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La Stampa Rassegna Stampa
24.08.2005 La vittoria della democrazia israeliana: il disimpegno concluso in otto giorni, quasi senza violenza
l'analisi e la cronaca di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 24 agosto 2005
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Gli otto giorni che hanno cambiato Israele - Israele, sgombero finito. In gabbia gli ultimi coloni»
LA STAMPA di mercoledì 24 agosto 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Fiamma Nirenstein sullo sgombero di Gaza, "Gli otto giorni che hanno cambiato Israele".

Ecco il testo:

LO sgombero sarebbe dovuto durare otto settimane. E' durato otto giorni e si è concluso senza spargimento di sangue. Per l'ebraismo, la creazione è frutto della Parola. Dio creò l'Universo dicendo «Sia la luce»; parlando, creò. E' a partire dall'immensa fiducia nella comunicazione che è nata la democrazia.
Ieri, si è concluso il disimpegno israeliano da Gaza e da parte della Samaria: è stato, appunto, uno prodigioso evento di democrazia in azione, e lo diciamo nella consapevolezza di chi ha testimoniato la pena senza fondo dei settler. Da quella pena, avrebbe potuto nascere qualsiasi tipo di rivolta, anche la più violenta, e in realtà tutti se l'aspettavano: i media, i politici, la gente che temeva una guerra civile. Essi non hanno perduto solo la propria casa, il proprio lavoro, la scuola dei figli: la parte nazionale e religiosa in fondo aveva ottenuto da tutti i governi un appoggio ai propri progetti.
Sharon ha chiuso loro la porta in faccia in cambio soltanto della scelta morale di evitare un diluvio demografico che renda Israele minoritaria e quindi proditoria dominatrice; e in nome della creazione di spazi nuovi per la democratizzazione del mondo arabo, in questo caso quello palestinese, come strategia vincente per battere il terrorismo e quindi ritrovare un interlocutore per la Road Map. Un piano astratto, aleatorio, ma indispensabile perché obbligato. Ma la gente del Gush Katif che perdeva tutto senza in cambio niente di concreto, e specie quella convinta della santità della sua missione, poteva impazzire, aggredire, usare le armi. Invece, salvo episodi minori, si è assistito a un gran parlare fra soldati e coloni.
Ho visto una ragazza che urlava furiosa accusando un soldato di ogni male: «Guardami negli occhi», gli ripeteva infuriata, finché il giovane le ha detto: «Io ti guardo negli occhi, ma devi farlo anche tu». E lei si è calmata.

Ho visto un comandante spiegare a degli interlocutori piangenti e aggressivi che assicuravano che la ragione era dalla loro: «No, io ho ragione perché vengo a nome dell'ordine e di una legge del Parlamento». Ho visto molti giovani dire ai bambini che gli urlavano «Ti odio», «Ti amo».
Era il dialogo più estremo che si potesse immaginare, ma era un dialogo di valori, fra culture diverse che si rispettano. Ed era in funzione, come certamente lo è nelle intenzioni di Sharon, della certezza di aver ben combattuto la guerra contro il terrorismo, senza debolezze e senza ferocia. Il sogno sionista ha mantenuto il suo tracciato laico e democratico, ma la religione ha mostrato una presenza molto radicata a chi si illudeva che la modernità l'avrebbe spazzata via.
Il sacrificio dei settler si è compiuto senza violenza, il rischio preso da Sharon ha oggi davanti molte curve pericolose e la società israeliana è senz'altro spaccata e sofferente: perché tutto questo abbia un senso, occorre che la leadership palestinese raccolga almeno una parte di responsabilità nelle sue mani. La telefonata di Abu Mazen a Sharon è un gesto coraggioso, ma la chiave, ora, si chiama lotta al terrorismo.
A pagina 7, sempre di Fiamma Niresntein, il reportage "Israele, sgombero finito. In gabbia gli ultimi coloni", che riportiamo:
È finita, finalmente: i giorni dello sgombero si sono conclusi ieri sulle colline della Samaria del nord, a Sa Nur e a Chomesh. Doveva segnare l’inizio di una guerra civile, il massimo che è successo è stato qualche ferito lieve molte lacrime, urli, strattoni e una quantità di odio ma anche di amore fra i coloni sgomberati, i soldati e i poliziotti. Chomesh e Sa Nur erano gli ultimi due degli insediamenti da sgomberare. Gli altri due villaggi della Samaria, Ganim e Kadim, sempre nella zona di Jenin e di Nablus, le due grosse città palestinesi da cui si sono diramati centinaia di attacchi terroristi suicidi, si sono svuotati da soli.
Invece sui due insediamenti rimasti, da alcuni giorni, come una nuvola nera, incombeva il sospetto che le loro case sulle montagne fossero piene di facinorosi pronti a sparare; che pistole, fucili, granate fossero stati stivati dai «giovani delle colline» sui tetti insieme alle provviste d’acqua, di pane e di tonno in scatola e che i ragazzi con le kippà colorate, i capelli lunghi, in preda a un incontenibile impulso politico e mistico, volessero diventare oil simbolo di un rifiuto ben più forte di quello espresso a Gaza dai pianti e dalla resistenza passiva. Non sapremo mai se le armi c’erano veramente. Ma ieri, non ci sono state né armi né violenza, ha vinto la volontà di tutte le parti di non rompere fino in fondo, di non versare in nessun caso il sangue dei soldati e dei propri concittadini.
Quando di mattina molto presto siamo arrivati a Sa Nur, una quantità enorme di soldati e poliziotti, circa 5000 salivano insieme a noi la collina verso la vecchia fortezza del Mandato britannico. Su di essa, insieme alla bandiera, i leader politici come i deputati Arieh Eldad accompagnato dalla figlia Carni, Eliahim Ha Nezbi, Uri Ariel, e il rabbino di Zfat e tanti altri religiosi come Yezheiel Levanon sono apparsi sul tetto della fortezza nella luce del mattino circondati dai giovani, ma la selezione era già avvenuta.
La strategia di Sa Nur, la scelta dell’orgoglio senza sangue, è fatta di quattro punti. La vecchia sinagoga, sotto le frasche in un’antica moschea, il nuovo piccolo tempio proprio sotto la fortezza, e una specie di recinto di antiche pietre dove stanno le ragazze. E infine, la grossa fortezza. Alle dieci circa mentre Eldad ribadisce che «Qui non ci saranno baci e abbracci come a Gaza, qui terremo il punto fino in fondo, quello che si compie è un crimine», i poliziotti vanno a sgomberare la prima sinagoga. Uno a uno i giovani, quasi tutti seguaci del rabbino Habadnik ormai scomparso e creduto dai suoi seguaci il Messia, vengono trasportati fuori scalciando e ribellandosi, e ognuno ha la sua frase fantapolitica da gridare: «Cadranno qui i missili Kassam e sarà colpa tua»; «Si vede dai tuoi occhi che non sei un soldato ma un corrotto».
I poliziotti, tristi, entrano e escono fluidamente: «A Gaza erano famiglie da spostare dalla loro casa, questi non abitano qui». I più giovani, mi spiega il vecchio rabbino sono nelle sinagoghe per evitare che sul tetto facciano sciocchezze. Uno a uno scalcianti e piangenti vengono depositati negli autobus, e portati via. Le ragazze sono un problema ben più grave: una poliziotta mostra un graffio lungo e deciso sul braccio; una ragazza con la lunga treccia semidisfatta, piangente fra le sue amiche in gonna lunga e camicetta, vorrebbe lanciarsi su una soldatessa che pare le abbia dato uno schiaffo. Le sgomberate a forza come Pizie prevedono per le soldatesse notti insonni nel rimorso, vite infelici, incubi. Alla fine vengono tutte caricate su un autobus e avviate fuori della zona, rosse, piangenti, adolescenziali nella prima grande delusione della loro vita, ora che devono lasciare Sa Nur. Le soldatesse, che hanno la loro stessa età, mostrano una incredibile capacità di ascoltarle, persino di consolarle, gli danno da bere.
Passano le ore, la polizia butta giù un gran cancello di ferro battuto, ma si capisce che usando la scala si va incontro a scontri fisici duri. Nessuno ne ha voglia. Dopo la trattativa, così, si trasportano in loco grandi gabbie di ferro: un contenitore blu e uno giallo a rete montati su gru. Con goffe manovre vengono avvicinate al tetto mentre la polizia sale; i leader politici finiscono chiusi e dondolanti nell’aria, mentre il rabbino stringe al petto il rotolo della Bibbia. «Non sarebbe stato meglio», chiediamo, «scendere decorosamente con le proprie gambe, dato che comunque la conclusione era nota? Eldad è categorico: «La foto della Bibbia in gabbia insieme a noi, la Bibbia deportata e vilipesa è quella che farà cadere Sharon! perché deve cadere, e quanto prima!». Alle cinque, tutto è finito. La promessa di Eldad è una severa previsione per il futuro: una dura battaglia politica, su argomenti ideologici e quindi devastanti, si apre verso le elezioni del novembre 2006. Ma lo sgombero è finito; questa lunga settimana ha dimostrato che è difficile, anche tragico, ma si può fare.
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