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La Repubblica Rassegna Stampa
15.08.2005 Mappa ideologica del sionismo religioso
per comprendere la lacerazione della società israeliana

Testata: La Repubblica
Data: 15 agosto 2005
Pagina: 1
Autore: Renzo Guolo
Titolo: «Le due anime di un Paese»
LA REPUBBLICA di domenica 15 agosto 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 20 un articolo di Renzo Guolo sul ritiro da Gaza. Il sociologo della religione ha il merito di spiegare chiaramente in questo testo come la corrente maggioritaria del sionismo religioso che si oppone al ritiro sia estranea, nei fatti e per cultura politica, premesse ideologiche e teologiche, agli incitamenti alla violenza e alla diserzione. Incitamenti che appartengono piuttosto agli ambienti kahanisti, minoritari anche nell'ambito dell'area dei coloni e del movimento antiritiro, e gravitanti nell'orbita di un partito, il Kach, fuorilegge in Israele.
Una risposta, che viene semplicemente dai fatti, a quanti accusano Israele di aver tollerato e blandito un estremismo che mette ora in pericolo la tenuta delle sue istituzioni democratiche.

Ecco il testo:

Sul contrastato ritiro da Gaza Israele gioca una partita che va al di là della strategica questione dei confini e della sua sicurezza. Lo smantellamento delle colonie suscita in alcuni settori della società israeliana opposizioni radicali. Reazioni che hanno a che fare con la lealtà politica verso lo stato democratico, con il patto fondativo che lo regge, con il particolare ruolo di Tsahal, le forze armate, nella civil religion israeliana, con l´eredità del sionismo.
L´estrema destra riconducibile ideologicamente al Kach, e ai movimenti dell´area kahanista che da quella formazione discendono, è decisa a opporsi con ogni mezzo all´evacuazione. Non così il più vasto schieramento sionista religioso, pur decisamente contrario al ritiro.
I nazionalreligiosi sono stati negli ultimi decenni l´anima del Gush Emunim, quel Blocco della fede punta di diamante della colonizzazione dei Territori. Il ritiro da Gaza rappresenta per loro uno scacco enorme. Ora si interrogano sul che fare nell´imminenza dell´ultima ora. Praticare una resistenza dura ma passiva, da capitalizzare politicamente nelle prossime elezioni in cui appoggeranno il ritrovato Netanyahu? O dare vita a azioni più dirompenti, caratterizzate da un forte tratto identitario, che rischiano però di essere politicamente costose? I più ritengono che l´opposizione al ritiro non possa mettere in discussione la lealtà nei confronti delle istituzioni. Non a caso nelle scorse settimane alcuni tra i leader più influenti del sionismo religioso hanno condannato non solo i primi incidenti al Gush Katif ma anche i blocchi stradali e i lanci di olio e chiodi nelle carreggiate organizzati da gruppi come il Bayit Leumi. E i leader del Mafdal (Pnr), storica formazione nazionalreligiosa, hanno minacciato di espulsione quanti nella "nuova giovane guardia" sono tentati dallo scontro frontale con polizia ed esercito. Aumenta infatti, tra i sionisti religiosi, il numero di chi non vuole assistere, senza reagire, alla ripetizione della "mutilazione di Yamit": la città, sorta dal nulla in territorio egiziano, da cui i coloni furono fatti sgomberare nel 1982 nell´ambito degli accordi che riportarono il Sinai sotto la sovranità del Cairo. Evacuazione che vide allora coloni e militanti del Gush Emunim limitarsi, se non in casi isolati, a una tenace resistenza passiva. Nell´occasione i rabbini del Blocco della Fede, pur fautori di quella "teologia della Terra" secondo cui solo il possesso dell´intera, biblica, Eretz Israel può accelerare il processo di Redenzione divina, non diedero luce verde a quanti teorizzavano lo scontro con le forze armate.
La ragione di quello stop rabbinico vanno rintracciate nei fondamenti teologici della cultura politica nazionalreligiosa. Tzvi Yehuda Kook, leader religioso del Gush Emunim e, soprattutto, figlio del rabbino Avraham Yithzak Kook, padre spirituale del sionismo religioso e della "teologia della Terra", ricordava spesso come Tsahal sia, sebbene inconsciamente, "un´istituzione santa". In quanto prima ha consentito la sopravvivenza dello stato di Israele, poi la riconquista di "Gaza, Giudea e Samaria". L´attribuzione di "santità inconscia" alle forze armate israeliane è il frutto del giudizio di Rabbi Kook padre sul movimento sionista. Movimento, affermava la storica guida della yeshiva di Merkaz Ha Rav ancora nei primi decenni del secolo scorso, solo apparentemente pagano: in realtà la sua straordinaria volontà di potenza, tesa alla rinascita, dopo millenni, dello stato di Israele, rivelava il suo inconfondibile carattere di strumento divino. In nome di quel teleologico giudizio i nazionalreligiosi, contrariamente ai gruppi haredim o ultraortodossi che non riconoscono alcun carattere religioso e salvifico all´attuale stato di Israele, non hanno mai rifiutato di prestare servizio militare. Hanno però ottenuto di proseguire la loro formazione religiosa durante la leva. Sono nati così i seminari militari. Nelle yeshiva hesder i giovani abbinano un periodo operativo a uno, più lungo, di studio della Torah. Una scelta valsa ai nazionalreligiosi il rispetto dell´intera società israeliana, assai critica invece nei confronti della renitenza degli haredim. Nonostante la crisi della cultura sionista emersa con le trasformazioni sociali degli anni Ottanta e con l´arrivo della massiccia ondata migratoria degli anni Novanta, Tsahal è ancora ritenuta dalla maggioranza degli israeliani non solo una forza armata ma anche un luogo di formazione della coscienza civica e nazionale.
Gli allievi dei seminari militari sono stati inquadrati in apposite unità. Collocazione che, a detta dei loro rabbini, permetteva di soddisfare i loro bisogni religiosi ed evitare il "contagio", morale e ideologico, con i soldati laici.. Questa separatezza è stata poi messa in discussione dagli stessi comandi quando il quadro politico-militare in cui operavano è mutato. I comandi temevano che quelle unità di soldati con la kippah a uncinetto sotto l´elmetto potessero creare problemi nel momento in cui si fossero verificate situazioni di contrasto tra ordini e credenze religiose. Quel momento è venuto.
È a questo mondo di particolari soldati, che si rivolge oggi la propaganda dei kahanisti. Il loro obiettivo è quello di indurre una campagna di disobbedienza di massa tra i coscritti religiosi, di cui si è vista la contagiosa anticipazione nel caso Bieber, primo refusenik di estrema destra. Dopo che il soldato Bieber si è rifiutato di partecipare a una operazione di distruzione di case nel Gush Katif, gridando il tipico slogan dei coloni "gli ebrei non espellono altri ebrei", almeno cinquanta soldati religiosi e decine di riservisti si sono rifiutati di obbedire agli ordini. Alcuni hanno disertato armi in pugno, come Natan Zada, l´autore dell´attacco terroristico nel bus di Shfaram. Una situazione preoccupante: anche perché le unità scelte, solitamente impiegate nei Territori, includono parecchi di quei soldati. Tanto che il capo di stato maggiore della Difesa Halutz ha imposto la mano dura nei confronti delle compagnie che non sanno imporre la disciplina e ha messo in guardia contro il pericolo che nelle forze armate si creino milizie parallele. Il timore della disobbedienza diffusa, distruttiva per un´organizzazione militare, è alimentato da pronunciamenti, come quelli degli ex-rabbini capo di Israele Shapiro e Eliyahu, che invitano i sodati a non obbedire all´ordine di sgomberare le colonie.
Contrariamente ai nazionalreligiosi i kahanisti ritengono lecito opporsi con la forza al ritiro. Come tutti i militanti messianici radicali essi non ritengono accettabili le decisioni di uno stato democratico se configgono con valori, come il possesso della Terra, ritenuti non negoziabili in quanto espressione della volontà divina. Né, tanto meno, riconoscono alcuna aura di santità a un´istituzione come Tsahal, accusata di scacciare gli ebrei dagli insediamenti. Il rifiuto del "tabù di Tsahal" ha indotto le autorità israeliane a cercare di rendere inoffensivi i militanti kahanisti con provvedimenti amministrativi che ne limitano la libertà di movimento. O, nel caso di cittadini con doppia cittadinanza, in particolare israeliana e americana, tra i quali il Kach è assai radicato, con espulsioni.
Anche i kahanisti sono spinti all´azione da particolari credenze religiose. Sono influenzati dal pensiero del loro defunto maestro, il rabbino Mehir Kahane, messo al bando dalle istituzioni israeliane per le sue posizioni razziste e poi ucciso negli Usa da un fondamentalista islamico. I kahanisti ritengono che l´accelerazione della Redenzione mediante l´attivismo umano sia possibile solo all´interno di una precisa e ciclica finestra temporale: quarant´anni di tempo, a partire da un evento simbolico carico di significati. Nel caso specifico la presa dei Territori dopo la Guerra dei Sei giorni, avvenuta nel 1967. Un tempo che sta inesorabilmente per scadere: poi la Redenzione dipenderà esclusivamente dalla sola volontà divina. Ma il kahanismo è animato anche da una sorta di "teologia della vendetta". Kahane riteneva la nascita dello stato di Israele una punizione divina contro i "gentili" che mettono costantemente in pericolo l´esistenza degli ebrei. L´evacuazione delle colonie è oggi interpretata dai suoi seguaci come una tragica nemesi. Come una vendetta a parti rovesciate foriera di nuovi olocausti.
Com´era prevedibile la lunga vicenda della colonizzazione mette alla prova la stessa natura della democrazia israeliana. Il ritiro da Gaza fa emergere il conflitto tra legittimità politica e legittimità religiosa delle istituzioni. Fa scoprire al mondo sionista religioso nuove estraneità e nuove affinità, allontanandolo dalle correnti laiche e riavvicinandolo idealmente alle correnti haredim, da cui è stato diviso per oltre un secolo dal giudizio sulla natura dello stato di Israele. Nelle circostanze Tsahal perde la sua natura di istituzione condivisa. E ancora una volta, dopo Rabin, il rischio che estremisti israeliani mettano in pericolo la vita di un premier per le sue posizioni sulla questione della Terra si fa concreto. Su quella calda linea di sabbia in riva al Mediterraneo è in discussione ben più delle sorti di qualche insediamento. Israele si trova davanti a ore tra le più drammatiche della sua storia.
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