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Avvenire Rassegna Stampa
24.08.2005 Dopo il disimpegno israeliano: il futuro politico di Sharon e Abu Mazen, e quello del processo di pace
l'analisi di Graziano Motta

Testata: Avvenire
Data: 24 agosto 2005
Pagina: 4
Autore: Graziano Motta
Titolo: «Un «mandato a tempo» per Sharon e Abu Mazen»
AVVENIRE di mercoledì 24 agosto 2005 pubblica un commento di Graziano Motta sulle prospettive politiche del dopo ritiro da Gaza.

Ecco il testo:

Ora che è stato completato il problematico, e fino a ieri inimmaginabile, completo ritiro dei coloni dagli insediamenti di Gaza (e dai 4 della Cisgiordania) ed è prossimo quello - che seguirà fra qualche mese- dei soldati, è comprensibile che Abu Mazen incalzi Sharon. Lo inviti a conseguire gli altri obiettivi che si è fissato, riguardo allo Stato palestinese, e gli chieda di incontrarlo presto. Ed è naturale che si rivolga pure al capo dello Stato ebraico Katsav al quale ha telefonato ieri per felicitarsi del ritiro. Gli indugi, come la bonaccia, lo lasciano in alto mare. Rischiano di compromettere, o quanto meno di ridurre sensibilmente, il consenso di cui ha bisogno - la cartina di tornasole saranno le elezioni politiche del 25 gennaio - e che gli viene quotidianamente eroso dai fondamentalisti islamici, da quelli di Hamas che sfilano per le strade di Gaza con passamontagna sul volto e kalanshikov in braccio esaltati dalla «vittoria» che si attribuiscono per la «sconfitta» del nemico sionista e dall'orgoglio di continuare la lotta per cacciarlo anche dal resto della «terra araba e musulmana». Ma in queste condizioni quali possibilità ha Abu Mazen di essere ascoltato da uno Sharon anch'egli sulla graticola? Arroventato com'è, il premier deve infatti difendersi dalla contestazioni di gran parte del suo partito del Likud che adesso chiede il "redde rationem", in altri termini la rivincita: primarie per estrometterlo dalla leadership (i sondaggi sono però altalenanti rispetto al suo rivale Netanyahu) ed elezioni politiche. Insomma, proprio all'indomani di quella che - giustamente - viene considerata una svolta nella storia del sionismo e dello Stato d'Israele e dei rapporti con i palestinesi, siamo dinanzi a uno scenario per nulla promettente per le prospettive di pace e ancora più scoraggiante se solo si visualizza la sostanza del negoziato. I due leader appaiono infatti, soprattutto per ragioni interne, con un mandato "a tempo" e con posizioni apparentemente distanti. Da un lato Abu Mazen esalta il ritiro israeliano da Gaza e dalle quattro località della Samaria (perché questa è parte intrinseca della Terra Promessa come ribadivano anche i coloni), non lo considera un atto unilaterale del governo israeliano ma «il frutto del sacrificio del popolo palestinese», e lo vede come «il primo passo» per il recupero di tutti i territori occupati nel 1967, compresa Gerusalemme. Dall'altro Sharon esclude invece che possano esserci altri ritiri dalla Cisgiordania, promette e assicura anzi il rafforzamento degli insediamenti esistenti e il loro più saldo collegamento con il territorio israeliano: E insiste perché prima di riattivare il dialogo politico con l'Autorità palestinese questa debba aver smantellato quadri e infrastrutture terroristiche e dei gruppi della guerriglia, in conformità con le prescrizioni della Road map per la pace. E la strada appare ancora lunga da percorrere.
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