! – dice assonnato al Foglio – Leggo sempre il giornale a quest’ora. Che cosa posso dire del disimpegno? Che speriamo nel meglio, e che gli israeliani erano obbligati a farlo. E lei, che giornale ha letto questa mattina? C’era dentro qualche notizia?". Alcuni mass media internazionali hanno puntato negli ultimi mesi sul cambiamento d’immagine del primo ministro Ariel Sharon. A disimpegno effettuato, senza che la "guerra civile", profetizzata negli ultimi mesi dalla stampa abbia avuto luogo, il premier ha guadagnato altri punti di merito davanti agli occhi della comunità internazionale. L’uomo piega il suo giornale e fa una faccia un po’ perplessa quando sente parlare di "cambiamento" di Sharon. "Speriamo anche in questo", dice. * * * In un altro caffè, dall’altra parte della città, a Gerusalemme ovest, tutte le mattine, molto presto, Avi sfoglia un quotidiano, in ebraico. Prima di diventare gestore di un bar è stato giornalista. Ha una quarantina d’anni. Ieri, stava servendo dietro al bancone: il locale era più affollato del solito. Il disimpegno? "Non me ne frega un…! – dice sussurrando al Foglio – tutte stronzate! Non apro il giornale e non guardo le notizie in televisione". Quando gli viene ricordato che in realtà, regolarmente, tutte le mattine prende in mano un quotidiano, bevendo un caffè, ride: "Leggo l’economia". "Sono stanco degli abitanti degli insediamenti, stanco dei palestinesi, degli israeliani e di questo conflitto – spiega, mentre fuori passa una coppia di ebrei ortodossi, con due bambini, parlando inglese con un forte accento americano – Seriamente, non credo che il ritiro risolverà una situazione che dura da 300 anni e andrà avanti per altri 300 anni, perché gli ebrei rimangono da una parte e gli arabi dalla parte opposta. E’ una questione d’educazione e mentalità diverse". Conclude, sussurando ancora, una mano davanti alla bocca, che l’unica cosa da leggere nei giornali sono le pagine di sport ed economia. "Non vorrei passare per coglione dicendo che non me ne frega nulla di quello che succede nel mio paese, ma è proprio così", dice più tardi, dietro alla cassa. * * * Hani dice che non ne può più di vedere le scene degli abitanti evacuati dagli insediamenti della Striscia di Gaza. "Sono tutti uguali: finché per israeliani e palestinesi varrà più un metro di terra della vita umana non si andrà da nessuna parte". Hani è nato a Haifa, nel nord, e oggi vive a Gerusalemme. Lavora all’università ebraica e abita nella parte israeliana della città. E’ un arabo israeliano, musulmano non praticante. Vota in Israele. Non è obbligato a fare il servizio militare (lo Stato non lo chiama, ma lui può decidere se andarci o no). Il suo ebraico è quasi migliore del suo arabo. Qualche pomeriggio prima dell’inizio del disimpegno, in un bar affollato di Gerusalemme, Hani racconta perché sostiene il piano di ritiro e la mossa del premier Ariel Sharon. Al tavolo ci sono altri israeliani, tra cui una ragazza ebrea d’origine irachena, un’araba israeliana, alcuni stranieri. La discussione procede in ebraico, arabo e inglese. Hani è ottimista: "Sono sicuro che i palestinesi faranno tutto il possibile per amministrare Gaza al meglio senza incidenti, evitando la violenza. Hanno ogni interesse a farlo: questa è una grande occasione da non perdere. Credetemi, la prossima volta che verrete qui – si rivolge agli stranieri – troverete due Stati e andrete a fare i turisti a Gaza". * * * Sulla terra del kibbutz Karmiyya, tra il porto di Ashqelon e la Striscia di Gaza, a pochi chilometri da una bella spiaggia di sabbia, stanno finendo di costruire basse villette monofamiliari per le persone evacuate dagli insediamenti. Tra le case, i nuovi abitanti con kippah (compricapo ebraico) in testa scaricano mobili dai camion, sistemano l’antenna della televisione o installano tubi per l’irrigazione nel nuovo giardino. Più in basso, c’è una fila di case non ancora pronte. Gli operai sono ancora tutti indaffarati a dipingere e a posare le tegole del tetto. Samir scende dalla scala su cui si trova. E’ palestinese. Arriva da Betlemme. E’ cristiano. Racconta al Foglio che passa l’intera settimana a lavorare nel cantiere e torna a casa il venerdì sera. I nuovi abitanti di Karmiyya si lamentano per la bassa qualità dei materiali con cui sono costruite le case e per le loro dimensioni. "Sono piccole per intere famiglie", spiegano. "Sempre meglio che Betlemme", dice ironico Samir. La città araba – a pochissimi chilometri da Gerusalemme, ma sotto sovranità dell’Autorità nazionale palestinese – un tempo era meta di molti turisti, perché sede della chiesa della Natività. Le visite sono drasticamente diminuite dopo lo scoppio della seconda Intifada. Samir dice che, se non venisse a lavorare in Israele, sarebbe già morto. A Betlemme più della metà dei commerci ha chiuso. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.