Il ritiro da Gaza: necessità e nuova speranza il discorso di Ariel Sharon alla nazione
Testata: Il Foglio Data: 17 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Ariel Sharon -un giornalista Titolo: «Così Sharon ha spiegato il ritiro come drammatico atto di speranza - Via i coloni. Viva i coloni»
IL FOGLIO di mercoledì 17 agosto 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto il discorso alla nazione del premier israeliano Ariel Sharon pronunciato il 15 agosto.
Ecco il testo: Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me, si tratta di un momento particolarmente difficile. Il governo israeliano ha deciso di procedere al disimpegno a malincuore, e la Knesset non ha certo approvato tale decisione a cuor leggero. Non ho mai nascosto che, come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza. Ci siamo sforzati di raggiungere degli accordi con i palestinesi perché i due popoli potessero percorrere insieme il cammino della pace, ma si sono tutti infranti contro un muro fatto di odio e di fanatismo. Il piano di disimpegno unilaterale, che annunciai circa due anni fa, rappresenta la risposta israeliana a questa realtà. Il piano rientra nell’interesse di Israele, qualsiasi cosa possa succedere in futuro. Stiamo già riducendo gli scontri quotidiani e le relative vittime da entrambe le parti, e l’IDF (l’esercito israeliano, ndr) tornerà a dispiegarsi lungo le linee difensive dietro il muro di sicurezza. Coloro che continueranno a combattere contro di noi dovranno fare i conti con la risoluta risposta dell’IDF e delle forze di sicurezza. Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai. Il disimpegno ci permetterà di rivolgere la nostra attenzione alla situazione interna: i nostri programmi nazionali cambieranno; nella nostra politica economica saremo liberi di colmare i divari sociali e di impegnarci in una vera lotta contro la povertà, miglioreremo il sistema scolastico e aumenteremo la sicurezza personale di ogni singolo cittadino del paese. I disaccordi emersi sul piano di disimpegno hanno provocato ferite profonde, inasprito l’odio tra fratelli e portato a dichiarazioni e azioni gravi. Io capisco tali sentimenti, il dolore e il pianto di chi è contrario. Tuttavia, rimaniamo una nazione sola anche quando ci combattiamo e affrontiamo. Residenti della Striscia di Gaza: finisce oggi un capitolo glorioso nella storia di Israele, e un capitolo fondamentale in quella delle vostre vite come pionieri, come gente che ha saputo realizzare un sogno e ha sostenuto l’onere della sicurezza e degli insediamenti per tutti noi. Il vostro dolore e le vostre lacrime costituiscono una parte indissolubile della storia del nostro paese. Qualsiasi disaccordo possiamo avere, non vi abbandoneremo, e a seguito dell’evacuazione faremo tutto quanto in nostro potere per ricostruire le vostre vite e le vostre comunità. Desidero dire ai soldati dell’IDF, ai funzionari della Polizia e della Polizia di frontiera israeliane quanto segue: la vostra missione è difficile, perché quelli che siete chiamati ad affrontare non sono nemici, ma fratelli e sorelle. Dovrete dare prova di grande sensibilità e pazienza: sono sicuro che ne sarete capaci. Voglio che sappiate che l’intera nazione vi sostiene ed è orgogliosa di voi. Israeliani, la responsabilità del futuro di Israele grava sulle mie spalle. Ho dato inizio al piano perché sono giunto alla conclusione che questo provvedimento sia vitale per Israele. Credetemi, il dolore che provo compiendo questo atto è pari soltanto all’incrollabile convinzione che fosse assolutamente necessario. Stiamo intraprendendo un nuovo cammino che presenta molti rischi, ma offre anche un raggio di speranza a tutti noi. Con l’aiuto di Dio, speriamo che sia un cammino di unità e non di divisione, di rispetto reciproco e non di animosità tra fratelli, di amore incondizionato e non di odio senza ragione. Da parte mia farò tutto il possibile perché sia così. Ariel Sharon A pagina 3 troviamo l'editoriale "Via i coloni, viva i coloni" che riportiamo: La decisione assunta da Ariel Sharon, si può intendere con quanta intima sofferenza, di far evacuare gli insediamenti di coloni ebrei dalla striscia di Gaza, ha la grandezza tragica degli atti storicamente necessari. Che per cercare di stabilire una possibilità di convivenza di due popoli e di due Stati in Terrasanta questi popoli debbano essere divisi è appunto una tragica necessità. In un tempo in cui tutti plaudono, spesso soltanto per conformismo, al concetto di Stato multietnico e multiculturale, lì si assiste all’impossibilità che civili ebrei possano sopravvivere con un minimo di sicurezza sotto amministrazione palestinese. Ci sono di mezzo, è vero, una guerra perduta e i territori occupati. Nessuno, però, denuncia l’intolleranza araba nei confronti degli ebrei, e questo fa sentire i coloni soli e abbandonati e ne induce la parte più tenace a ribellarsi all’ennesima ingiustizia della storia che li colpisce. Sharon ha ragione nel sottostare all’esigenza storica e pratica, sa che lo Stato ebraico può vincere la sua eterna battaglia per la sopravvivenza solo se riesce a uscire dalla contrapposizione tra Erez Israel e l’islam territoriale. Non si tratta solo di "pace contro territori", ma della dimostrazione di saper abbandonare la terra senza aver subito una sconfitta militare, in modo da affermare che il diritto al territorio non nasce soltanto dai rapporti di forza militari, che l’enorme squilibrio numerico tra ebrei e arabi, rende a lungo termine insostenibili. I coloni, che pagano in proprio il prezzo di questa scelta obbligata, hanno diritto anch’essi all’onore delle armi. Non sono, come sono stati dipinti da un’opinione pubblica venata di razzismo, occupanti imperialisti o "fascisti" del Likud. Sono persone che, anche in memoria di un’antichissima terra promessa, hanno cercato lì il riscatto da una vita di oppressione, patita nei paesi arabi o in quelli comunisti dai quali la grandissima maggioranza di loro proviene. Hanno sognato, come gli eroi delle epopee contadine di tutto il mondo, che, coltivando la terra con il sudore della fronte, questa divenisse la loro terra. A loro, perché ebrei, questo esito è stato negato. Non per questo la loro non è una storia eroica, di fatica, di lavoro, di dedizione e di speranza. Ora debbono abbandonare le case che hanno costruito, i campi che hanno coltivato, come le carovane di mezzadri che erano costretti a fare San Martino dalle inesorabili leggi della proprietà agraria. La storia e le sue contraddizioni lo impongono, senza che questo debba ledere la loro indomita dignità. 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