Il piano infernale di Hamas, le nuove responsabilità di Abu Mazen, la cecità dei pacifisti e di parte della sinistra italiana analisi e commenti sul ritiro da Gaza
Testata: Il Foglio Data: 19 agosto 2005 Pagina: 2 Autore: Anna Barducci Majar - un giornalista - Toni Capuozzo Titolo: «Nella striscia non c'è un vicerè dell'Anp, Hamas ha»
IL FOGLIO di venerdì 19 agosto 2005 pubblica a pagina 2 dell'inserto un articolo di Anna Barducci Majar, "Nella striscia non c'è un vicerè dell'Anp, Hamas ha "un piano infernale", che riportiamo: Roma. L’uomo forte di Gaza ancora non c’è. Hamas si sta preparando con le bandiere a festeggiare il ritiro come una propria vittoria, richiamando il popolo palestinese all’unità nazionale. L’Anp, invece, per l’occasione ha disegnato per le strade immagini di Topolino e di Pippo sorridenti. Sulla popolazione ha però più impatto la mobilitazione del gruppo armato, che cerca con i propri slogan d’infondere uno spirito nazionalista nell’elettorato, che non le raffigurazioni della Walt Disney senza alcun richiamo al sentimento popolare. "Il presidente Abu Mazen non sta facendo assolutamente niente e non sta prendendo alcuna iniziativa, non fa parte della sua personalità", dicono alcuni palestinesi al Foglio. Il rais sta mantenendo un basso profilo: non ha portato avanti alcuna campagna inneggiante alla storicità del ritiro per la Striscia di Gaza e non ha cercato, attraverso la retorica, di entrare nel "cuore dei suoi cittadini". Khaled Mashaal, leader di Hamas a Damasco, ha invece già iniziato la propria campagna politica e sull’emittente libanese degli Hezbollah, al Manar, ha detto: "Israele se ne sta andando via e adesso l’Anp non deve essere più manipolata". Qualche giorno dopo, sul quotidiano arabo con base a Londra, Asharq al Awsat, Mahmoud Zahar, leader del gruppo estremista a Gaza, sicuro del successo del proprio movimento, ha dichiarato che Hamas si presenterà alle prossime elezioni presidenziali, fissate tra tre anni, e che la "tahdiya" (calma) nei confronti d’Israele terminerà definitivamente nel 2005. Nel gennaio del 2006, invece, si terranno le elezioni legislative e questa volta il gruppo armato vuole dimostrare, che la sua politica non soltanto è appoggiata e condivisa dalla popolazione, ma anche legittimata. "Se le elezioni fossero oggi, vincerebbe Hamas – dice al Foglio una fonte palestinese – non perché la popolazione appoggi il gruppo armato, ma perché vuole punire la corruzione e l’inefficienza di al Fatah". Il vicino Egitto, intanto, ha un ruolo di mediazione tra Anp e Israele nel ritiro, ma nei confronti del movimento islamista mantiene una posizione ambigua. "Il Cairo da una lato combatte l’estremismo dentro i suoi confini, ma durante i negoziati tra Fatah e Hamas, l’Egitto ha trattato quest’ultimo gruppo armato ponendolo sullo stesso piano dell’Anp, che si è lamentata con il rais Hosni Mubarak – dice una fonte di Ramallah al Foglio – Hamas rappresenta i Fratelli musulmani e lasciare la libertà al gruppo armato di gestire la propria politica potrebbe essere il frutto di un tacito accordo con la Fratellanza: voi non fate attentati in Egitto, noi vi lasciamo tranquilli a Gaza". I media europei – due giorni fa Le Figaro – dicono che Mohammed Dahlan, ministro degli Affari civili, è il nuovo viceré dei Territori. In realtà – secondo informazioni raccolte a Ramallah – nel nuovo scenario politico non conta molto. Dahlan cerca di avere un ruolo di rilievo nel dopo-ritiro: a differenza di Abu Mazen si fa intervistare sorridente da tutte le emittenti, è sempre presente su al Jazeera, come se fosse lui a dover decidere le sorti del popolo palestinese, e cerca di utilizzare un linguaggio che piaccia all’occidente quando si rivolge agli israeliani. Ma Dahlan è odiato sia da Hamas sia da buona parte del suo partito, al Fatah, che vede in lui un semplice arrivista. Dopo il disimpegno ci sarà una crisi interna tra Anp e i gruppi radicali, come Hamas e Jihad islamico, che cercheranno di prendere il controllo delle zone finora abitate dai settler per far vedere alla popolazione la loro grande vittoria, ma in particolare – dato più importante, secondo molti osservatori – inizieranno una guerriglia politica contro l’Anp. "La battaglia della resistenza islamista si sposterà verso la Cisgiordania e Gerusalemme. Questi saranno i problemi che Abu Mazen, che non vuole disarmare il gruppo, dovrà affrontare nei prossimi mesi". Martedì, il ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, ha annunciato che i palestinesi non potranno entrare negli insediamenti ebraici almeno per un altro mese, per consentire lo sgombero dell’IDF dalla Striscia. Secondo voci dell’Anp, questo è il modo scelto dal premier Ariel Sharon per aiutare le forze di sicurezza palestinesi ad avere più tempo per organizzarsi contro i gruppi armati. "Però non basta, quello di Hamas è un ‘khitta jehanamiya’ (piano infernale, ndr) – dice la fonte – Il gruppo vuole entrare nel processo politico e, nel breve periodo, continuerà a combattere contro Israele, facendo passare l’Anp agli occhi del mondo arabo per un gruppo di collaborazionisti". Sempre a pagina 2 dell'inserto il quotidiano pubblica un editoriale ripreso da The Wall Street Journal e Milano Finanza, "Con il ritiro Sharon ha agito da leader forte. Ora tocca ad Abu Mazen" . Lo riportiamo: Ieri l’esercito israeliano ha dato avvio alla parte più difficile del ritiro da Gaza, rimuovendo con la forza gli israeliani che rifiutavano di abbandonare spontaneamente le proprie case. Fra pochi giorni, l’insediamento di Gaza sarà soltanto un ricordo della storia. Ciò che accadrà dopo è nelle mani dei palestinesi. Come ha detto lunedì sera il primo ministro Ariel Sharon alla sua nazione: "Ora sta ai palestinesi l’onere della prova… A una mano offerta in segno di pace noi risponderemo con un ramo di ulivo. Ma se scelgono il fuoco, risponderemo con il fuoco, in modo più forte che mai". Questo avvertimento non è semplice e vuota retorica. Il ritiro trasforma le regole di questo conflitto. Ora che ha il pieno controllo di Gaza, l’Autorità palestinese deve assumersi piena responsabilità per gli attacchi contro gli israeliani. Sharon esige che la Autorità palestinese ponga fine al terrorismo o che subisca le conseguenze del suo fallimento. Il ritiro di Israele da Gaza stabilisce nuove regole anche per la comunità internazionale. Se l’Europa vuole rispondere in modo concreto e adeguato, non ha altra scelta che dare il proprio sostegno alle richieste di Israele e interrompere le proprie pressioni su questo paese per ulteriori concessioni senza che ottenga nulla in cambio. Non farlo significherebbe soltanto incoraggiare maggiore violenza tra i palestinesi; sono già in molti a credere che sia stato il terrorismo a cacciare Israele da Gaza. Ma, a differenza del ritiro dal Libano nel 2000, Israele ha deciso di lasciare Gaza da una posizione di forza. L’uccisone mirata dei leader di Hamas e le incursioni nei territori palestinesi hanno risposto alla violenza con la violenza. La "tregua" negoziata lo scorso febbraio dal leader dell’Anp Abu Mazen con i gruppi terroristici non sarebbe stata possibile se i terroristi non avessero avuto bisogno di un momento di respiro. A differenza della Cisgiordania, dove i confini definitivi con Israele sono oggetto di discussione, Israele può lasciare Gaza unilateralmente perché la posizione estrema dei palestinesi (completo ritiro) coincide con gli interessi di Gerusalemme. Come ha detto Sharon quando ha annunciato per la prima volta i suoi piani, Gaza non avrebbe potuto rimanere sotto il controllo israeliano in nessun fattibile accordo di pace. Nel discorso pronunciato lunedì sera, il primo ministro ha spiegato perché: "Oltre un milione di palestinesi vive in questa regione e il loro numero raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi incredibilmente angusti, nella povertà e nello squallore, in focolai di sempre più profondo odio, senza nessuna speranza all’orizzonte". Trovare un lavoro per il quasi 30 per cento di palestinesi disoccupati sarà l’altra grande sfida che Abu Mazen dovrà affrontare. L’Intifada ha ridotto di oltre il 20 per cento il reddito pro capite, facendolo scendere a circa 1.000 dollari l’anno. Ma il declino economico è cominciato anche prima. Tra l’arrivo di Yasser Arafat nel 1994 e lo scoppio delle violenze nel 2000, il reddito pro capite è sceso da 1.320 dollari a 1.265 dollari l’anno. Perciò, non è stata l’occupazione a impoverire i palestinesi e quindi ad alimentare il terrorismo, ma lo stesso terrorismo e la corruzione di Arafat. La comunità internazionale farebbe bene a ricordarselo quando dovrà sborsare i tre miliardi di dollari che ha promesso ai palestinesi. Il controllo di questi fondi rafforzerebbe il dannoso ruolo dell’Anp come principale datore di lavoro e creerebbe opportunità per costanti malversazioni. E’ di fondamentale importanza che questo denaro sia usato per promuovere il settore privato, creando così una classe palestinese con un interesse concreto per la pace e la democrazia. I centri industriali sono una buona idea, ma progetti di questo genere al confine tra Gaza e Israele sono spesso stati oggetto di attacchi da parte palestinese. Nessun imprenditore investirà il proprio denaro in una regione caotica dove bande armate scorazzano per le strade. Se l’Autorità nazionale palestinese non affronterà con decisione il terrorismo, non potrà esserci né pace né uno Stato né prosperità economica. Israele ha fatto un altro gesto di pace. I mezzi d’informazione di tutto il mondo hanno mostrato la sofferenza dei coloni ebrei cacciati dalle proprie case. Stiamo a vedere se i palestinesi e i loro sostenitori in Europa sapranno rispondere con un gesto altrettanto generoso. A pagina 3 troviamo l'editoriale "La Gaza degli sputa sentenze".
Ecco il testo: Anche se è difficile prevedere come andrà a finire, è evidente che la sofferta decisione di Ariel Sharon di smantellare gli insediamenti dei coloni ebraici nella striscia di Gaza lo consegna alla storia come un leader dal coraggio indomito. Piero Fassino lo ha riconosciuto, chiedendo alla sinistra l’onestà intellettuale di rivedere il giudizio sul premier israeliano, ma il suo invito ha scatenato un’eloquente diatriba con contorni più psicanalitici che ideologici. Dal punto di vista politico, infatti, le tesi di Alberto Asor Rosa, che non intende perdonare a Sharon presunti "crimini" contro i palestinesi, o quelle di Valentino Parlato, che rievoca il riconoscimento staliniano di Israele, o del Pdci che si accontenta di definire "illegali" gli insediamenti ebraici a Gaza, lasciano il tempo che trovano. Quando c’è la guerra si fa la guerra, come la fece Itzak Rabin, come l’ha fatta Sharon. Non comprendere il valore eroico di un investimento sulla pace fatto in queste circostanze, non è un fatto politico, caso mai può essere un problema di intellettualismo patologico. I Parlato e gli Asor Rosa anche se sanno che si trattava di fandonie colossali, sono ancora affezionati alle antiche tesi del "campo della pace", rappresentato dall’Urss e dai suoi alleati terzomondisti, o, successivamente, dal delirio maoista, che pure proclamava "inevitabile" una nuova guerra mondiale. Gli orribili crimini commessi da quei regimi non li hanno mai commossi, al contrario hanno sempre parteggiato per gli aspetti più avventurosi della loro politica, per i "dieci, cento Vietnam", per il guevarismo suicida in America Latina, per "Al Fatah vincerà" in Medio Oriente. Lo fanno, beninteso, seduti comodi nelle loro poltrone, e di lì emettono le loro sentenze come Caronte che "giudica e manda". Si sentono probabilmente, in questo modo, agenti della Storia, o almeno di quella scolastica dialettica e materialistica di cui si considerano professori. Questo impedisce loro di considerare i fatti, nella loro concreta realtà, e questo è un problema loro, non della politica. Infine riportiamo da pagina 2 l'articolo di Toni Capuozzo "Sharon e Sistani" Vabbè, Fassino ci ha provato. Ma adesso, a smantellamento degli insediamenti dei coloni di Gaza in corso, bisognerebbe rispolverare le centinaia di vignette sparse sulla stampa italiana a descrivere uno Sharon arcigno e quasi nazista, ritratti meno sapidi di giudizi politici tanto brutali quanto incauti. E naturalmente sarebbe pretesa tanto modesta quanto provinciale pretendere adesso vignette con Sharon colomba goffa con il ramoscello d’ulivo in bocca. Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: un passo coraggioso, spregiudicato, costoso e senza precedenti è stato compiuto dall’uomo che era stato visto come una iattura per il processo di pace. A qualche migliaio di chilometri di distanza la nuova classe politica irachena ha rinviato di qualche giorno la firma a un documento fondante quale è la Costituzione, aggirando l’anglosassone amore per le scadenze inderogabili, e lo ha fatto dopo aver chiarito un principio fondamentale – il petrolio è di tutti gli iracheni – e dopo essersi attardata su temi che costituiscono una specie di trionfo della democrazia: chiamarsi Repubblica federale o semplicemente Repubblica d’Iraq, ispirare il diritto alla sharia come un punto di riferimento ideale ma vuoto o farne un elemento pesante nel codice di famiglia, nell’area delle libertà individuali e collettive. Il solo fatto che si sia discusso di tutto questo, pacificamente, e che lo si sia fatto dando diritto di parola alla minoranza sunnita che aveva boicottato le prime elezioni libere, e che gli sciiti abbiano accantonato la pretesa di essere "Repubblica islamica", dopo essersi sottratti alla chiamata a una guerra civile, sotto la provocazione delle autobombe, tutto questo dovrebbe farci dire che Al Sistani sta facendo, per la pace, passi decisivi, e vistosamente autonomi da Teheran. Ma la ritualità pigra dei commenti politici e il collateralismo senza fantasia di tanta satira preferisce accanirsi sulla sortita di Bush riguardante l’Iran atomico, letta come un mantra del guerrafondaio: non escludiamo l’uso della forza. Ora qualcuno ci dovrebbe spiegare quale forza persuasiva abbia una trattativa nella quale si escluda per principio il ricorso al castigo, sia esso una sanzione economica o un bombardamento mirato, o qualsiasi altra minaccia agitata per convincere il riottoso di turno, e in particolare il riottoso che sa quanto l’Europa sia imbelle e quanto gli Stati Uniti siano incapaci di distrarre forze e mezzi dall’Iraq per rivolgerli altrove. E dunque, con l’ossessione di tanti piccoli registi americani o tanti piccoli agenti zaristi, eccolo il mondo di Ferragosto: Bush il cattivo, e gli eroi della pace sono sempre gli stessi, dolci o insignificanti, militanti o svagati: il Dalai Lama o le due Simona, Michael Moore o Peacereporter, Gino Strada o Giulietto Chiesa, mica Fassino. Uno dei guai secondari del fondamentalismo pacifista che come un arcobaleno permanente tiene l’Italia al riparo delle tempeste del mondo è il pressapochismo, l’assenza di attenzione vera, duttile, capace di cogliere il nuovo, di tenere il passo con la storia: una generazione di giovani vecchi e di vecchi rimbaldanziti come giovanetti che guarda a se stessa, alle proprie bandiere come a un cortile di belle statuine, come a un girotondo immobile dove i ruoli sono semplici, stabiliti per sempre, immutabili. Un disegno del mondo elementare come un disegno infantile, colorato come una pubblicità di magliette, che impedisce ogni possibile incursione nella realtà, là dove ci si sporca, si cambia, si apprende l’arte del possibile, e la sorpresa dei fatti, un califfato della correttezza politica che pone al riparo dal zigzagare della cronaca, e dalle forme concrete, insperate, del cambiamento: una trincea nella quale la speranza è talmente astratta da risultare disperata. Perché nessuno, arroccato nell’arroganza dei principi riconoscerà che sul conto di Sharon si era stati frettolosamente liquidatori, e che i duri come Rabin sono buoni solo da morti, per il fondamentalismo pacifista. Nessuno riconoscerà che la democrazia irachena ha il volto possibile di Al Sistani e di Talabani, resistente al terrorismo delle autobomba. Naturalmente chiedere al pacifismo di sporcarsi le mani con la realtà, di smettere di essere una petizione di principio, di riconoscere come la pace a volte indossi, nei suoi passi concreti e incerti, scarpe insospettabili come quelle di Sharon o di Al Sistani, e non i sandali dei fraticelli di Assisi, è, a sua volta, aun’inutile pio desiderio. Così come riconoscere che l’odiata guerra di Bush sta producendo risultati – per quanto ci riguarda continuiamo a essere perplessi, ma non così stupidi da non misurarci con la realtà – e la correttezza politica dell’Europa, o il terzomondismo delle Nazioni Unite hanno prodotto i massacri balcanici e africani. Ci piacerebbe che la lunga campagna elettorale italiana si misurasse su provinciali temi di economia nazionale, e che di fronte alla questione dell’Iraq si adottasse il pragmatismo dei portantini del 118, che davanti alle vittime di un incidente stradale non si attardano a discutere delle cause dell’incidente, ma prestano soccorso. Di chi la colpa, e di chi il merito, si può vedere dopo, ma non allo scopo di guadagnarsi voti. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.