Testata: Il Foglio Data: 18 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Dopo il ritiro? Gerusalemme verso elezioni anticipate ricche di sorprese - Hamas festeggia e promette: "La battaglia non è affatto finita" - Sul nuovo confine di Israele si vuole dare una chance ai palestinesi - The right man - Striscia la notizia Titolo: «Emanuele Ottolenghi - Daniele Raineri - Rolla Scolari - David Frum - un giornalista»
IL FOGLIO di giovedì 18 agosto 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Emanuele Ottolenghi "Dopo il ritiro? Gerusalemme verso elezioni anticipate ricche di sorprese", che riportiamo: Il piano di disimpegno da Gaza sta procedendo rapidamente. Il suo esito avrà importanti ripercussioni sul panorama politico israeliano. Molto dipenderà da considerazioni di lungo termine, da chi avrà avuto ragione sulle conseguenze del disimpegno. Ma, al di là degli esiti, è evidente che il ritiro da Gaza, politicamente, rappresenta un capolinea. Il presente governo, guidato da Ariel Sharon, esiste grazie a un matrimonio di convenienza tra i laburisti e l’ala pragmatica del Likud che sostiene Sharon, fondato sul comune intento di uscire da Gaza. A ritiro completato, non ci saranno più ragioni per il connubio e sarà questione di poco prima di una crisi di governo e di elezioni anticipate. Ne dava chiara indicazione il leader laburista, Shimon Peres, in un recente fondo sul Times di Londra, dove sottolineava come il disimpegno fosse, a suo dire, il preludio per riavviare il processo di Oslo e il dialogo con i palestinesi, un dialogo che, prometteva Peres, i laburisti avrebbero alacremente promosso. Peres dovrà farsi da parte presto di fronte a più giovani contendenti alla leadership del partito, primo tra tutti Ehud Barak, che lunedì della settimana scorsa aveva attaccato Benjamin Netanyahu per le sue dimissioni, nel corso di una conferenza stampa che aveva tutti i crismi di un lancio ufficiale della sua candidatura a premier. Netanyahu, dal canto suo, ha abbandonato la nave prima di essere compromesso con il disimpegno per avvalersi del sostegno di quella parte della destra non disposta a rinunciare all’ideologia della Grande Israele, e forte di questo sostegno sfidare Sharon alla leadership del Likud. La crisi di governo non avverrà necessariamente subito, né sarà per forza la situazione diplomatica del dopo Gaza a scatenarla. Più probabilmente, le divergenze in politica economica che sono emerse sul voto per il bilancio del 2006, approvato recentemente dal governo con tutti i ministri laburisti contrari, forniranno la scusa. Il bilancio richiede un voto preliminare in commissione Finanze a ottobre e poi deve essere approvato entro il 31 dicembre dal Parlamento. In caso di mancata approvazione, entra in vigore l’esercizio provvisorio. Tuttavia, se il bilancio non è approvato entro il 31 marzo, scattano elezioni anticipate entro 90 giorni, cioè entro la fine di giugno. Questo scenario appare però meno probabile di un possibile accordo tardivo, a elezioni anticipate concordate, su una versione del bilancio meno incisiva in tema di riforme di quanto non sia l’attuale proposta approvata dal governo. Quale che sia il casus belli delle elezioni anticipate, rimangono molte incognite. Sharon gode di notevole popolarità tra gli israeliani, grazie alla sua virata centrista che gli ha fatto adottare due misure – la barriera difensiva in Cisgiordania e il ritiro unilaterale da Gaza – originariamente proposte dalla sinistra. Ed è la politica centrista che si rivela vincente oggi in Israele: Sharon esprime il consenso generale secondo cui da un lato non esiste un partner palestinese credibile e pronto ad accettare la legittimità di uno Stato ebraico indipendente e sovrano con cui coesistere, ma dall’altro Israele non puó – politicamente, moralmente e militarmente – continuare sine die a occupare i territori. Sharon ha espresso questa doppia istanza dunque promuovendo barriera e disimpegno, consapevole del fatto che, anche se il ritiro si rivelasse foriero di una nuova recrudescenza del terrorismo, la filosofia unilateralista dei ritiri a confini sicuri per Israele continuerà a godere di sostegno. Questo significa che una crisi che porti a elezioni anticipate non gioverebbe comunque ai laburisti, a meno che la loro leadership non sappia esprimere in maniera ugualmente convincente le ansie e le speranze dell’opinione pubblica dopo quasi cinque anni di Intifada e terrorismo palestinese. D’altro canto, la politica del consolidamento unilaterale dei confini garantisce a Sharon sostegno al centro, ma non promette un suo rinnovo alla guida del Likud, la cui linea potrebbe virare di nuovo verso destra. Se i laburisti e la sinistra sionista rimangono sfiduciate per il loro ruolo nel processo di Oslo, il Likud appare sull’orlo della crisi. Se Sharon vincesse le primarie del partito in vista delle prossime elezioni, non è da escludersi una spaccatura nel Likud con una porzione di transfughi – Netanyahu compreso – diretti ad altre forze più di destra o persino a formare una nuova formazione. Ma se Sharon perdesse, la spaccatura potrebbe avvenire nella direzione opposta, con il vecchio leader e l’ala più pragmatica del partito diretti al centro. Sempre a pagina 1 dell'inserto troviamo l'articolo di Daniele Ranieri "Hamas festeggia e promette: "La battaglia non è affatto finita" ": Roma. I gruppi armati palestinesi fanno festa per il ritiro dei settler dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti della Cisgiordania. Per le strade di Gaza City si sparano razzi luminosi, si battono le mani e si fanno caroselli con le macchine. I bambini si fanno fotografare ridenti mentre danno alle fiamme una casetta giocattolo, a mo’ di simbolo degli insediamenti che se ne vanno. Uomini con il viso coperto da passamontagna sventolano le bandiere verdi di Hamas, e rinnovano la solita esibizione di lanciarazzi e armi automatiche. Come se le operazioni di sgombro di questi giorni fossero una vittoria finale strappata da loro, a suon di cinture al tritolo e bulloni fatte esplodere sugli autobus che portano i bimbi a scuola e di razzi Qassam fatti cadere sui tetti delle case, e non l’esecuzione – per ora molto più disciplinata di quanto non si sperasse – di una decisione unilaterale di Israele. L’operazione di ritiro è la fase finale e meticolosamente organizzata di un progetto presentato dal premier israeliano, Ariel Sharon, già nel dicembre del 2003, in seguito alla caduta di Saddam Hussein. Sharon ha dovuto argomentare le sue ragioni davanti al partito e ai suoi elettori, parte dei quali sono ferocemente contrari, e passare il libero esame del Parlamento d’Israele che, per inciso, è la prima democrazia della regione mediorientale. Quattro mesi dopo, nell’aprile del 2004, ha ottenuto il riconoscimento internazionale più importante: la Casa Bianca ha espresso il proprio pieno appoggio al piano di disimpegno dai territori occupati. Ma i gruppi radicali e armati palestinesi, di questo tormentato processo, non si danno per inteso: sono loro, che per ora si guardano bene dall’attraversare il confine e aspettano con la bandiera in mano, ad avere respinto "il nemico sionista", e non quelli ad andarsene per propria sofferta volontà. Hamas ha dichiarato ieri, per bocca del suo dirigente Khaled Mashaal, che l’evacuazione degli insediamenti israeliani di Gaza è un primo passo verso la liberazione armi in pugno di tutta la terra occupata. Mashaal, da Beirut, dice chiaramente che il gruppo islamista non deporrà le armi: "Gaza è stata la prima liberazione, poi sarà la volta della Cisgiordania, e poi toccherà a ogni centimetro di terra palestinese. Il ritiro è l’inizio della fine del progetto sionista nella regione. Siamo soltanto all’inizio, la battaglia non è affatto finita". Per Mashaal, alle cui spalle campeggia un poster con sopra scritto "Oggi Gaza, domani Gerusalemme", il "disengagement" unilaterale di Sharon è la prova che i palestinesi possono ottenere terre e diritti soltanto con gli attentati, e non con i negoziati. "Questa operazione storica è stata raggiunta grazie alle operazioni kamikaze e al lancio dei razzi Qassam e al sacrificio dei martiri. E’ il sangue dei martiri e il sacrificio di tutti che ha permesso questa vittoria. Per questo non acconsentiremo al disarmo della resistenza, perché queste sono le armi legittime del popolo palestinese. I primi ad avere ottenuto la vittoria con questo importante passo sono i martiri della storia della resistenza". Un altro esponente di spicco di Hamas, Mahmoud al Zahar, in una baldanzosa intervista al giornale arabo al Sharq al Awsat, offre un’interpretazione del ritiro come di una svolta felice nel confronto militare: "Ora la resistenza si deve spostare in Cisgiordania per cacciare gli israeliani". Come ha scritto Max Boot, editorialista del Los Angeles Times, la decisione di Israele di rimuovere i settler dalla Striscia di Gaza e da parte della Cisgiordania metterà finalmente alla prova la pseudo convinzione che gli insediamenti siano la causa delle ostilità. Se così fosse, si chiede Boot, la Striscia dovrebbe nel giro di pochi giorni diventare pacifica come la Svizzera. Così evidentemente non è, a giudicare dagli striscioni verdi di Hamas esposti a Gaza: "La resistenza vince, avanti così". Il rischio è che si crei una nuova zona franca per gli estremisti, sul modello dell’Afghanistan sotto i talebani, che faccia un giorno rimpiangere agli occidentali, anche i più illuminati, la decisione di Sharon. Questa volta, a bloccare le scene di giubilo, non c’è più nemmeno un mediaticamente scaltro Yasser Arafat, che, l’11 settembre, accortosi orripilato dei festeggiamenti per le strade, fece rientrare tutti di gran fretta nelle case. C’è da sperare che i buoni uffici dei vicini più pragmatici, come il rais egiziano Hosni Mubarak, che ieri ha detto di comprendere il dolore degli abitanti degli insediamenti evacuati, possano evitare che Gaza diventi, come ha ipotizzato Boot sul Los Angeles Times, "Hamastan". L'articolo di Rolla Scolari "Sul nuovo confine di Israele si vuole dare una chance ai palestinesi" Gerusalemme. Il sud d’Israele è in queste ore una regione affollata. La statale 232, che porta alla barriera di Kissufim, che una volta era il confine con Gaza, è trafficata come mai prima d’ora. Ci sono le automobili degli abitanti degli insediamenti che lasciano le loro case: sono cariche di materassi e mobili; ci sono gli autobus pieni di militari che arrivano da ogni parte del paese; ci sono i minivan delle truppe televisive di tutto il mondo. Gli abitanti dei kibbuz e dei villaggi sul confine, occupati dal nuovo business di dare un tetto ai giornalisti, guardano ansiosi al futuro. Sanno che presto, a ritiro terminato, saranno loro la prima linea, a portata di razzo Qassam. Nonostante ciò, la maggior parte delle persone che abita a pochi chilometri da Gaza è favorevole al disimpegno. Rachel e Shlomo sono originari di Haifa; abitano in un moshav (a differenza dei kibbuzim, nei moshav la comunità non mangia insieme, gli individui guadagnano indipendentemente e i figli vivono in casa con i genitori) a ridosso di Gaza, En Habesor. Nelle loro serre coltivano erbe. Sono arrivati qui nel 1982, quando attorno c’erano soltanto le dune del deserto del Negev. Ora questa è una regione verde. Nel ’79 sono stati evacuati dagli insediamenti del Sinai, dove vivevano in una roulotte, accanto alle loro serre. Sono entrambi favorevoli al ritiro, perché, dicono al Foglio, "dobbiamo dare una chance ai palestinesi", spiega Rachel, e perché "si stava meglio prima della guerra, quando gli insediamenti non c’erano". Anche i giovani del posto la pensano così. Sorseggiando una birra sotto il portico di una piccola casa bianca, Yael, agricoltore di trent’anni, e Ofer, che alleva volatili, dicono di non avere paura. Si rendono conto che presto saranno la prima linea. Yael racconta al Foglio che l’amministrazione del moshav ha fatto appena installare un sensore anti Qassam. "Serve a rilevare la presenza del razzo e ad avvertire con anticipo gli abitanti", dice poco convinto. I due ragazzi comprendono il rischio. Tuttavia pensano che il ritiro sia un passo verso la pace. Mark è nato invece a En Habshora, non lontano. Anche lui è favorevole al disimpegno: spera porti la pace ed è giusto dare una possibilità ai palestinesi. Fino a qualche settimana fa andava ogni sabato in spiaggia, a Gush Katif. Si lamenta perché ora dovrà fare 20 chilometri in più per raggiungere il mare. Sarà obbligato ad andare a nord, vicino ad Ashqelon. "Forse – scherza – fra qualche anno, con la pace, potremo tornare sulle spiagge di Gush". "Fra cent’anni", risponde sconsolato un amico. Il kibbuz di Kissufim, nato nel 1951, è l’ultimo centro abitato israeliano sulla strada che entra nella Striscia. I suoi abitanti sostengono in gran parte la decisione del premier Ariel Sharon. Due signore in bicicletta dicono al Foglio che non temono il dopo ritiro. Vivono a Kissufim da 40 anni e raccontano che si stava meglio prima del ’67, senza insediamenti israeliani a Gaza. Lo dice anche David, che vive da trent’anni nel kibbuz ed è nato in Argentina. E’ il responsabile della sicurezza e ferma gli estranei che vede aggirarsi nella zona, perché molte persone hanno tentato d’infiltrarsi nella Striscia attraverso Kissufim. "Il ritiro è una possibilità per una vita migliore. Penso che anche il popolo palestinese sia stanco di questa situazione e voglia vivere in pace". Il kibbuz di Nahal Oz è a ridosso dei territori palestinesi. Nel primo pomeriggio è deserto. A parlare per i suoi abitanti sono le auto posteggiate davanti ai gradini delle basse case. Non ci sono nastri arancioni, il colore dell’antidisimpegno, bensì blu e bianchi. Qui le persone appoggiano il piano del governo. Ma sono la futura prima linea. La prima grande città nelle vicinanze di Gaza è Ashqelon, un porto d’importanza strategica per Israele. Gli insediamenti a nord della Striscia sono stati pensati e voluti dai passati governi anche per proteggere questa città. Ad Ashqelon la popolazione è divisa. Non è più la primissima linea, ma il porto si sente minacciato. Lo dicono i tanti nastri arancione alle finestre. Lo confermano al Foglio quattro signore che discutono in una strada pedonale del centro. "Siamo contro, come lo è il 90 per cento della popolazione", spiega Lea, che insiste per telefonare alla madre ottantenne, nata a Tripoli, in Libia: parla italiano. Dal cellulare la signora dice di non temere i Qassam, ma di essere contro il piano. La figlia spiega: "I palestinesi dicono già ‘ora Gaza, poi la Cisgiordania e Gerusalemme’". E un commento di David Frum:
Perché Sharon evacua Gaza? Non perché crede che dopo sorgerà un affidabile Stato palestinese. A questo non crede nessuno. L’opinione quasi unanime degli esperti è che Gaza diventerà una sorta di Somalia del Mediterraneo: un instabile Stato fallito dove bande si scontreranno per il potere e nel quale l’islam estremista avrà un santuario. Sharon non sta agendo in risposta a pressioni internazionali. Il suo ritiro unilaterale ha sorpreso gli Stati Uniti e gli europei. I quali volevano che Sharon negoziasse con Abu Mazen e che il piano coinvolgesse tutti i territori palestinesi. E volevano che tutto il processo si svolgesse molto lentamente. La situazione strategica di Israele non ha forzato la mano: le forze israeliane avrebbero potuto tenere Gaza per anni. Neppure l’opinione pubblica interna può fornire una spiegazione: Sharon ha vinto le elezioni "opponendosi" al ritiro. Allora, perché, perché, perché? Ecco una teoria. Israele è la vittima di un’ipocrisia internazionale. Dopo le esperienze degli anni 90, poche persone continuano a farsi illusioni sul probabile carattere di uno Stato palestinese. La classe dirigente dell’Anp è corrotta. L’opposizione a questa classe dirigente è violenta ed estremista. L’opinione pubblica rifiuta la coesistenza con Israele. Uno Stato palestinese, quali che siano i suoi confini, scatenerà una guerra terroristica contro Israele e offrirà accoglienza agli estremisti islamici di tutto il mondo. Ucciderà i cittadini israeliani e minaccerà la sicurezza di europei e americani. I leader politici europei e americani sono consapevoli di questa sconsolante verità. Ma riconoscono che la questione palestinese ha acceso passioni nel mondo musulmano e tra le minoranze islamiche in occidente. I leader credono che per placare l’estremismo islamico devono mostrarsi impegnati per la creazione di uno Stato palestinese. Nel racconto "David Copperfield", scritto da Charles Dickens, c’è un personaggio che risponde sempre con un sospiro: Ah, se fosse per stato per lui, avrebbe sicuramente risposto con un "sì" con un certo piacere, ma con il suo compagno, Mr. Jorrocks, sarebbe molto più difficile… Allo stesso modo, i leader europei e americani favoriscono il "processo di pace" che spinge i palestinesi sempre più vicini ad avere uno Stato, senza mai raggiungerlo; un processo che pone gli israeliani a essere associati al Mr. Jorrocks del mondo. Sharon ha deciso di porre fine alla commedia. Il (quasi) panico dei ministri degli Esteri Il mondo vuole uno Stato palestinese? Bene, facciamoglielo avere. Il risultato è vicino al panico dei ministeri degli Esteri in occidente e in medio oriente. Gli egiziani non vogliono uno Stato di Hamas al confine. Pensavano che Sharon avrebbe messo un cordone di uomini tra l’Egitto e Gaza. Il premier ha risposto che non lo farà e che lascerà questo lavoro agli egiziani. Infatti lo scorso mese il ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, ha annunciato che 750 soldati egiziani sostituiranno i militari dell’IDF. Può essere che Sharon abbia capito il bluff dei governi occidentali e arabi, creando uno Stato palestinese che mostrano di volere ma in realtà temono? Li sta spingendo a dire la verità. La leadership palestinese è incapace di creare uno Stato che possa vivere in pace con chiunque. Qualcun altro deve governare questi territori violenti. Israele è stato condannato per quattro decadi per aver svolto quest’opera. Sharon ora sta dando questo compito a chiunque voglia partecipare. Nessuno vuole farlo. Ma Egitto e Giordania forse capiranno presto che non hanno scelta. Se c’è un segreto dietro il piano di Sharon, è questo. Sempre a pagina 1 dell'inserto una recensione del modo in cui LA REPUBBLICA ha affrontato il tema del ritiro: Roma. La logica è questa: il nemico del mio nemico è mio amico. Il messaggio nemmeno tanto subliminale è questo: prima Ariel Sharon era l’orco mangiapalestinesi, ora Sharon è l’orco mangiacoloni, e se fa una cosa giusta, la fa o in ritardo o male o con un secondo fine o con qualunque mezzo; prima gli abitanti degli insediamenti erano usurpatori della terra altrui, per di più armati fino ai denti, ora sono vecchi, donne, bambini e soprattutto giovani che si oppongono alla forza bruta dell’esercito d’Israele. Cioè i coloni sono diventati i nuovi palestinesi, i nuovi resistenti di fronte al "bulldozer" Sharon. Il catalogo è questo. "Violenze a Gaza, ma lo sgombero continua", titolo di prima pagina di Repubblica (Rep.) di mercoledì 17 agosto 2005. "Ebrei contro israeliani", titolo del commento di Sandro Viola su Rep. (prima pagina, 17 agosto 2005). "Quei guerrieri tra le fiamme", titolo del "reportage" da Neveh Dekalim su Rep. (prima pagina, 17 agosto 2005). Inizio dell’articolo: "I guerrieri della Grande Israele se ne stanno ammassati dietro la barricata di copertoni in fiamme e cassonetti rovesciati urlando la loro litania di slogan". Didascalia a pagina due di Rep (17 agosto 2005): "Guerriglia urbana". Sottotitolo, stessa pagina e stesso giorno e stessa Rep.: "Nella notte i militari entrano nella roccaforte dei coloni", poco importa che, come si racconta nell’articolo di Fabio Scuto, stessa pagina e stesso giorno e stessa Rep., "migliaia di soldati e agenti di polizia israeliani disarmati" fossero appunto "disarmati", lo scenario dev’essere quello di una guerra civile o quasi, magari di una guerra di religione o di uno scontro di civiltà: "Ebrei contro israeliani". Poco importa che "a fronteggiare i giovani oppositori" siano agenti dal cui "equipaggiamento si capisce che hanno l’ordine di usare il guanto di velluto", come raccontano Alberto Stabile e Massimo Dell’Omo, stessa pagina e stesso giorno e stessa Rep., perché "non hanno scudi, né bastoni, né elmetti". Poco importa se "i poliziotti non hanno neanche le manette alla cintura". Poco importa perché: "Una ruspa sfonda i cancelli. E’ l’ultima ‘guerra’ di Sharon", titolo a pagina due di Rep. (17 agosto 2005). Del resto, "Ora Sharon è preso tra quattro fuochi. Appiccati dai coloni", titolo del Venerdì di Rep. (5 agosto 2005). "Una sfida mortale" "Bulldozer-Sharon" – titolo della Domenica di Rep. del 14 agosto 2005, pagina 25 – secondo i titolisti di Rep. è proprio pronto a tutto: "Una sfida mortale", stesso giorno e stessa pagina e stessa Rep. "Tornano le gabbie per i coloni. Israele si prepara alla battaglia", era il titolo di un articolo di Rep. del 28 luglio 2005. Poco importava che come si diceva nel racconto, stesso giorno e stessa pagina e stessa Rep., "non è detto che poi saranno usate", battaglia doveva essere, con gabbie, gabbie pronte ad accogliere come animali gli oppositori più tenaci al piano di ritiro, annidati "nella fortezza dei coloni che non si arrendono" (Domenica di Rep. del 26 giugno 2005), mentre "un’armata di zeloti aspetta di affrontare i militari" (Rep. di lunedì 15 luglio 2005). La situazione in Israele è tesa, quello di Sharon è un drammatico atto di speranza, le tensioni si possono aggravare anche per il gesto di un singolo, come l’uccisione di tre palestinesi da parte di un israeliano ieri in Cisgiordania. Proprio per queste ragioni "le parole sono importanti", lo dice anche Nanni Moretti in Palombella rossa. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita. Roma. La logica è questa: il nemico del mio nemico è mio amico. Il messaggio nemmeno tanto subliminale è questo: prima Ariel Sharon era l’orco mangiapalestinesi, ora Sharon è l’orco mangiacoloni, e se fa una cosa giusta, la fa o in ritardo o male o con un secondo fine o con qualunque mezzo; prima gli abitanti degli insediamenti erano usurpatori della terra altrui, per di più armati fino ai denti, ora sono vecchi, donne, bambini e soprattutto giovani che si oppongono alla forza bruta dell’esercito d’Israele. Cioè i coloni sono diventati i nuovi palestinesi, i nuovi resistenti di fronte al "bulldozer" Sharon. Il catalogo è questo. "Violenze a Gaza, ma lo sgombero continua", titolo di prima pagina di Repubblica (Rep.) di mercoledì 17 agosto 2005. "Ebrei contro israeliani", titolo del commento di Sandro Viola su Rep. (prima pagina, 17 agosto 2005). "Quei guerrieri tra le fiamme", titolo del "reportage" da Neveh Dekalim su Rep. (prima pagina, 17 agosto 2005). Inizio dell’articolo: "I guerrieri della Grande Israele se ne stanno ammassati dietro la barricata di copertoni in fiamme e cassonetti rovesciati urlando la loro litania di slogan". Didascalia a pagina due di Rep (17 agosto 2005): "Guerriglia urbana". Sottotitolo, stessa pagina e stesso giorno e stessa Rep.: "Nella notte i militari entrano nella roccaforte dei coloni", poco importa che, come si racconta nell’articolo di Fabio Scuto, stessa pagina e stesso giorno e stessa Rep., "migliaia di soldati e agenti di polizia israeliani disarmati" fossero appunto "disarmati", lo scenario dev’essere quello di una guerra civile o quasi, magari di una guerra di religione o di uno scontro di civiltà: "Ebrei contro israeliani". Poco importa che "a fronteggiare i giovani oppositori" siano agenti dal cui "equipaggiamento si capisce che hanno l’ordine di usare il guanto di velluto", come raccontano Alberto Stabile e Massimo Dell’Omo, stessa pagina e stesso giorno e stessa Rep., perché "non hanno scudi, né bastoni, né elmetti". Poco importa se "i poliziotti non hanno neanche le manette alla cintura". Poco importa perché: "Una ruspa sfonda i cancelli. E’ l’ultima ‘guerra’ di Sharon", titolo a pagina due di Rep. (17 agosto 2005). Del resto, "Ora Sharon è preso tra quattro fuochi. Appiccati dai coloni", titolo del Venerdì di Rep. (5 agosto 2005). "Una sfida mortale" "Bulldozer-Sharon" – titolo della Domenica di Rep. del 14 agosto 2005, pagina 25 – secondo i titolisti di Rep. è proprio pronto a tutto: "Una sfida mortale", stesso giorno e stessa pagina e stessa Rep. "Tornano le gabbie per i coloni. Israele si prepara alla battaglia", era il titolo di un articolo di Rep. del 28 luglio 2005. Poco importava che come si diceva nel racconto, stesso giorno e stessa pagina e stessa Rep., "non è detto che poi saranno usate", battaglia doveva essere, con gabbie, gabbie pronte ad accogliere come animali gli oppositori più tenaci al piano di ritiro, annidati "nella fortezza dei coloni che non si arrendono" (Domenica di Rep. del 26 giugno 2005), mentre "un’armata di zeloti aspetta di affrontare i militari" (Rep. di lunedì 15 luglio 2005). La situazione in Israele è tesa, quello di Sharon è un drammatico atto di speranza, le tensioni si possono aggravare anche per il gesto di un singolo, come l’uccisione di tre palestinesi da parte di un israeliano ieri in Cisgiordania. Proprio per queste ragioni "le parole sono importanti", lo dice anche Nanni Moretti in Palombella rossa.