Sprezzante ironia, omissioni e ritornelli ideologici così il quotidiano comunista racconta il ritiro da Gaza
Testata: Il Manifesto Data: 18 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Zvi Shuldiner - Michele Giorgio Titolo: «Il nuovo demone - Gaza, scatta il ritiro di sharon - Ora bisogna rilanciare la Road Map»
IL MANIFESTO di domenica 17 agosto titola in prima pagina "Il controesodo". E' il modo, sprezzante e beffardo, con cui il quotidiano comunista affronta il dramma del ritiro israeliano da Gaza.
A commentare la storica svolta è chiamato Zvi Shuldiner che nell'articolo "Nuovo demone" scrive che "le lacrime versate dai coloni e gli abbracci con i soldati che li aiutano a partire creano un'immagine esageratamente umanitaria e compassionevole che contrasta molto con quel che si può vedere attorno alle colonie israeliane di Gaza", perché le sofferenze patite dai palestinesi sono state molto più grandi. Una strada, quella del confronto tra sofferenze per stabilire quale "pesa di più", piuttosto scivolosa: si potrebbero infatti ricordare le sofferenze inflitte agli israeliani di Gaza dal terrorismo, sofferenze accuratamente taciute da Shuldiner.
Ecco il testo: Sì, il ritiro da Gaza comincia. Centinaia di famiglie hanno già abbandonato le proprie case. Nelle ultime ore sono cominciati anche scontri tra esercito e polizia e alcuni dei gruppi giovanili della destra radicale giunti là per «impedire il sacrilegio, impedire il tradimento, evitare che si compiano i disegni del dittatore Sharon». La polizia e l'esercito li trattano con i guanti di velluto. Negli ultimi anni, in modo aperto o occulto, l'esercito e i coloni sono stati alleati nel mantenere la brutale colonizzazione dei territori occupati. Ora l'idillio si rompe e le regole cambiano.
Le radio, tutte le reti televisive, tutti i quotidiani, migliaia di giornalisti stranieri: il ritiro è il tema centrale delle nostre vite ventiquattr'ore al giorno, un'intensità che aiuta a deformarne enormemente il significato, il passato recente, il futuro prossimo.
Il premier Ariel Sharon ieri ha parlato alla nazione. Non è stato un grande esercizio retorico ma c'è qualche ragione per l'ottimismo di qualcuno e il pessimismo di altri: Sharon parla di un processo molto doloroso - anche per lui, grande architetto delle colonie nei territori occupati -, un processo che però agli occhi del premier apre la porta a futuri negoziati per un futuro migliore.
Sì, è terribile, famiglie intere si vedono obbligate a lasciare le case che hanno abitato per oltre trent'anni, i vicini, i ricordi, le tombe dei cari. Questo è sempre doloroso. Ma le lacrime versate dai coloni e gli abbracci con i soldati che li aiutano a partire creano un'immagine esageratamente umanitaria e compassionevole che contrasta molto con quel che si può vedere attorno alle colonie israeliane di Gaza. E' terribile, famiglie intere che abbandonano le proprie case. Da molte delle finestre dei coloni si possono vedere i resti di alcune delle case di palestinesi che i soldati «umanitari» hanno distrutto negli ultimi anni. Circa trentamila palestinesi hanno assistito alla distruzione delle proprie. Le case, i giardini e gli alberi: alcuni dei coloni si portano via degli alberelli per trapiantarli. Sì, sono scene che emozionano, ma non quanto vedere le migliaia di alberi che l'esercito ha distrutto nelle terre palestinesi attorno alle colonie «per garantire la loro sicurezza». Terre che erano fertili e oggi sterili, contadini palestinesi che non possono raggiungere i propri campi, bambini palestinesi morti perché si erano spinti «troppo vicino ai varchi». Mentre loro, gli addolorati coloni, abitavano nel «paradiso» fondamentalista finanziato da tutta la società israeliana al fine di impedire qualunque passo reale verso la pace. Per tutti gli emozionati umanisti che oggi si abbracciano piangendo, i palestinesi allora non erano parte della realtà. Forse qualcuno tra soldati, poliziotti e coloni israeliani ripenserà a cosa ha voluto dire per migliaia di palestinesi la politica della distruzione sfrenata degli ultimi anni, epilogo logico di trentotto anni di occupazione. La verità è che nemmeno oggi i palestinesi diventano attori nel gran dramma - o grande farsa - del ritiro da Gaza.
Sì, il miracolo che i fondamentalisti ebrei aspettavano non si è realizzato. Il Messia non arriva, anche se qualche lunatico ancora oggi dice che non è detta l'ultima parola. E' vero, il processo è solo all'inizio, ma intanto centinaia di famiglie hanno già abbandonato le loro case, che ormai attendono la demolizione finale.
Siamo lontani però anche dal miracolo in cui credono i moderati, quelli che pensano che ora si aprirà un vero processo di pace. Alcuni appoggiano Sharon senza condizioni e lo considerano un nuovo De Gaulle. Molti non capiscono che il veleno nazionalista e fondamentalista è arrivato già a troppi organi vitali di una società malata. Malata per l'occupazione, per il rifiuto ostinato delle soluzioni di pace basate sul riconoscimento dei diritti dei palestinesi e non solo sulle rivendicazioni di sicurezza per Israele, una superpotenza atomica che domina la regione.
I processi storici spesso vanno oltre le intenzioni di coloro che li cominciano. In questi giorni succede qualcosa di drammatico in Israele, sotto il confronto diretto tra una destra pragmatica e una destra fondamentalista.
Da una parte, la maggioranza della popolazione appoggia il ritiro da Gaza. Ma molti israeliani non si interessa di quanto sta succedendo lì. I coloni e la destra - lo ha detto anche l'ex ministro Landau, un superfalco che si propone come futuro candidato premier del Likud - hanno mobilitato per lo più elementi ultrareligiosi e coloni religiosi. Hanno brillato per assenza i laici o i religiosi moderati, che appoggiano la destra ma sono più pragmatici o si dicono scontenti per una politica che ha favorito i coloni a spese degli strati più poveri della popolazione.
D'altra parte «esce dalla lampada» il demonio del fondamentalismo ebraico. Con violenza, senza remore, oggi sono al centro della discussione gli elementi base di un processo che porterebbe a uno stato clericale - anche se spesso occultati sotto la retorica delle regole democratiche. Ma è chiaro il carattere confessionale della democrazia che i rabbini della destra radicale vogliono. E questi sono tuttavia più moderati dei gruppi ultrafascisti che si preparano a intensificare gli scontri.
Il processo storico che aveva portato alla costruzione delle colonie sembrava irreversibile. L'obiettivo era impedire una vera pace. Nel 1979 l'allora premier Menachem Begin aveva firmato gli accordi di Camp David per rendere impossibile la costruzione di uno stato palestinese o il ritiro da Gaza e Cisgiordania. L'allora ministro dell'agricoltura Sharon costruiva nuovi insediamenti mentre Begin discuteva di pace con gli egiziani. Più tardi il ministro della difesa Sharon ha diretto la ritirata dal Sinai e la distruzione della città di Yamit. Oggi il premier Sharon vuole migliorare le relazioni con gli Stati uniti e ha cominciato ad avanzare sulla «road map» del presidente George W. Bush. Il cow boy texano è impantanato in Iraq e ha bisogno di mostrare qualcosa di positivo ai suoi amici in Medio oriente. Tutto questo potrebbe disturbare uno dei principali progetti di Sharon: con il ritiro da Gaza e il «trauma» nazionale sarebbe più facile posporre i negoziati di pace.
Ora però gli israeliani possono constatare che il cielo non crolla quando si abbandonano le colonie. Gli israeliani e l'opinione pubblica internazionale cominciano a capire - Sharon incluso - che sarà necessario parlare. Molti dovranno capire che non si può fondare la pace sui piani annessionisti dei diversi governi israeliani. L'alternativa sarebbe una nuova sanguinosa esplosione alla prima paralisi del processo politico. A pagina 3 Michele Giorgio, nell'articolo "Gaza, scatta il ritiro di Sharon" attua la stessa selettiva omissione quando scrive che "il loro" (dei coloni) "fervore religioso e la complicità dei governi, tutti i governi, laburisti e di destra, hanno tenuto in una enorme prigione 1,4 milioni di palestinesi di Gaza e che stentano a credere di poter finalmente vivere senza più coloni intorno". Ma senza il terrorismo che colpiva gli israeliani a Gaza come a Tel Aviv i palestinesi non avrebbero conosciuto i rigori di una difesa militare divenuta indispensabile. Si capisce però che nulla deve turbare il ritornello ideologico per cui tutti i problemi del Medio Oriente deriverebbero dall'occupazione" israeliana.
Ecco il testo completo: È terminato la scorsa notte il conto alla rovescia per i coloni di Gaza. Le 48 ore di «tolleranza», concesse dalle forze armate alle famiglie ancora dentro Newe Dekalim e gli altri 21 insediamenti ebraici, sono terminate alle 24. Poco prima decine di autobus con a bordo soldati e poliziotti sono entrati a Gush Qatif, il principale blocco di insediamenti e si sono schierati intorno e dentro Newe Dekalim dove non hanno incontrato resistenza. Prima invece centinaia di coloni e di «infiltrati» giunti da Israele, Stati uniti e vari paesi europei, avevano dato filo da torcere ai militari sbarrando il passaggio agli autocarri giunti a prelevare i beni delle famiglie intenzionate a partire e alzando barricate e scontrandosi con polizia ed esercito. Centinaia di persone, in gran parte giovani ultranazionalisti, sono stati arrestate. Un agente di polizia è stato ferito al volto dall'acido lanciato da un dimostrante. «Useremo il minimo della forza per sgomberare le colonie ma abbiamo anche la determinazione necessaria per portare a termine le operazioni decise dal governo», ha annunciato ieri sera l'ex generale Eival Giladi, consigliere del premier Sharon e considerato l'ideologo del piano di «disimpegno unilaterale dai palestinesi». Stando a fonti militari, almeno metà delle 1.486 famiglie di coloni di Gaza aveva lasciato gli insediamenti prima della mezzanotte. Chi è rimasto sarà evacuato e perderà il 30% delle indennità previste dal governo, fra 200 e 400.000 dollari a famiglia. Le autorità israeliane prevedono di completare l'evacuazione dei coloni prima del previsto, in circa 10 giorni, ma lo stesso Giladi ha ammesso che i tempi potrebbero essere più lunghi. Non è noto peraltro quando i soldati lasceranno Gaza.
Fino all'ultimo l'esercito ha tenuto le carte coperte, senza sciogliere il dubbio su dove e quando avrebbe iniziato lo sgombero, per non dare tempio ai coloni di organizzarsi. Negli ultimi giorni era stato ipotizzato un inizio nelle colonie del nord, quasi vuote e meno problematiche, per poi prendere `a tenaglia', concentrando le forze disponibili sui capisaldi degli irriducibili, nel sud di Gaza. La decisione di affrontare subito il nodo Newe Dekalim è stata annunciata ieri sera, dopo che questa colonia, considerata la «capitale» di Gush Qatif, era stata qualche ora prima il teatro di scontri fra centinaia di giovani infiltrati e militari. Giladi ha ammesso che le preoccupazioni maggiori per lo sgombero verranno proprio dagli infiltrati - 5 mila secondo i giornali israeliani - entrati a Gush Qatif nelle scorse settimane.
Helen Freedman, di New York, direttrice di «Americans for a safe Israel», è una di loro. Ha trascorso le ultime settimane a pianificare le possibili forme di boicottaggio del ritiro. «È terribile pensare che un governo guidato di ebrei sta espellendo ebrei dalle loro case», ha detto scuotendo la testa. Per Freedman non ci sono dubbi: i palestinesi non hanno alcun diritto, «questa è solo terra degli ebrei».
Da New York arriva anche il consigliere comunale, del 48esimo distretto, Dov Hikind, che in questi ultimi mesi ha più volte visitato le colonie. «Infiltrato? Non sono un infiltrato, è un mio diritto tornare ovunque nella terra che dio ha donato agli ebrei», ha dichiarato piuttosto seccato. Hikind e Freedman sono entrambi entrati senza problemi a Gush Qatif, malgrado la striscia di Gaza sia stata proclamata zona militare chiusa. «Ho mostrato il passaporto americano e i soldati di guardia ai posti di blocco mi hanno fatto passare», ha raccontato Freedman. Un gruppo di infiltrati ha anche inaugurato «un nuovo insediamento». Sono in prevalenza studenti del Collegio rabbinico «Bet El», discepoli del rabbino estremista Zalman Melamed. Daniel, 17 anni, arriva da un insediamento ebraico vicino a Hebron e afferma di essere passato nascosto in un sacco militare. «Nei giorni scorsi chi davvero voleva entrare poteva farlo» sostiene. Ieri Aryel Yitzaki, il leader della colonia di Kfar Yam, ha riferito che almeno 10 mila ebrei (numero ritenuto irrealistico) provenienti da Israele, Cisgiordania e da altri paesi sono riusciti ad entrare a Gaza: «con il loro aiuto fermeremo i soldati inviati da Sharon».La copertura giornalistica del ritiro da Gaza è enorme. Centinaia di giornalisti locali e internazionali si muovono ogni giorno tra Newe Dekalim, il valico di Kissufim e il centro stampa allestito nella sede del Consiglio Regionale di Eskol, vicino Gaza ma all'interno del territorio israeliano. Le storie strappalacrime e la commozione stanno avendo il sopravvento sull'analisi politica, sul contesto storico. Coloni, spesso fanatici, che hanno coscientemente occupato la terra di un altro popolo, annullano le ragioni di chi ha dovuto subire una occupazione militare molto dura e guardare da lontano i prati fioriti e le piscine dei 7mila coloni israeliani mentre a la gente di Gaza non aveva acqua potabile sufficiente durante i mesi estivi. «È dura, è molto dura; è tutta una vita che scivola via» ha spiegato Moshe Mazuz, 55 anni, annunciando che aspetterà l'arrivo dei militari e si farà portare via con la forza. Il dubbio non ha mai sfiorato la mente di Mazuz e di tutti gli altri coloni che oggi vengono dipinti come «vittime». Il loro fervore religioso e la complicità dei governi, tutti i governi, laburisti e di destra, hanno tenuto in una enorme prigione 1,4 milioni di palestinesi di Gaza e che stentano a credere di poter finalmente vivere senza più coloni intorno. Il terrorismo è del tutto rimosso anche dall'intervista di Giorgio al politico palestinese Abdel Shafi il quale chiede che dopo il ritiro da Gaza il valico di Rafah passi sotto il controllo palestinese, senza accennare a garanzie per Israele che esso non sia usato per trasportare armi, e la ripresa della Road Map, dimenticando che il primo punto di questo piano è il disarmo dei gruppi terroristici. Condizione preliminare ad ogni negoziato che l'Anp continua a non ottemperare.
Ecco il testo: Heider Abdel Shafi ha vissuto le varie occupazioni straniere subite da Gaza. Quella britannica in gioventù, poi quella egiziana (dal `48 al `67) , infine quella israeliana. Ora, dopo aver superato gli 80 anni, lo stimato esponente palestinese, ex capodelegazione dell'Olp alla Conferenza di Madrid del 1991, potrà finalmente conoscere la libertà. In tutti questi anni ha visto crescere, anno dopo anno, le colonie ebraiche e, di pari passo, peggiorare le condizioni di vita della gente di Gaza. «Potrò godermi la mia terra e la mia famiglia senza dovermi preoccupare di cosa faranno o decideranno le forze di occupazione», dice osservando il mare dove decine di bandiere palestinesi sventolano nel piccolo porto di Gaza.
Tante occupazioni, tante sofferenze per i palestinesi di Gaza. Quando i coloni e soldati israeliani non ci saranno più, cambierà la loro vita?
Sì, ci sarà un miglioramento netto per ciò che riguarda la vita di tutti i giorni, anche se problemi come la disoccupazione e la povertà non si risolveranno in pochi mesi. Tuttavia per un palestinese già il fatto di potersi muovere tra il nord e il sud di Gaza, senza più incontrare posti di blocco israeliani, rappresenta un passo in avanti di grande rilievo. La possibilità di poter utilizzare le aree occupate sino ad oggi dalle colonie ebraiche, apre la strada allo sviluppo edilizio ed economico sognato da tanti. Se gli israeliani smetteranno di opporsi alla costruzione del porto e alla riapetura dell'aeroporto, il futuro sarà ancora più roseo.
Quali sono i rischi maggiori che i palestinesi potrebbero trovare dietro l'angolo dopo questo ritiro unilaterale di Israele?
Per Gaza credo che molto sia legato al controllo della frontiera di Rafah con l'Egitto. Se gli israeliani rinunceranno ad esercitare qualsiasi supervisione sul traffico commerciale e sul transito delle persone tra Gaza e l'Egitto, allora questo piccolo pezzo di terra palestinese sarà davvero libero. Se Israele invece continuerà a controllare, di fatto, il valico di frontiera, magari ottenendo il suo spostamento a Kerem Shalom, allora Gaza non potrà dirsi libera perché gli israeliani avranno ancora il diritto di ultima parola sui movimenti della nostra popolazione.
E dal punto di vista diplomatico?
L'accordo definitivo di pace tra i due popoli passa necessariamente per la ripresa di un negoziato fondato sulle risoluzioni internazionali. Il piano unilaterale di Sharon, nonostante la liberazione di Gaza, serve soltanto gli interessi di Israele e a consolidare l'occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Il governo israeliano peraltro continua ad impedire l'attuazione della road map (il piano di pace, ndr) che pure, almeno ufficialmente, viene sostenuto anche dagli Stati uniti. Tornare al tavolo delle trattative, al più presto e senza condizioni, è l'unica soluzione praticabile e Sharon non può continuare a boicottarla. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.