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La Stampa Rassegna Stampa
17.08.2005 Per Avraham B. Yehoshua il ritiro da Gaza apre il conflitto tra religiosi e laici in Israele
l'opinione dello scrittore israeliano

Testata: La Stampa
Data: 17 agosto 2005
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yehoshua
Titolo: «Religiosi contro laici»
LA STAMPA di domenica 17 agosto 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Avraham B. Yehoshua sul ritiro da Gaza.
Lo riportiamo senza entrare nel merito delle tesi sostenute dall'autore.

Ecco il testo:

DURANTE un programma televisivo israeliano la sinistra è stata accusata di non avere un ruolo sufficientemente attivo nello scontro tra il blocco della destra radicale (soprattutto i religiosi nazionalisti) e il governo di Ariel Sharon sul tema del ritiro unilaterale. Finora, per esempio, i sostenitori del ritiro non hanno organizzato alcuna manifestazione significativa in contrapposizione alle grandi e numerose manifestazioni messe in atto dagli oppositori a questa iniziativa. Si ha la sensazione che il burrascoso dibattito si svolga all'interno della destra e non veda i sostenitori della pace contrapporsi ai nazionalisti. L'odio per Ariel Sharon e gli attacchi verbali nei suoi confronti da parte della destra estremista raggiungono toni molto aspri a causa della sensazione di tradimento di un leader che in passato era particolarmente attivo nell'insediamento di coloni nei territori occupati. Il «tradimento» di Sharon è lo stesso che provarono i francesi in Algeria verso Charles de Gaulle prima del ritiro da quello Stato. Ufficiali della nobiltà francese tentarono di assassinare de Gaulle, nonostante fosse un leader nazionale di grandissimo prestigio, molto più ammirato di quanto lo sia Ariel Sharon, la cui personalità è sempre stata controversa. Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, era considerato un rivale dai sostenitori della destra, un rappresentante del partito laburista, e nonostante venisse rispettato per il suo ruolo di capo di stato maggiore dell'esercito durante la vittoriosa guerra dei sei giorni, l'accordo di Oslo da lui siglato non venne visto come un tradimento ma come uno sciagurato errore.
La sinistra, anche durante la guerra del Libano, non osò mai attaccare Sharon come fanno oggi gli esponenti della destra religiosa con uno stile particolarmente velenoso. Non credendo infatti in processi economici e sociali ma in visioni idealistiche, questi ultimi utilizzano molto di più il termine «tradimento personale» di quanto non facciano i progressisti. Essi interpretano l'evolversi della realtà come manifestazione della volontà personale del leader, il quale esprime, o tradisce, lo spirito popolare. Viceversa la sinistra considera le azioni politiche come conseguenza di interessi e di sviluppi economici.
In un modo o nell'altro si ha la sensazione che i sostenitori della pace (i quali avrebbero preferito raggiungere un accordo piuttosto che compiere un ritiro parziale dai territori occupati) rimangano in disparte. L'intesa raggiunta da de Gaulle per la liberazione dell'Algeria dal giogo del colonialismo fu comprensiva e siglata d'intesa con il popolo algerino, mentre il disimpegno di Sharon è parziale e unilaterale. La sinistra naturalmente accoglie con favore questa iniziativa, nonché il fatto che sia Sharon stesso a portarla avanti giacché il blocco progressista non possiede la forza sufficiente per farlo. D'altro canto, però, teme anche che dopo il ritiro non solo il processo di pace si arenerà ma che il governo viri a destra, rafforzando la presa sugli insediamenti della Giudea e della Samaria, e guarda quindi a Sharon con uno sbalordimento stemperato dal sospetto.
Come ho già avuto modo di sottolineare nei miei articoli precedenti è sempre più chiaro che a investire le maggiori energie nell'opposizione allo sgombero degli insediamenti della striscia di Gaza siano i religiosi nazionalisti (non gli ultraortodossi, e naturalmente nemmeno i riformisti o gli appartenenti ad altri movimenti religiosi liberali). Costoro possiedono la forza e il tempo da sprecare in manifestazioni. Non solo hanno a disposizione schiere di coloni dalla Giudea e dalla Samaria che vedono nella lotta per Gush Katif una battaglia personale, ma alla base del loro impegno politico sta una forte motivazione religiosa, un fenomeno sempre più diffuso oggi nel mondo. L'incanalarsi di sentimenti religiosi verso questioni politiche, la capacità di sacrificio, la rinuncia alle comodità, l'accontentarsi di poco, l'arruolamento massiccio di ragazzi e bambini nella lotta, tutti questi elementi caratterizzano oggi i fanatici religiosi di tutto il mondo e concedono loro grandi vantaggi rispetto ai sostenitori della pace e del liberalismo, occupati nelle loro faccende, nel condurre una vita di agi, nelle loro carriere personali. Nelle manifestazioni, inoltre, vedremo molti più attivisti religiosi che laici di destra le cui abitudini e le cui priorità non sono dissimili da quelle dei sostenitori della sinistra.
La cosa incredibile però è che il fanatismo religioso sia esploso per un fazzoletto di terra situato nel cuore dei campi profughi palestinesi e che gli integralisti abbiano attribuito un profondo significato religioso all'insediamento in una striscia di terra mai ufficialmente accorpata allo Stato di Israele, non sotto la sua diretta sovranità ma sotto il suo controllo militare e in cui, di conseguenza, in base alla legge internazionale, è proibito insediarsi.
Ai miei occhi è anche sbalorditivo che chi istiga all'opposizione al ritiro e conduce la lotta siano i rabbini, i quali considerano il disimpegno da Gaza come un tremendo peccato religioso. E a cosa è dovuto il mio sbalordimento? Al fatto che fino a cento anni fa i religiosi di varia natura erano i più feroci oppositori al sionismo. Fino alla fine della Prima guerra mondiale essi rappresentavano la maggior parte del popolo ebreo ma rifiutarono di tornare alla terra di Israele e di stabilirvisi. I progenitori di chi oggi lotta con tutte le sue forze per ogni duna di sabbia di Gush Katif rinunciarono alla terra di Israele e a Gerusalemme per centinaia di anni frenando il ritorno degli ebrei alla loro madrepatria (malgrado la cosa fosse possibile). Il movimento sionista era sostanzialmente laico, così come i suoi leader: Herzl, Ben Gurion e Weizman. Dopo la dichiarazione Balfour nel 1917, allorché fu concessa l'opportunità al popolo ebreo (che allora contava 18 milioni di persone), di recarsi nella terra di Israele per costruirvi uno Stato prima della Seconda guerra mondiale (un'opportunità che avrebbe probabilmente potuto salvare milioni di ebrei dai forni crematori nazisti) solo un pugno di essi vi si trasferì e la maggior parte erano laici, non religiosi.
Ora gli ebrei credenti sono divenuti i paladini della terra d'Israele dopo aver costruito per centinaia di anni un'identità ebraica disposta a rinunciare a un territorio reale e lasciandolo solo all'immaginario quale «terra santa».
Di conseguenza i territori che oggi i religiosi santificano con urla e strepiti non sono che un pretesto per arrestare il nazionalismo laico dello Stato di Israele. Al pari degli integralisti musulmani i credenti ebrei vogliono opporsi al liberalismo razionale del mondo e di un Israele democratico basato su un governo regolato dalle decisioni della maggioranza. Così come ai loro occhi gli arabi non possiedono alcun diritto umano fondamentale né quello di cittadinanza, essi disprezzano i diritti civili della maggioranza laica ebraica che ha deciso lo sgombero della zona occupata della striscia di Gaza e la sua restituzione ai palestinesi.
La battaglia vera e propria è cominciata. Noi siamo certi della vittoria dello Stato di diritto e della volontà della maggioranza approvata dalla Knesset. E malgrado gli oppositori a questa legittima iniziativa del governo israeliano metteranno in scena, sia per i media israeliani che per quelli stranieri, strazianti «scene teatrali» dello sgombero di case e di insediamenti, noi speriamo che non vi sia alcun spargimento di sangue. Speriamo anche che l'Europa conceda il massimo appoggio a questo piano e aiuti i palestinesi della striscia di Gaza liberata a ricostruirsi una vita, a dare il via ad ampi progetti di sviluppo affinché si continui, secondo questo modello, un processo analogo anche in Giudea e in Samaria, negli altri territori che verranno restituiti ai palestinesi perché questi ultimi possano costruirvi il loro Stato a fianco di quello di Israele.
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