Luciana Castellina, aspirante madrina comunista dei coloni israeliani il cinismo di chi crede di essere sempre dalla parte di chi soffre
Testata: Il Manifesto Data: 18 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Luciana Castellina Titolo: «Quelle lacrime»
Luciana Castellina è una donna buona. Profondamente scossa da ogni dolore umano. Fosse anche quello dei coloni israeliani che devono abbandonare Gaza. Così di fronte a "un'altra immagine di dolore che ci arriva da questa terra dolorosa che un tempo si chiamava Palestina, poi si è chiamata Israele e da 38 anni l'Onu chiede che un pezzo almeno torni a chiamarsi con il nome originario" (una storia, quella tracciata dalla Castellina che inizia opportunamente dalla conquista romana della terra di Israele) quella dei coloni israeliani che devono lasciare Gaza, scrive:"Non importa ora dire che gli sta bene" (non importa dirlo, ma è evidente che lo pensa )perché "oggi ci dispera la disperazione delle donne e ragazzi israeliani che devono lasciare i luoghi dove hanno vissuto. Ma proprio per questo sentiamo ancora più l'urgenza di denunciare chi li ha posti nella drammatica attuale condizione: incitandoli ad insediarsi su una terra che sapevano bene non poteva essere loro concessa; che li hanno illusi e anzi aizzati all'odio per i palestinesi; che li hanno usati per tentare attraverso il fatto compiuto di consolidare, e far riconoscere, la Grande Israele". Nello stesso articolo in cui la Castellina accusa Israele per la sorte dei coloni ricorrono le falsità demonizzanti cui il quotidiano comunista ci ha abituati: le terre sottratte ai palestinesi, il rifiuto di "stabilire un rapporto con i palestinesi" (molto dei quali, invece, lavoravano nelle industrie degli insediamenti e sono gravemente colpiti dal ritiro), l'"espulsione sistematica" dei palestinesi ( a questo proposito cade a proposito la citazione del noto falsario antisionista Ilan Pappe) ecc. Nessun cenno al terrorismo se non quando, riecheggiando i proclami trionfalistici di Hamas, la Castellina rivendica alla "lotta" dei palestinesi, oltre che alla "mobilitazione internazionale" la "vittoria" del ritiro da Gaza. Strana solidarietà con i coloni quella di Luciana Castellina, da sempre amica di chi li uccideva, da sempre sorda alle esigenze di sicurezza di Israele, da sempre impegnata a demonizzare un paese che in un momento drammatico della sua storia mostra di saper mantenere la sua unità. A dispetto del cinismo di chi è disposto a sfruttare persino il dolore dei coloni (come già quello degli ebrei cacciati dai paesi arabi) per perseguire il suo obiettivo di sempre: la delegittimazione dello Stato di Israele in quanto tale, costituito su una terra ritenuta "usurpata" nella sua interezza.
Ecco l'articolo:
Un'altra immagine di dolore che ci arriva da questa terra dolorosa che un tempo si chiamava Palestina, poi si è chiamata Israele e da 38 anni l'Onu chiede che un pezzo almeno torni a chiamarsi con il nome originario. Sono i volti disperati e rabbiosi dei coloni costretti a lasciare le loro case dove per decenni hanno vissuto come in un fortino di prima linea, circondati dai militari e dai fili spinati; e dall'odio di chi stava loro attorno.
Non importa ora dire che gli sta bene, che avrebbero dovuto non andarci e comunque cercare di stabilire un rapporto con chi, per far spazio a loro, era stato cacciato. Non importa, anche se verrebbe voglia di gridare contro l'operazione mediatica che mostra le lacrime di questo abbandono ma non mostra - non ha mai mostrato - quelle sgorgate a seguito di altri abbandoni forzati e di altre distruzioni: quelle del `48, dell'espulsione sistematica dei palestinesi dalle loro case e dai loro campi (Ilan Pappe, coraggioso storico israeliano, confessa di aver scoperto la «Nakbah» - la «catastrofe», come è stata chiamata dalle vittime - solo molto tardi nella sua vita di studioso, tanto spesso è stato il velo che l'ha coperta). E poi quelle seguite alle occupazioni del '67 e del `73; quelle più recenti, decine di migliaia: per rappresaglia, per far posto ai pionieri israeliani, per costruire il muro. Non è di quegli immensi dolori, della struggente nostalgia per le proprie case e giardini e agrumeti che ancora attanaglia i tanti che vivono dopo più di mezzo secolo nei campi profughi che oggi vogliamo parlare.
Oggi ci dispera la disperazione delle donne e ragazzi israeliani che devono lasciare i luoghi dove hanno vissuto. Ma proprio per questo sentiamo ancora più l'urgenza di denunciare chi li ha posti nella drammatica attuale condizione: incitandoli ad insediarsi su una terra che sapevano bene non poteva essere loro concessa; che li hanno illusi e anzi aizzati all'odio per i palestinesi; che li hanno usati per tentare attraverso il fatto compiuto di consolidare, e far riconoscere, la Grande Israele.
Innanzitutto Ariel Sharon, che di questa ipotesi politica è stato il più tenace artefice. Non lo perdoniamo, ci dispiace Fassino, che dalle colonne del Corriere della Sera ci hai chiesto di ripensare alla figura del primo ministro israeliano. Non ci pentiamo, e oggi abbiamo anzi una ragione di più per non pentirci di quello che tu chiami «estremismo». Per via del male che egli ha fatto ai palestinesi, ma anche agli israeliani.
Oggi Sharon ha deciso il ritiro di un piccolo numero di coloni, quelli insediati nella striscia di Gaza. Bene. Vuol dire che la lotta e la mobilitazione internazionale non è inutile e ha indotto il governo di Gerusalemme a maggiore prudenza.
È una piccola vittoria dei palestinesi e di tutti coloro che hanno denunciato la follia di voler cancellare la questione palestinese con la forza. Che Sharon abbia capito che qualcosa doveva pur fare se non voleva restare totalmente isolato è una buona cosa. Altri, nel suo paese e nel suo stesso partito, non l'hanno capito. Ma attenti. Conosciamo tutti a memoria la frase famosa del Gattopardo: «cambiare qualcosa per non cambiare niente».
Il rischio, assai forte, è che non solo al ritiro da Gaza non seguano gli altri, indispensabili ritiri. Ma persino che tutta la vicenda si traduca in una drammatica beffa.
Avete visto bene, sulla carta geografica, che cosa è la striscia di Gaza? Davvero una striscia sottile di terra, separata dal resto dei territori che dovrebbero costituire lo stato di Palestina, la Cisgiordania, da chilometri e chilometri. Se a quelle terre Gaza non verrà riunificata, se anzi gli accessi continueranno ad essere sbarrati, se il futuro agognato stato dovrà risultare una pelle di leopardo come purtroppo è tutt'ora nei piani, Gaza non sarà stata «liberata», diventerà una prigione. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.