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La Stampa Rassegna Stampa
22.08.2005 Il ritiro da Gaza non è una concessione ai terroristi
sbagliata l'analisi di Barbara Spinelli

Testata: La Stampa
Data: 22 agosto 2005
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Elogio della divisione»
Nel suo editoriale "Elogio della divisione", pubblicato da LA STAMPA di domenica 21 agosto 2005, Barbara Spinelli elogia il ritiro da Gaza deciso da Ariel Sharon , ma ne trae una lezione profondamente sbagliata : che per combattere efficacemente il terrorismo si debba cedere alle sue richieste.

In realtà la decisione di Sharon è stata presa solo dopo che Israele ha combattuto e sconfitto, almeno temporaneamente, il terrorismo. Dopo l'uscita di scena di Arafat, convinto della possibilità di sconfiggere "militarmente" o, meglio, attraverso crimini efferati, Israele. Dopo l'ascesa al potere di un leader convinto dell'inutilità se non della dannosità della violenza per la causa palestinese (anche se ancora troppo restio ad affrontare apertamente i gruppi terroristici).
La sconfitta militare del terrorismo è infatti la premessa indispensabile di ogni iniziativa volta a risolvere politicamente i conflitti che esso strumentalizza. Altrimenti, le concessioni e i compromessi servono solo a rafforzare le speranze di successo e la determinazione dei terroristi.

Ecco l'articolo:

Per molti ebrei d'Israele, le immagini che si sono viste in questi giorni sull'evacuazione dei territori occupati a Gaza sono un nuovo inizio per il loro Stato, per la loro stessa religione, e per i rapporti che la loro politica ha con la religione. L'ebreo israeliano in questi giorni non combatte solo il male esterno, che minaccia di sommergerlo e annientarlo. Non vive passivamente la storia, di volta in volta come vittima assoluta o come padrone assoluto che entra in azione ma trascurando il volubile divenire umano di cui pretende impadronirsi. Combatte anche i propri fratelli, quando questi deviano dalla legge dello Stato e privilegiano la presunta legge di Dio. Combatte contro se stesso, visto che i fratelli che sottopone a coercizione sono una parte di sé. Abbiamo visto le immagini che ritraggono il soldato di Tsahàl nel momento in cui versa lacrime sulle spalle del colono che egli stesso sta evacuando con violenza non sanguinosa, ma pur sempre con violenza: sono immagini che cambiano la storia d'Israele, che ricominciano l'incessante sua interrogazione sull'identità ebraica. Siamo ebrei come nazione o religione? Siamo israeliani perché possediamo una terra data da Dio o perché rispettiamo le leggi del nostro Stato e le sue regole? Perché siamo uniti come popolo o perché sappiamo dividerci in quanto individui liberi? Perché siamo in attesa del messia che confermerà la nostra elezione o perché siamo una nazione con responsabilità simili alle responsabilità di altri popoli?
Tutte queste domande non sono nuove nella storia ebraica. Ma qui, ora, proprio a Gaza dove nel '600 nacquero nell'ebraismo correnti messianiche sovvertitrici della legge, l'interrogarsi riprende, con il travaglio di una creazione. Lo scrittore Amos Oz dice: «Assistiamo alla prima battaglia tra Sinagoga e Stato nella storia d'Israele, la prima occasione di fare chiarezza sul significato dell'ebraicità dell'unico Stato ebraico». La questione sollevata dallo scrittore è: quali dovrebbero essere ruolo e peso di religione e clero nella guida di un paese? «Alcuni Stati hanno trovato la soluzione secoli fa. Altri non hanno mai smesso di cercarla. I paesi musulmani, ad eccezione della Turchia, non hanno neanche iniziato» (Amos Oz, Corriere della Sera 20-8-05).
Tutti siamo di fronte a quest'avvenimento che trasforma il modo israeliano-ebraico di stare nella storia, che sostituisce alla passività la responsabilità, che separa il sacro dal profano, e che di conseguenza cambia anche l'idea che il mondo esterno si fa d'Israele: il mondo esterno rappresentato dall'occidente ma soprattutto dall'islam, in particolare arabo e palestinese. Può darsi che i governi d'Israele smetteranno di correggersi: può darsi che non evacueranno gli altri territori occupati e che hanno sacrificato Gaza pur di preservare Giudea e Samaria in Cisgiordania, i quartieri arabi a Gerusalemme. Ma Gaza crea un precedente ed è ormai un modello pratico: è così, dubitando della propria infallibilità e delle presunte parole di Dio, che lo Stato d'Israele ha pensato di poter vincere mali che voleva immaginare tutti esterni, e tutti estirpabili con guerre mai interrotte.
Lo stereotipo che ritrae un Israele impermeabile al dubbio e dominatore, aggrappato a diritti e verità che non derivano da questa terra ma delle sacre scritture (la verità di Eretz Israel, di un Grande Israele che include i territori divinamente garantiti di Gaza, Giudea, Samaria) è sempre di nuovo usato ma ora s'infrange, e l'islam dovrà prenderne atto. Finora islam e ebraismo erano fratelli siamesi, come più volte ha detto Oz, erano abbarbicati l'uno all'altro in una perversa simbiosi. Il palestinese costruiva una propria mitica narrativa di persecuzione e redenzione apocalittica imitando la narrazione dell'integralista religioso israeliano (narrazione che in fondo impregna anche il sionismo laico, secondo lo studioso dell'ebraismo Gershom Scholem). Gli ebrei vedono nella shoah l'evento fondatore, i palestinesi lo scorgono nella nakhba, la catastrofe della loro cacciata dalla Palestina nel '48. Anche i palestinesi hanno falsi profeti che promettono redentrici riconquiste di una Grande Palestina. Anche in loro la passività tende a prevalere sulla responsabilità, sul realismo. La passività, nei messianesimi politici, può esprimersi in due modi: con l'attesa nell'inerzia, o affrettando il compirsi dei tempi violando le leggi terrene, dunque con l'anomia di violenti gesti rivoluzionari. Questa simbiosi ora si spezza, e l'islam è di fronte a sé con nuovi compiti: non solo in Palestina, ma ovunque.
Il primo tra questi compiti, fin qui congelato, è la questione Stato-religione. Il cristianesimo ha trovato la soluzione secoli fa. L'ebraismo «non ha mai smesso di cercarla», e in questi giorni accentua la ricerca. I paesi musulmani ancora devono cominciare, il più delle volte. Per questo sono imbarazzati e si dividono, sugli accadimenti di Gaza. Solo Mubarak e i re di Giordania e Marocco elogiano il coraggio di Sharon. Altri politici musulmani, affezionati allo stereotipo, negano l'importanza dei fatti.
La chiave della svolta è racchiusa in una parola: divisione. In democrazia divisione è lievito, premessa della sua forza, del suo successo. Per giungere alla verità bisogna sapersi dividere: fratello contro fratello, parte dell'anima contro parte dell'anima. Bisogna uscire dai recinti dei gruppi d'appartenenza, esporsi al rischio di cambiare idea o precisarla meglio. Bisogna rinascere come individui. Pagine di grande bellezza, tutte da rileggere, sono state scritte in Italia da uno spirito liberale, Luigi Einaudi, alla vigilia del fascismo. Nel 1920 scrive un saggio contro il filosofo Giuseppe Rensi (Verso la Città Divina), che poi riapparirà nel Buongoverno. È uno spavaldo e attualissimo elogio della divisione, della disunione degli spiriti, della discordia: «Il bello, il perfetto, non è l'uniformità, non è l'unità, ma la varietà e il contrasto. L'idea forte nasce dal contrasto», ogni unità imposta è «morte spirituale». Possono unirci solo lo Stato-limite, l'impero della legge come «condizione per l'anarchia degli spiriti». L'unità ristretta alle forme e condizioni di vita, sì; «ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire: lotta continua, pertinace, ognora risorgente». Gli israeliani hanno dato un esempio, di questa discordia che elude la morte spirituale e prepara gli uomini alle forme della politica.
I palestinesi e l'islam hanno bisogno di scoprire il valore della divisione, dunque dell'agorà. È una divisione che timidamente fa apparizione, nei movimenti di liberazione. Comincia con la questione centrale di questi giorni: il ritiro degli israeliani da Gaza è una vittoria del terrorismo palestinese e islamico? In parte certamente lo è, come sostengono alcuni israeliani tra cui Abraham Yehoshua: «Estremisti islamici, kamikaze, militanti della lotta dura: avete vinto. Israele per causa vostra si ritira da Gaza. Ma adesso sta a voi cogliere l'occasione e costruire la pace». Gli estremisti palestinesi hanno vinto, ai punti: ma da questa vittoria possono apprendere lezioni contrastanti, distruttive o costruttive.
Possono glorificare questa vittoria, e prepararsi a una successione di Intifade contro le popolazioni civili israeliane: è la linea Hamas, che in questi giorni canta vittoria. Oppure possono ascoltare Mahmud Abbas, presidente palestinese, che constata l'«evento storico» ma si dichiara insoddisfatto, desideroso di ulteriori rapidi progressi. Paradossalmente sono gli insoddisfatti che hanno più realismo responsabile, perché s'oppongono alla spirale intifade-concessioni israeliane unilaterali. Vogliono non unilateralismi ma negoziati, per separare davvero i fratelli siamesi e anche per sconfiggere Hamas. Anche qui c'è nuovo inizio, vivificato dalla divisione degli animi. Con le divisioni finisce il messianesimo politico, viene inaugurata la politica senza messia. Con la disillusione ha inizio la saggezza, per l'individuo e le nazioni; compresa la saggezza di sopravvivere e durare.
Ma anche i dirigenti occidentali sono di fronte agli eventi con la responsabilità d'imparare da essi, per meglio pensare la lotta al terrorismo. Vale la pena leggere la dichiarazione di Sharon alla vigilia dello sgombero, il 15 agosto: «Insieme a tanti altri, avevo creduto e sperato che potessimo restare (nelle colonie di) Netzarim e Kfar Darom per sempre. Le trasformazioni intervenute nella realtà del paese, della regione, del mondo, hanno però reso necessarie una revisione e modifica delle mie posizioni. Non possiamo tenere la Striscia per sempre. Vi abita oltre un milione di palestinesi e il loro numero raddoppia ad ogni generazione. Essi vivono ammassati in campi profughi sovraffollati, in condizioni di povertà e sofferenza, in focolai di crescente odio, senza alcuna speranza all'orizzonte». Il che vuol dire per Israele: non possiamo salvare la natura ebraica del nostro Stato-nazione (di per sé già un anacronismo, considerata l'evoluzione multietnica degli Stati-nazione), se nei territori attizziamo l'odio d'un popolo che demograficamente già ora ci supera. E per tutti significa: esistono radici obiettive e locali, nel terrorismo odierno, oltre alla distruzione fine a se stessa. Esso non è solo antisemita, antioccidentale: non è rivolto solo verso quel che l'ebreo e l'occidentale sono, ma anche verso quello che essi fanno o non fanno.
Il terrorismo lo si combatte restando se stessi, s'è detto forse con troppa fretta. Ma forse lo si combatte anche mutando se stessi e non temendo le nostre interne divisioni, sempre che mutare e dividersi non sia compromettersi col male. Non per emarginare la religione, ma per restituirle la spiritualità che essa perde quando si mescola alla politica e comanda su di essa. Per ridare anche a noi l'orizzonte di speranza che con gli attentati s'appanna. Ritrovarlo richiede spirito di resistenza, a volte armata altre no ma in ogni circostanza razionale, affilata dal tornio della politica. E ogni razionalità politica comincia con una disillusione («anch'io credevo...»), succeduta da dissensi interni che sfociano in azioni autocorrettive. Aver capito questo è forza, non debolezza d'Israele. Chissà se gli estremisti palestinesi lo comprendono, senza farsi ubriacare da una vittoria - quella loro attribuita - che è solo militare o criminosa.
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