I sofismi di Sergio Romano per fare di Israele uno "stato etnico" che discriminerebbe i cittadini arabi
Testata: Corriere della Sera Data: 23 agosto 2005 Pagina: 33 Autore: Sergio Romano Titolo: «Israele e i suoi arabi:democrazia e identità»
Riportiamo la lettera di un lettore e al risposta di Sergio Romano, pubblicate dal CORRIERE DELLA SERA di martedì 23 agosto 2005: Negli scorsi giorni, a proposito di una eventuale convivenza a Gaza fra arabi ed ebrei, lei ha scritto che «Israele è uno Judenstaat, uno Stato degli ebrei, e non ha alcuna intenzione di adottare le modifiche istituzionali che ne farebbero uno Stato multietnico e multiconfessionale». Ma lo Stato israeliano è già «multietnico e multiconfessionale». Altrimenti, come si spiega la presenza di una rappresentanza araba nel Knesset? O il fatto che l'accesso alla cosiddetta «Spianata delle Moschee» è garantito da Israele — esclusivamente — ai fedeli musulmani? La verità, invece, è che l'eventuale «pendolarismo» a Gaza degli ebrei israeliani sarebbe impossibile perché il concetto dello «Stato multietnico e multiconfessionale» è inviso alla cultura araba musulmana. Alcuni esempi: in Arabia Saudita è consentita soltanto la preghiera ad Allah, e il cristiano che osa pregare (anche in casa) secondo le proprie convinzioni, può essere arrestato. E quando il Muro del Pianto (adiacente alla «Spianata delle Moschee») fu sotto controllo arabo, l'accesso fu negato agli ebrei. Daniel Gold dangold@stny.rr.com
Caro Gold, rispondo alla sua lettera perché è la prima che ho ricevuto sull'argomento, ma osservazioni analoghe, o richieste di maggiori precisazioni, sono giunte da altri lettori: Ariel David, Mirko Fabbri, Paolo Manfredi, Deborah Soliani. Dopo la guerra del 1948 rimasero nel nuovo Stato, contro gli gli 850.000 che abitavano in precedenza nei suoi territori, circa 130.000 arabi palestinesi. Divenuti cittadini israeliani, questi arabi sono oggi, in buona parte per ragioni demografiche, un milione e trecentomila, e costituiscono quindi il 18,6 per cento della popolazione totale. Hanno diritto di voto, sono rappresentati dai loro deputati al Knesset e godono di condizioni di vita superiori a quelle dei loro connazionali che vivono nei territori occupati. Ma non sono e non possono essere «eguali». Le darò alcuni esempi tratti da siti israeliani che si battono da tempo perché lo Stato riconosca alla comunità araba maggiori diritti. Israele non ha una costituzione, ma alcune leggi fondamentali che sanciscono, direttamente o indirettamente, il carattere ebraico dello Stato. La «legge del ritorno» assicura la cittadinanza a qualsiasi ebreo decida di vivere in Israele. Ma i palestinesi possono diventare israeliani soltanto per nascita, residenza o naturalizzazione, una pratica quest'ultima che richiede una lunga serie di passaggi burocratici. Qui Romano alimenta deliberatamente un equivoco: infatti il diritto al ritorno riguarda esclusivamente la possibilità di diventare cittadini dello Stato, non i diritti di cittadinanza, che sono uguali per arabi ed ebrei. Secondo il criterio di Romano, la legge che assicura il diritto di voto agli italiani all'estero, combinata con il rifiuto di concedere automaticamante il diritto di voto agli immigrati, farebbe anche del nostro paese uno "Stato etnico". La legge del ritorno, va poi ricordato, assicura un rifugio agli ebrei di tutto il mondo in caso di persecuzioni. Un rifugio che le democrazie liberali, pur ispirate a un concetto "universalistico" di cittadinanza negarono loro durante le persecuizioni naziste. un buon motivo per non metterla in discussione attribuendole una natura discriminatoria che non ha. Un'altra legge fondamentale disciplina il problema della rappresentanza politica e proibisce la partecipazione al voto di forze che non riconoscono l'esistenza di Israele come «Stato degli ebrei», vale a dire che si battono per la piena eguaglianza dei cittadini. Altro equivoco alimentato ad arte: "le forze che non riconoscono l'esistenza di Israele come «Stato degli ebrei»" sono quelle che vorrebbero distruggere Israele e abolire la Legge del ritorno, non quelle che "si battono per la piena eguaglianza dei cittadini". Tale eguiaglianza, sul piano giuridico è già un fatto, mentre le organizzazioni che si battono per il superamento delle discriminazioni sociali hanno piena legittimità ( e tra di esse deve essere annoverata anche un'istituzione dello Stato come la Corte suprema). Alcune importanti attività sociali (edilizia domestica, promozione dell'agricoltura, creazione e sviluppo di zone d'insediamento) sono delegate dal governo, con una sorta di «outsourcing», alle grandi agenzie ebraiche, sorte per assistere gli ebrei. Un fatto che, di per sè, non prova nessuna discriminazione. Lo Stato israeliano assicura un certo numero di vantaggi ai militari congedati, ma il 90 per cento dei palestinesi, per ragioni comprensibili, è esentato dal servizio militare. Gli arabi possono svolgere il servizio militare come volontari. Sono invece esenttai dall'obbligo di leva, così come gli ebrei ortossi. Dunque non vi è nessuna discriminazione nei loro confronti. Sono, come ho detto, il 18,6 per cento della popolazione, ma la loro presenza nella burocrazia statale non supera il 4 per cento e quella nelle industrie di Stato è pressoché nulla. Si tratta di una condizione analoga a quella di molte altre minoranze socio-economicamante e culturalmente svantaggiate nel mondo, che non ha però nulla a che vedere con una discriminazione istituzionale che giustifichi la classificazione di Israele come "stato etnico".
Un documento internazionale generalmente rispettato, il rapporto annuale del Dipartimento di Stato sull'osservanza dei diritti umani nel mondo, scrive nella sua edizione del 2004: «Il governo (israeliano) ha fatto poco per ridurre la discriminazione istituzionale, legale e sociale verso i cittadini arabi del Paese». Come le ho detto, caro Gold, queste notizie non sono di fonte palestinese e dimostrano quanto sia forte in molti settori della società israeliana la consapevolezza dell'esistenza di un problema irrisolto. Israele è una democrazia, e lo dimostra tra l'altro con l'indipendenza di una magistratura che ha più volte difeso gli arabi israeliani contro trattamenti discriminatori. Ma è uno Stato degli ebrei, costretto dalle proprie origini e dalla propria filosofia a preservare le sue caratteristiche. È una contraddizione di cui tutti i maggiori studiosi israeliani sono consapevoli. Non è multietnico perché la sua minoranza non gode degli stessi diritti della maggioranza. Non è multiconfessionale, tra l'altro, perché, come ricorda il rapporto del Dipartimento di Stato, il suo governo riconosce soltanto i matrimoni celebrati dai rabbini ortodossi. Naturalmente lei ha ragione, caro Gold, quando osserva che in molti Paesi musulmani la situazione dei diritti civili e religiosi è incomparabilmente più grave. Ma ogni Stato viene inevitabilmente giudicato sulla base dei criteri di civiltà che adotta per se stesso. Se confrontassimo Israele a qualche gretta teocrazia musulmana, i primi a esserne infastiditi sarebbero gli israeliani. Ogni Stato andrebbe giudicato secondo criteri morali oggettivi e universali:pretendere di giudicare Israele secondo il principi del liberalismo (per altro in modo tutt'altro che equo) e l'Arabia Saudita secondo quelli del wahabbismo significa truccare le carte a sfavore della prima.
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